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Brad Mehldau Trio all'Auditorium Parco della Musica

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Brad Mehldau Trio
Auditorium Parco della Musica
Roma
3.10.2019

Chi sa com'era Brad Mehldau a 20 anni? Me lo sono chiesta più volte durante il concerto. Se non fosse perché il mio vicino di poltrona, un emozionato signore di mezza età, prima che iniziasse la performance del Trio di Mehldau, mi ha raccontato di alcuni concerti notturni a Perugia, all'Umbria Jazz di tanti anni prima. "L'ho scoperto così, in modo inaspettato, un giovane dal grande potenziale; da quel momento l'ho seguito e oggi è diventato Brad Mehldau, uno dei più importanti pianisti jazz nel panorama internazionale. Ma io l'avevo già capito, lo sentivo."

Quando è iniziato il concerto, il simpatico signore ha smesso di parlare, ogni tanto, tra un brano e l'altro ci siamo scambiati sguardi estasiati, complici, a volte increduli. La sala Sinopoli dell'Auditorium Parco della Musica di Roma, la sera del 3 ottobre, era piena, ma soprattutto c'era un pubblico affezionato, caloroso, energico, rapito. Così partecipativo che anche Mehldau, verso metà del live, abbandonando la posizione curva e un po' troppo chiusa sul pianoforte, ha preso il microfono e ha ringraziato i presenti per la bella energia, aggiungendo una postilla: "è un mondo pazzo il nostro, ovunque, ma noi abbiamo la musica."

Quella del Trio di Bred Mehldau, attivo dal 1994 e composto da Larry Grenadier al contrabbasso e da Jeff Ballard alla batteria (dal 2005), è una follia controllata, in cui sembra prevalere un senso perfetto di democrazia jazzistica. La performance inizia con "Sehnsucht," un brano tratto dall'album del 1998 The Art of The Trio, Vol.3, in cui emerge sin da subito equilibrio del linguaggio, perfezione tecnica (quella di Mehldau di origine classica, dal rigore bachiano) e una rilassata idea di romanticismo melodico. Seguono momenti di impeti creativi e colorate e affascinanti apparizioni pop. Il live riconferma la capacità del Trio di sapersi muovere su vari fronti musicali: dalla sperimentazione, all'idea più classica del jazz, riscoprendo standard del passato, alla ricerca di composizioni originali, ancora senza titolo, o ricostruendo con personalità e raffinatezza melodica brani senza tempo, come "Bésame Mucho" di Consuelo Velázquez o "Hey Joe" dei The Leaves.

Gli assoli del contrabbasso e della batteria (specialmente quelli elettrici, oltre il limite dello spazio, un tutt'uno col corpo di Jeff Ballard, che più volte sembra entrare in uno stato di trance), dialogano a porte aperte con lo spirito sorridente di Cole Porter, quando arriva il momento di "From This Moment On" (standard degli anni '50) e lo fanno con una classe e una potenza senza tempo, prima di far rientrare nel gioco Mehldau e riconsegnare così ad ognuno le proprie parti. Con "Young and Foolish" (1998, The Art of The Trio, Vol.2) ritorna ancora il passato, ma questa volta intriso di memoria, di immagini acquatiche, di accordi crescenti che verso la fine creano atmosfere timbrico-armoniche sfumate, ed è forse in questo brano che Mehldau sembra completamente uscire da sé, e solo per un attimo, riconnettersi alla sua incoscienza giovanile. Con "Highway Rider" (brano tratto dal disco omonimo del 2010), il tempo sembra dilatarsi, anche se le frasi hanno un respiro interrotto, si bloccano all'improvviso per poi riaccordarsi ancora e ritrovare la propria strada verso la fine. Il concerto sembra concluso, ma il pubblico estasiato richiama il bis. Ne seguono tre. Alla fine ci lasciano definitivamente con la versione appassionante di "Hey Joe" dei The Leaves.

Quando finalmente si accendono le luci, sia io che il mio vicino di poltrona, capiamo che è arrivato il momento di salutarci. Senza troppe parole ci congediamo, ma con la sensazione che ognuno dei due avrebbe voluto aggiungere qualcosa. Di sicuro lui, aveva capito il potenziale di Brad Mehldau, circa vent'anni fa. Ma c'è una cosa che ho sentito e che avrei voluto chiedergli. Come può un talento così fare jazz in modo più mentale che fisico? Perché in fondo il jazz è anche espressione di un'urgenza istintiva, emozionale, caotica. Non ho sentito molto questa necessità nella sua manifesta perfezione, piuttosto un eccessivo controllo nell'esecuzione, quasi una difesa, una chiusura rispetto al mondo delle emozioni che, da un momento all'altro, possono esplodere. Chi sa cosa sarebbe accaduto, se invece, le avesse lasciate completamente libere di esprimersi, magari in un mix divino di rigore e disordine.

Foto di repertorio di Luca D'Agostino (Phocus Agency).

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