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Brad Mehldau Trio A Cremona Jazz 2019

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Brad Mehldau, Larry Grenadier, Jeff Ballard
Cremona Jazz
Auditorium Arvedi
Cremona
14.05.2019

Cerebrale ed emozionale, colto e pop. Brad Mehldau in concerto con il suo trio è proprio come ce lo si aspetta. La bolla in cui il pianista statunitense—con Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria—si chiudono fin dalle prime battute del loro spettacolo è un luogo in cui gli opposti provano a trovare convivenza e, apparentemente, ci riescono. Inizia seguendo una traiettoria circolare e ipnotica la scaletta scelta per la data di Cremona: "Spiral"---brano che inaugurava l'album Seymour reads the Constitution! fa da entrée sofisticata, con la mano sinistra che disegna pattern circolari di basso su cui la destra ricama a corrente alternata, prima entrando e uscendo dalle linee di una melodia essenziale, poi allontanandosi definitivamente in un dedalo modale, e dando prova (anche visiva oltre che sonora) di quell'indipendenza della mano sinistra dalla destra che nel tempo è divenuta uno dei marchi di fabbrica dello stile di Mehldau.

Tanto basta, a dire il vero, per avere l'auditorium in pugno, con un pubblico che applaude lungamente la formazione, accolta come il vero concerto-evento dell'edizione 2019 della rassegna. La fama di Mehldau d'altra parte (anche grazie a una serie di rivisitazioni in chiave jazz di musica pop, che comunque a Cremona non si ascolteranno) ha da molti anni travalicato la schiera degli appassionati e generato un hype in grado di radunare schiere di ascoltatori chiaramente composite e rapite fin dalla prima nota.

Se la musica suonata da Mehldau nella serata cremonese fosse un albero, tronco e rami si risolverebbero in una chioma verde di jazz certamente panteistico e dei nostri giorni—forse meno cosmopolita rispetto a quello di altri colleghi—, segnato più che altro da un forte legame alla classicità. I bruschi cambi di clima per altro—specie quando le nubi si diradano e la band rallenta, abbracciando lenti dominati dal walking bass—, non lasciano spazio a dubbi sulle influenze dal passato alla Bill Evans, persino nella delicatezza e nella trasparenza del tocco. Di questo albero, invece, le radici sprofonderebbero molto più in basso e indietro nel tempo: di certo nella musica classica, il cui luccichio si intravede non solo in alcuni passaggi dal sapore inequivocabile ma anche dal formalismo per molti versi rigidamente esibito anche nel modo di intendere la performance dal vivo: tanto elegante quanto refrattaria ad abbattere certe invisibili distanze dal pubblico. Di certo, seguendo di nuovo il filo delle radici—se è la libertà del jazz che cerchiamo—la pulsione più libera è quella che porta spesso il trio a sconvolgere una partitura inizialmente piana fino all'orlo del caos, seguendo tre linee semi-indipendenti, per poi "riportare tutto a casa," risolvendo in un solo accordo, in una illuminante variazione che fa virare l'improvvisazione di 180 gradi, sostenendo quest'ultima con un interplay che mai, comunque, si disancora da un controllo stretto e bilanciato anche nei momenti più dediti alla deriva.

Una impostazione cerebrale e cartesiana che non muta nella prima parte del concerto, più che altro dedicata alle atmosfere di Seymour Reads the Constitution! , dove compare anche l'omaggio a John Scofield di "Gentle John," come nella seconda, segnata dalla title-track di Highway Rider. Crediamo che, oltre alle indiscutibili doti e allo stile riconoscibilissimo, sia anche questo mix di classicismo e fiero rigore performativo a concorrere, oggi, nel creare quest'aura di devozione da parte del pubblico attorno all'artista che il New York Times non ha avuto dubbi nel definire "il pianista jazz più influente degli ultimi 20 anni."

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