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Canzone post-d’Autore (?)

Canzone post-d’Autore (?)
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Sono state consegnate il 6 dicembre al Teatro Ariston di Sanremo le targhe Tenco 2014, andate—per la cronaca—a Museica di Caparezza come album dell'anno (in realtà tutto il materiale non doveva oltrepassare, come data d'uscita, il 31 agosto), Penisolâti del friulano Loris Vescovo come miglior disco in dialetto, Le cose belle di Filippo Graziani (figlio di Ivan) per l'opera prima, Dago Red di Raiz e Fausto Mesolella per il miglior album d'interprete e "Lettera di San Paolo agli operai" dei Virginiana Miller come canzone dell'anno. Tutti i premiati si sono esibiti in un miniset, così come l'ospite d'onore David Crosby, a sua volta oggetto di un premio alla carriera.

Ora, senza voler entrare nel merito di tali assegnazioni (è la maggioranza, nella fattispecie una nutrita giuria di giornalisti, che fa la legge), proviamo a lanciarci in qualche considerazione per così dire tangente. Limitandoci a due categorie: i migliori album rispettivamente di (cant)autore e di interprete. Nel primo contesto è evidente ormai da anni un vistoso cambio di rotta, un palpabile ricambio generazionale che dai votanti scivola ai votati e viceversa. Ciò determina regolarmente la presenza, nella cinquina delle nomitations emerse dal primo giro di consultazioni su cui i grandi elettori (chiamiamoli così) devono tornare a esprimersi una seconda volta, di artisti giovani e non di rado poco noti, fuori da logiche di majors e conventicole varie.

Tutto ciò ci consente di evidenziare (tagliando tutto un po' con l'accetta, ma è piuttosto inevitabile) un paio di filoni "dominanti" tra coloro che hanno seguito le seconde e terze generazioni cantautoriali, vale a dire grosso modo i trenta/quarantenni. A emblema del primo può esser preso, fra quanti si sono piazzati alle spalle di Caparezza, Brunori Sas con Il cammino di Santiago in taxi (Picicca/Sony), lavoro disinvolto e gradevole, non banale ma magari qua e là un po' epidermico, ironico, arguto e ottimamente impacchettato.

Se padri putativi di tale filone (ipotetico e ipotizzato, s'intende) possono essere figure eccentriche rispetto al grande ceppo cantautoriale quali un Rino Gaetano o un Franco Fanigiulo (ma a Brunori Sas—calabrese, come Gaetano—non sembra far difetto neppure un attento ascolto di De Gregori), un personaggio come il torinese Ila Rosso, uscitosene in ottobre (e quindi votabile nel 2015) col suo secondo album, Secondo me i buoni (Inri), sembra sommare l'arguzia e il disincanto di cui sopra con una più esplicita messa in gioco del proprio personale, oltre a un taglio civile più spiccato, memore in maniera più massiccia del ceppo cui si accennava. "Ho poca dimestichezza con l'inglese—chiosa il diretto interessato—per cui ho ascoltato soprattutto gli italiani, o al limite, da buon piemontese, i francesi." Gente della Camargue, per esempio. Gente che bazzicava la spiaggia di Sète. Vabbé, Brassens, l'avete capito.

A Tonton Georges, Ila Rosso si rifà nel taglio (la costruzione) della canzone, la giustapposizione tematica, il ritmo, la scorrevolezza di tracciato (perlomeno apparente). Piccole gemme presenti in Secondo me i buoni quali "Cerco l'azzurro," "La storia è sempre quella" o "I morti" lo testimoniano in maniera piuttosto eloquente. Più in generale, colpisce la nitidezza (la messa a fuoco) della proposta, l'equilibrio tra cantato e suonato, un didascalismo sufficientemente ironico da non apparire mai verboso. L'iniziale "Canzone dei Murazzi," quella "Filastrocca dei mesi" che va a inserirsi (felicemente) in un comparto già ben frequentato in ambito cantautoriale, dalla gucciniana "Canzone dei dodici mesi" alla recentissima "Piogge" di Max Manfredi, "Ballata degli ultimi ubriaconi" e "La canzone cafona" sono gli altri titoli che emergono dall'album.

Se il primo filone di cui dicevamo, con tutti i distinguo del caso, ama cucirsi addosso un abito prevalentemente acustico, l'altro, di cui può esser preso a paradigma, sempre fra i "nominati" alle ultime targhe Tenco, Costellazioni (La Tempesta) delle Luci della Centrale Elettrica (alias Vasco Brondi), predilige invece sonorità di preferenza elettriche (chitarristiche, in primis), spesso scure, magmatiche, ruvide, grumose. A questo ambito, fra quanti non hanno invece passato le maglie della giuria tenchiana e meritano per questo una segnalazione ancor più convinta, appartiene Petali (Controrecords), terzo album di Gianluca Mondo, anch'egli torinese (ma genovese adottivo), artista complesso—si direbbe—che affianca parlati e cantati con identica efficacia, capacità di giungere al destinatario, grazie a un impatto che non lascia indifferenti, prediligendo paesaggi spesso lividi, mai inoffensivi, densi e incisivi. Qualche titolo: "Il dilemma del porcospino," "Rivelazioni," "Petali," "Valentina Blues," "Nebbia fra gli scacchi," "Io te lei lui."

