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Borghi Swing 2019 - Marano Lagunare

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Borghi Swing 2019
Marano Lagunare
Varie Piazze
28-30.6.2019

Seconda edizione di Borghi Swing a Marano Lagunare, piccolo e suggestivo paese del Friuli Venezia Giulia, di origini romane e a lungo territorio della Repubblica di Venezia, come attestano sia l'architettura, sia il curioso fatto che vi si parli veneto. Il festival è stato organizzato, come la precedente edizione, da Udin&Jazz, ma quest'anno -avendo il festival-padre abbandonato il capoluogo friulano per spostarsi a Grado, città un po' più a nord-est ma affacciata sulla medesima laguna -ne è stato in certo modo il prologo.

La rassegna si è articolata su tre raccolte piazzette, adeguatissime a proposte musicali anche assai diverse tra loro, ma sempre caratterizzate da una forte attenzione ai dettagli e, pertanto, da seguire da vicino per poter essere pienamente apprezzate. Ha accompagnato il festival la mostra fotografica Jazz Vision, che esponeva poche ma significative immagini di Luca D'Agostino (che vive a pochi chilometri da Marano), ciascuna commentata -ma il termine è inadeguato, forse bisognerebbe dire accompagnata, o fatta vivere in parole -da testi dello scrittore e critico Flavio Massarutto, allestita in un suggestivo locale proprio di fronte a uno dei palchi, in Piazza Savorgnan.

E proprio su quel palco, alle 19 di venerdì 28 giugno, hanno aperto la rassegna Romano Todesco e Sebastiano Zorza, duo di fisarmoniche decisamente assortito: Todesco è infatti un musicista eclettico, ma la sua storia passa dal jazz, ove suona anche (e molto bene) il contrabbasso; Zorza ha invece un'esperienza soprattutto classica, oltre ad aver lavorato assieme a cantanti di musica leggera. Forti di questa diversità, i due hanno proposto un programma variegato, che tra pizzichi di classica e accenni di jazz accostava Piazzolla a canzoni italiane degli anni Trenta e Quaranta, presentando tutto in modo personale, spiritoso e -soprattutto -raffinatissimo. Grande l'intesa tra i due, che sono sembrati divertirsi quanto il pubblico.

Dopo l'inizio solo apparentemente soft e popular, il concerto delle 20,30 in Piazza Aquileia ha visto di scena Rosa Brunello y Los Fermentos, formazione della giovane bassista veneziana fresca dell'uscita del nuovo disco -Shuffle Mode, edito da CAM Jazz. Una formazione, i Los Fermentos, in continuo mutamento sia dei propri membri, sia della musica che viene espressa: al momento, della prima formazione è rimasto solo il batterista Luca Colussi, a parte ovviamente la leader, che però ha messo da parte il contrabbasso per dedicarsi al basso elettrico e al sintetizzatore. Accanto a loro il sassofonista tenore Michele Polga e il chitarrista Frank Martino, entrambi comunque all'opera anche sull'elettronica.

Forte di queste possibilità timbriche, la formazione ha prodotto un caleidoscopio di effetti, di variazioni estemporanee, di suoni in libertà incrociantisi tra loro, sempre sorprendente e ricchissima di improvvisaizone; una musica che rende fatalmente meglio nella situazione live, cosa che ha contribuito a dare l'impressione che il gruppo sia già sensibilmente cresciuto rispetto al comunque recente disco (registrato peraltro da oltre un anno), fenomeno probabilmente dovuto anche al fatto che la transizione dal precedente repertorio acustico si va compiendo pian piano, nel corso delle date che la formazione sta inanellando.

Aldilà delle predilezioni personali legate alla forte presenza di elettronica, una musica interessante, piena di vitalità, da seguire nella sua creazione come nel caso della improvvisazione radicale. E un'artista, la Brunello, che non finisce di sorprendere.

Il concerto più importante era tuttavia quello che concludeva la prima giornata, in Piazza Frangipane, e che vedeva in scena un quartetto multinazionale comprendente l'icona dell'improvvisazione europea Evan Parker ai sassofoni tenore e soprano, la giovane promessa slovena Bostjan Simon al sax baritono e all'elettronica, Massimo De Mattia ai flauti e Zlatko Kaučič alle percussioni. Ovviamente, tutto totalmente improvvisato: un'ora circa di musica divisa in lunghe suite, complesse, non lineari, imprevedibilmente cangianti, ma anche perfettamente seguibili nel loro sviluppo dialogico. Una musica fortemente caratterizzata dalla particolarità della formazione, nella quale il ruolo di supporto ritmico era affidato da un lato a quel magico creatore di suoni che è Kaučič, dall'altro al suo giovane connazionale, un po' defilato con il sax ma assai importante per la causa comune quando si dedicava ad aggiungere colori o pennellare sfondi con l'elettronica.

