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Bologna Jazz Festival 2014

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Bologna e Ferrara
28.10-22.11-2014.

Il Bologna Jazz Festival non è certo un festival che perlustra il fermento dell'attualità, che espone le proposte più "forti" e innovative della ricerca americana ed europea, ma non si può nemmeno definire un appuntamento di mainstream nel senso stretto della parola. Salvo rare eccezioni, l'ottava edizione del Bologna Jazz Festival ha puntato con decisione su protagonisti indiscussi, soprattutto americani, su nomi ben noti di varie scuole, cercando e raggiungendo il consenso di un pubblico vasto ed eterogeneo, nonché degli enti e sponsor finanziatori. Quest'anno è stata ulteriormente estesa la rete di collaborazioni, che ha coinvolto la big band del conservatorio per il progetto didattico "Massimo Mutti," la Cineteca di Bologna per la proiezione di alcuni filmati, il Museo della Musica, dove Emiliano Pintori ha tenuto alcune lezioni propedeutiche...
Si potrebbe sostenere che sugli arcinoti protagonisti della programmazione concertistica ci sarebbe ben poco di nuovo da dire su una rivista specializzata; al contrario, le apparizioni di molti di loro hanno offerto l'occasione di confronti, verifiche, bilanci, insomma di un'analisi critica che non è inutile affrontare in questo parziale resoconto del festival, snodatosi per quasi un mese in vari spazi di Bologna e Ferrara.

A sessantaquattro anni Dee Dee Bridgewater ha confermato di essere ancora un'inossidabile animale da palcoscenico: senza apparire scatenata come nel concerto perugino di Umbria Jazz 2013, al Teatro Manzoni con la sua comunicativa diretta ha profuso un'invidiabile e contagiosa mobilità scenica e vocale. Attraversando un repertorio prevalentemente e tipicamente jazzistico, con brani di Mongo Santamaria, Cole Porter, Thelonious Monk, Stevie Wonder, Abbey Lincoln e altri, la cantante ha dato fondo a un collaudato campionario di espedienti e trucchi del mestiere, riuscendo comunque a coinvolgere pubblico e specialisti con la genuina carica emotiva e il fascino delle sue interpretazioni.
Fra l'altro la Bridgewater era sostenuta da una band giovane e motivata, in cui hanno spiccato Kassa Overall, batterista dotato di un sound personale, oltre che di un notevole drive, e l'emergente trombettista Theo Croker, autore degli arrangiamenti dilatati e a volte coraggiosi.

Ben più convincente dell'omonimo CD è risultata l'apparizione all'Unipol Auditorium del gruppo "Guitar in the Space Age" di Bill Frisell, alle prese con un repertorio di successi chitarristici della fine anni Cinquanta, da Pete Seeger agli Shadows.
Alle linee carezzevoli e ai giri di blues tracciati dalla chitarra basso di Tony Scherr, basilari, soft e rassicuranti come una mamma che culla il suo bambino, ha fatto riscontro il drumming di Kenny Wollesen, metronomico ma frizzante, di alta qualità timbrica. Ma ciò che è risultato determinante e magico in questo quartetto è stato il connubio fra le chitarre del leader e quelle, soprattutto la steel guitar, di Greg Leisz: sono stati loro a creare un impasto armonico inscindibile, evocativo, una mobilità melodica e dinamica incessante, con effetti sgargianti, affascinanti, certo a tratti quasi stucchevoli, ma comunque fortemente caratterizzanti.
Nel complesso questo quartetto di Frisell rappresenta un modo decisamente personale e motivato di reinterpretare una certa tradizione pop tipicamente americana in cui swing, country-folk e R&B convivono. L'atteggiamento mentale postmoderno e vagamente nostalgico che permea l'operazione si ammanta di grande equilibrio, rilassatezza e raffinato buon gusto.

C'era attesa anche per il nuovo quartetto di Charles Lloyd, che è stato ospitato all'Arena del Sole il 14 novembre: un'occasione per verificare la consistenza degli approdi attuali del tenorista e flautista nato a Memphis settantasei anni fa. Il suo linguaggio sassofonistico, basato su spunti motivici semplici e reiterati, ha palesato quei percorsi indefiniti e tortuosi, quel sound lirico ma trattenuto, quelle atmosfere paniche, mistiche e meditative, ancora di derivazione coltraniana, a cui le apparizioni concertistiche e i dischi ECM degli ultimi trent'anni ci hanno abituato.
Eppure a tratti è emerso anche il ricordo decantato di quelle brucianti progressioni, di quella pronuncia spigolosa e fervida che caratterizzarono il suo fortunato esordio degli anni Sessanta. Si tratta di reminescenze, ricongiungimento alle origini, ricapitolazione di mezzo secolo di carriera artistica, che evidentemente compaiono nelle sue performance degli ultimi dieci anni. Lo si è potuto constatare anche nel lungo documentario proiettato la sera precedente alla Cineteca Comunale: "Charles Lloyd: Arrows into Infinity" montato dalla regista Dorothy Darr, colei che negli anni Settanta lo ha recuperato dal suo ritiro fra le foreste incontaminate di Big Sur sulla costa californiana e gli ha dato nuova fiducia in se stesso e nella sua musica.
Ottimi, perfettamente coesi e adeguatamente motivati i partner che attorniavano il sassofonista, come per altro si è sempre verificato nei suoi gruppi del passato. Assai efficace il drumming di Eric Harland, per la continuità della propulsione fornita e la spumeggiante, fremente mobilità degli accenti, mentre il pausato e circospetto pianismo di Gerald Clayton, forse un po' troppo uniforme, a volte su accordi tyneriani, sembrava rappresentare l'alter ego del solismo del leader. Particolarmente sorprendente il contributo del contrabbasso di Joe Saunders, che ha tracciato frasi rotonde, dal sound corposo e rassicurante, ma separate da lunghe pause.