Se dei padri putativi possono esser trovati a questo secondo filone, uno di loro è di certo Lou Reed, al quale è di fatto dedicato uno dei CD per diversi motivi più significativi del 2014, rimasto per contro fuori dalle più volte citate nominations, pur potendo addirittura ambire a entrare in due sezioni: album di cantautore e d'interprete (appunto). Stiamo parlando di Ex Live (Lilium), che vede riuniti (dal vivo) Gian Carlo Onorato e Cristiano Godano (dei Marlene Kuntz) ed è equamente diviso tra canzoni tratte dai rispettivi repertori, riletture di brani altrui (Reed, ma anche Beck, Neil Young e Nick Cave) e testi poetici di Onorato, il primo dei quali cita John Cage (e più avanti un altro s'intitola "Lou Reed, vestito di nero"). Intenso (e torvo) il clima globale (emblematica la copertina), di diffusa suggestione.

Dopo averla appena lambita, tuffiamoci ora esplicitamente nella seconda sezione della nostra carrellata, dedicata come detto agli album di—cosiddette—cover, terreno oggi (ma ormai da diversi anni) visitatissimo anche da parte di artisti abituati a produrre in proprio il materiale da interpretare. Lasciando da parte il pur significativo Hitalia di Gianna Nannini, massimale e quindi di fatto estraneo ai nostri intendimenti, incontriamo anzitutto, tra i prodotti recenti (e che quindi concorreranno per le targhe 2015), un album assolutamente emblematico del panorama specifico, A ritrovar bellezza (RCA/Sony), che raccoglie in forma integrale le dieci canzoni che Diodato aveva presentato, in brevi estratti di un minuto ciascuno, la primavera scorsa a Che tempo che fa di Fabio Fazio. L'emblematicità dell'operazione sta essenzialmente nella scelta del materiale: tutti brani degli anni Sessanta, anche se con un'appendice all'indietro ("Piove" di Modugno, 1959) e una in avanti ("Eternità," da Sanremo '70, rilettura in schietta linea-Camaleonti anziché Vanoni). La selezione è quanto mai nobile, toccando Endrigo, Lauzi, Dalla, Bindi, Paoli, Tenco, Gaber, con almeno cinque capolavori (gli originali, intendiamo). Magari non sempre il tracciato prescelto è quello per cui avremmo optato, ma ciò, a conti fatti, testimonia dell'originalità di approccio di Diodato, con arrangiamenti che privilegiano decisamente l'abbinamento voce-archi.

Se un terreno analogo ha scelto la stessa, già citata, Nannini, notiamo come un autore particolarmente "caldo" rispetto al passato sia senz'altro Sergio Endrigo (ben due brani in Hitalia), come conferma prontamente Shaloma Locomotiva (Labotron) dei bolognesi Saluti da Saturno (in verità uscito ancora in tempo per le targhe 2014, e in effetti nella cinquina finale): anche qui doppio Endrigo, e poi ancora Paoli ("Sassi"), Battisti e tanti ballabili, latinoamericani e romagnoli (Casadei, sì), in un'eterogeneità che si riverbera anche nei percorsi del disco (molto breve), di taglio per più versi post-moderno (o post-cantautoriale?), straniante e a tratti... post-caposseliano (e ridagli!).

Altro terreno sempre più frequentemente dissodato, da un po' di tempo in qua, è l'omaggio monografico. Fra un bel Modugno (Mirko Menna) e un bel Brassens (l'accoppiata Patrucco-Mirò), non a caso entrambi nella fatidica cinquina, l'ultimo trimestre (post-2014, come già avrete capito: per il Tenco il 2015 è iniziato il 1° settembre scorso) ci ha riservato almeno un paio di titoli degni di nota. Il primo è Extra (Ala Bianca), il nuovo tributo reso a Léo Ferré dai romani Têtes de Bois, che col precedente Ferré, l'amore e la rivolta furono targa Tenco 2002. La selezione dei brani tocca qui icone come "Tango," "La mémoire et la mer," "C'est extra," "Heautontimorumenos" (da Baudelaire), tutte regolarmente tradotte in italiano, con la chicca di un inedito live del compianto Francesco Di Giacomo del BMS. Disco ricco di insenature e panorami affascinanti, talora inquietanti.

Chiudiamo con un'operazione forse persino bizzarra (strumentale, comunque, e come tale, regolamento del Tenco alla mano, non votabile) qual è quella che il pianista romano (di rigorosi studi classici, ma non solo) Arturo Stalteri ha voluto centrare in In sete altere (Felmay) su Franco Battiato (che non ha fatto mancare la propria benedizione). In prevalenza per pianoforte solo, vi trovano posto undici pagine del siciliano (come si sa non solo cantautore, specie in tempi remoti), svarianti da poche decine di secondi al quarto d'ora appena scarso di "L'Egitto prima delle piogge" (che fu Premio Stockhausen 1978 e viene qui proposto in una nuova, inedita versione). Fra le canzoni più note compaiono "L'oceano di silenzio," magistrale, "Centro di gravità permanente" e "Il vuoto." Livello altalenante ma operazione senz'altro degna di nota.

E ora l'appuntamento è per un eventuale (quanto improbabile) post-post...

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