Su quanto sviluppato dai due sloveni si muovevano con libertà i due fiati: Parker -trattenendo la sua abituale tendenza alla costruzione di ipnotiche circolarità cesellate di preziosismi tecnici -ha fraseggiato con insolita fluidità, producendosi in un discorso complesso e tortuoso, più aperto al tenore e più teso al soprano, ma anche dotato di una continuità che ne favoriva la leggibilità; De Mattia, favorito anche dalla modalità scelta dal sassofonista, ha dialogato alla pari, con piena coerenza nella cifra stilistica ma anche offrendo un lirismo in filigrana che, specie quando ha imbracciato il flauto basso, ha permesso alla musica di raggiungere i suoi apici.

Concerto non facile e che tuttavia il pubblico, in larga misura locale, ha apprezzato, cogliendo probabilmente la concentrata attenzione con la quale i quattro musicisti creavano istantaneamente il discorso musicale.

Il programma del sabato si è aperto di nuovo in Piazza Savorgnan, un po' in ritardo per una serie di contrattempi che non hanno comunque creato problemi al pubblico, "coccolato" da una serie di chioschi gestiti da associazioni locali, nei quali era possibile degustare alcune delle specialità locali, frutto della pesca in laguna. Il programma prevedeva una proposta piuttosto classica: il quartetto del chitarrista sloveno Marko Cepak, che vedeva al sax il suo connazionale Jure Pukl, al contrabbasso Simone Serafini e alla batteria lo statunitense da molti anni trasferitosi a Graz T. Howard Curtis III. Musica originale, ma radicata nella tradizione; senza troppe sperimentazioni o effetti speciali, ma suonata con intensità e trasporto; semplice e diretta, ma non priva di quella complessità strutturale senza la quale si rischia il già sentito. Ottima la ritmica, sobria ma capace di prendere qualche giusto assolo; abilmente sofisticato il leader, che alla chitarra ha mischiato stilemi storici; elegante ed espressivo Pukl, tenorista che avevamo già avuto modo di ascoltare in passato e che meriterebbe ben più attenzione. Concerto perfetto come antipasto di una giornata che prevedeva ancora una volta proposte assai diverse tra loro.

Quella delle 20,30, in Piazza Frangipane e ovviamente anch'essa slittata di quasi un'ora, era Nostalgia Progressiva, il progetto di Maurizio Brunod, Giorgio Li Calzi e Boris Savoldelli dedicato a una originale rilettura di alcune pietre miliari del progressive. Avevamo già avuto occasione di ascoltare la formazione, che ha anche pubblicato un CD (clicca qui per leggere la recensione), e in quest'occasione ha confermato la bontà del progetto. Che non è una banale raccolta di cover, in quel caso tediosa, bensì una completa reinterpretazione che si avvale dell'abilità e versatilità di Brunod, che usa la chitarra in modo assai diverso da come la suonavano i protagonisti dell'epoca, del timbro della tromba e della maestria all'elettronica di Li Calzi, che costruisce atmosfere e sfondi solo in parte echeggianti quelli del prog e in realtà più prossimi al Miles elettrico, e infine del personalissimo modo di utilizzare la voce di Savoldelli, che poco ha a che fare con il canto rock e deve invece molto alla sperimentazione, anche elettronica. Ne vien fuori così un oggetto tutto sommato nuovo dal punto di vista dei colori e delle strutture, che conserva tuttavia i temi dell'epoca, cari a molta parte del pubblico, coniugando in tal modo l'originalità della proposta con l'appeal -in questo caso rafforzato dalla prossimità del concerto-evento dei King Crimson, principali omaggiati del progetto e che solo pochi giorni dopo avrebbero inaugurato il "gemello" Grado Jazz.

Il concerto finale della seconda giornata, in Piazza Aquileia, vedeva di scena in prima assoluta il duo del pianista Dario Carnovale e del sassofonista Francesco Bearzatti, già in passato più volte insieme in gruppi più ampi. Ma questo duo non è una versione "leggera" delle precedenti esperienze, bensì un progetto originale e nuovo, diretto a valorizzare le (non poche) qualità dei due musicisti attraverso la costruzione di una musica ricca di particolarità, la prima e più visibile delle quali è il fatto che Carnovale non si limiti all'utilizzo del pianoforte ma abbia attorno a sé un'ampia selezione di percussioni -casse, cajun, tamburi etnici -che alterna e talvolta suona persino contemporaneamente alla tastiera.

E infatti, quando al centro della musica si è venuta a trovare questa originale commistione di piano e percussione -come per esempio nel primo, lungo brano scritto appositamente per la formazione -gli esiti sono stati ottimi, a momenti anche sublimi: il lavoro alle percussioni introduceva e "preparava" quello del piano, portandolo su ritmi e influenze lontane, ora africane, ora latino americane, e favorendo una più continua interazione con i sax di Bearzatti, costruendo alla fine qualcosa di decisamente originale. E ha funzionato anche su alcune composizioni precedenti riarrangiate per il duo, come per esempio "Emersion," che dava il titolo a un disco del quartetto di qualche anno fa, grazie all'andamento irruente e narrativo del brano. Diverso invece il caso di alcuni altri pezzi non nati per il duo, nei quali il complesso percussivo dava la sensazione di essere posticcio e finiva per disarticolare un po' anche la relazione tra i due musicisti; i quali peraltro hanno anche lì suonato benissimo -è il caso della lunga introduzione di Carnovale per un suo brano dedicato a Hindemith, o di Bearzatti nella malinconica conclusione dedicata a Simoncelli -con ciò garantendo al concerto un livello comunque alto, senza però fargli toccare i livelli di eccellenza dei momenti migliori.