In trasferta al Teatro Comunale di Ferrara, il Bologna Jazz Festival ha programmato due concerti prodotti da Ferrara Musica: quello di Hiromi in solo il 28 ottobre, appuntamento d'apertura della manifestazione, e, venti giorni dopo, quello del duo Kenny BarronDave Holland. Nell'affrontare un repertorio comprendente propri original e brani dell'omaggiato Kenny Wheeler, di Parker, Monk ed altri, il dialogo fra i due comprimari ha dato una propria coniugazione di una tradizione condivisa, alternandosi nei ruoli di protagonista e accompagnatore. E proprio in quest'ultima veste ognuno dei due ha profuso la propria maestria con varietà di accenti e sottigliezze. Il sodalizio ha quindi confermato una dimensione cameristica, emanando indubbiamente eleganza, equilibrio e una verve trattenuta. Il contrabbassista inglese, pur rimanendo uno dei più completi, originali e sontuosi strumentisti che sia dato ascoltare, a Ferrara ha palesato una motivazione leggermente appannata rispetto ad altre apparizioni anche recenti, un fraseggio non altrettanto trascinante. Da parte sua Barron ha esposto un pianismo di sapiente conduzione armonica e dinamica.
In definitiva la linearità colloquiale e la decantata raffinatezza di questo duo rientrano fra le espressioni di una classicità senza tempo, tenendosi ben lontane dalle esperienze più attuali, sia quelle di più complessa, aperta sperimentazione, sia quelle in cui il virtuosismo sfrenato si traduce in una spettacolarità plateale. Tenuto conto di queste coordinate e nonostante la classe consumata dei due interpreti, l'esibizione ferrarese è risultata un po' troppo monocorde, senza slanci particolari, poco convinta e coinvolgente.

Da anni una delle scelte determinanti del festival è stata quella di coinvolgere alcuni jazz club, da tempo ben radicati e attivi a Bologna come a Ferrara. La differente dimensione ambientale, comunicativa, aggregativa e il calibro degli interpreti ospitati hanno permesso di raggiungere un pubblico prevalentemente giovane, in parte diversamente motivato rispetto a quello dei teatri.
I numerosi gruppi ospitati nei club sono stati spesso opportunamente ripetuti a rotazione in locali diversi. Al Torrione Jazz Club di Ferrara sono state programmate ben sette serate, fra le quali quella più intrigante sotto il profilo dell'attualità jazzistica: il Claudia Quintet di John Hollenbeck. A Bologna invece sono stati due i locali che si sono contesi gli avventori a suon di bei nomi, buona cucina e di sold out: il Bravo Caffè e la Cantina Bentivoglio, che si fronteggiano in Via Mascarella.

Al Bravo sono stati privilegiati i maestri del groove di ieri e di oggi (quel Robert Glasper Experiment che il sottoscritto non ha avuto modo di ascoltare). Gli ottantotto anni di Lou Donaldson hanno messo in evidenza nelle ballad un'intonazione non certo ineccepibile, ma nei tempi veloci hanno confermato un gusto e una cifra dinamica personali, capaci di saldare le geometrie del bop alle suadenti inflessioni del Soul. Il contraltista era per altro sostenuto da una formazione ristretta (chitarra, organo, batteria) ma decisamente efficace. Fra psichedelìe soft e funky greve e sanguigno, il set del settetto del trombonista Fred Wesley, per quanto professionale, è sembrato invece un po' risaputo e datato.

Fra i numerosi protagonisti esibitisi alla Cantina Bentivoglio è da segnalare innanzi tutto Anat Cohen, a capo del suo quartetto newyorkese, con Jason Lindner al piano. La pronuncia seducente e grassa della simpatica clarinettista israeliana ha incluso le opportune pause, audaci salti d'intervallo, sequenze spigolose. Non sono mancati colori esotizzanti, dal Brasile di Milton Nascimento su ostinati danzanti di piano e basso, al Medio Oriente dal quale la leader proviene. La performance tuttavia non ha preso quota come ci si sarebbe aspettati.
La classe autentica di un sempre lucido Steve Kuhn ha invece sorretto il suo pianismo austero e asciutto di derivazione bop, la sua diretta comunicativa senza fronzoli. Uno sghembo "Confirmation" di Parker e un ammiccante "Ladies in Mercedes" di Steve Swallow le interpretazioni più avvincenti.

Foto
Achille Serrao.

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