Complessivamente, quindi, una formazione davvero molto promettente, che deve solo completare il processo di affinamento -altre composizioni interamente a lei dedicate, più precise articolazioni delle strutture e un maggiore rodaggio -per poter aspirare a ruoli importanti sulla scena non solo nazionale.

La giornata conclusiva era di nuovo caratterizzata da proposte assai diverse ed è stata inaugurata in Piazza Aquileia dalla IZ Band, composta da alcuni interessanti giovani della scena locale, come noto assai prolifica di belle individualità. La formazione presentava l'ultimo disco Il desto onironauta, e ha proposto diversi brani originali, a firma del bassista Paolo Jus, e qualche cover, il tutto mischiando stili e sintetizzandoli in una cifra prossima alla fusion, per una musica vivace e allegra, impreziosita di ottimi assoli -da segnalare il sassofonista Giorgio Giacobbi e la trombonista Alice Gaspardo.

A seguire, in Piazza Frangipane, il trombettista Mirko Cisilino ha presentato il suo Effetto Carsico, appena uscito su CD per Auand. Cisilino è uno dei giovani musicisti oggi più interessanti, apprezzato in vari stimolanti contesti -per esempio nel quintetto Mahlkut (clicca qui per la recensione dell'omonimo disco) o nel tentetto di Beppe Scardino (clicca qui per leggere la recensione di Live in Pisa) -tanto da meritare recentemente una chiamata da Franco D'Andrea per far parte di un suo nuovo trio; di conseguenza la sua prova da leader di una formazione di questo genere era particolarmente attesa. E non ha deluso, pur risultando per vari aspetti sorprendente.

La musica è infatti apparsa un'originalissima commistione tra un combo contemporaneo dai ritmi piuttosto marcati d'ispirazione timbrica rock -caratterizzati da questo punto di vista dal basso elettrico solido e potente di Marzio Tomada, con la batteria di Marco DOrlando più cangiante, ma incline a eguagliarne la forza -e un'orchestra più ampia, con molte parti scritte per i sassofoni di Beppe Scardino e Filippo Orefice, sovente impegnati all'unisono. Il tutto con la presenza di temi dal gusto melodico, anzi perfino narrativo, quasi come una big band, tipo di formazione con la quale Cisilino negli ultimi anni è stato a lungo impegnato, non solo come interprete, ma anche come compositore e conduttore. Questa singolare impostazione ampliava il suono del quintetto fino a farlo apparire una formazione numericamente più ampia, ma con una ritmica da piccolo organico, con un effetto piuttosto sorprendente.

Non mancavano, peraltro, gli spazi espressivi in solitaria per tutti i musicisti, cosa che ha incrementato la complessità di una musica comunque scritta con grande cura e sofisticata articolazione, oltre che diretta -va sottolineato -con una perizia sempre più rara da vedere sul palco: Cisilino ha infatti seguito passo passo il lavoro dei compagni, anche quando -è successo un paio di volte -si è allontanato dalla scena per lasciarla interamente agli altri, e dando loro costantemente indicazioni o assensi attraverso segni, piccoli gesti, perfino meri movimenti. Ulteriore importante segno della statura di un artista che seguiamo da tempo e che è probabilmente sul punto di una definitiva e meritata consacrazione.

Il concerto ha riscosso un grande successo da parte del cospicuo pubblico presente, che ha assediato a lungo i musicisti per acquistare il disco e farselo firmare, mentre in Piazza Vittorio Emanuele -il centro del paese, ove svetta la suggestiva Torre Millenaria -andava già in scena lo spettacolo finale: il trio vocale Les Babettes accompagnate da The 1000 Streets' Orchestra, una big band nata nel 2015 per iniziativa di studenti del Conservatorio Tartini di Trieste, della quale fanno parte musicisti di tutto rispetto. In programma storici brani sia della tradizione jazz, sia di quella nostrana, tutti riarrangiati con swing e conditi da un po' di spettacolo. Per la gioia di un pubblico che raccoglieva la quasi totalità degli abitanti di Marano, soddisfatto di una proposta certo molto più popolare, ma che non per questo tradiva la matrice del festival: il jazz, non va dimenticato, è anche spettacolo e musica da ballo (qualcuno ha infatti ballato davvero), ed è giusto e forse persino necessario che nei programmi ci sia spazio anche per proposte di questo genere. Specie quando, come nel caso di Borghi Swing, il programma non contenga compromessi con la qualità, a prescindere dalle diversità delle proposte.

Foto: Gianni Peressotti

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