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Miles Davis: Bitches Brew 40th Anniversary

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Miles Davis: Bitches Brew 40th Anniversary
Lussuria. Se ci fosse una legge che limita ad una sola parola le recensioni dei capolavori, questa sarebbe la nostra scelta per il cofanetto Bitches Brew 40th Anniversary, senza alcun dubbio. Per fortuna una legge del genere (per ora) non c'è e quindi possiamo aggiungere altre riflessioni per raccontare meglio la straordinaria importanza di Bitches Brew nel panorama delle arti di ogni tempo e per sottolineare il senso di meraviglia che questo splendido cofanetto ha suscitato anche in chi di quel disco ha già per lo meno una mezza dozzina di diverse edizioni.

Cominciamo subito dicendo che con questo bellissimo cofanetto la Sony si è fatta davvero perdonare le scelte poco condivisibili che avevano portato una dozzina di anni fa a The Complete Bitches Brew Sessions, un box che in realtà non conteneva neppure un secondo inedito tratto dalle sedute di registrazione di metà agosto 1969.

Invece in questo nuovo cofanetto vengono finalmente pubblicate ufficialmente le versioni alternative inedite di "Spanish Key" e di "John McLaughlin," di assoluto interesse per tutti gli appassionati. Probabilemte dovremo aspettare il 50 anniversario per avere tutto quello che è rimasto in archivio (per esempio tutta la seduta che trasformò "Miles Runs the Voodoo Down" da anatroccolo un po' spelacchiato a splendido cigno).

Andiamo per ordine: il cofanetto contiene 3 Compact Disc, un DVD, due album in vinile, un libro di grande formato con un bel saggio di Greg Tate e moltissime splendide foto, la riproduzione di una intervista a Miles pubblicata nel 1970 dalla rivista Rolling Stone, altre foto sciolte, un poster, la riproduzione di alcuni memorandum interni della CBS e la riproduzione dei biglietti di una serie di concerti al Fillmore West.

I primi due CD contengono l'album Bitches Brew, le due alternate takes di cui parlavamo sopra, altri brani in versione 'edit' coevi e coerenti con il piatto forte della proposta. Il terzo CD contiene un concerto dal vivo a Tanglewood/Lenox, nel Massachussets, che si tenne esattamente un anno dopo la seduta di registrazione di Bitches Brew. Il DVD contiene invece il concerto di Copenhagen del novembre 1969, due mesi e mezzo dopo la seduta di registrazione sopra citata. Il doppio album in vinile contiene la replica esatta fin nei minimi dettagli della versione originale che venne messa in commercio nel mese di aprile del 1970 con immediato successo.

La musica di Bitches Brew è difficile da descrivere, molto più semplice è ascoltarla con le orecchie ben aperte e la mente completamente libera da ogni condizionamento. L'ascoltatore si ritroverà nel bel mezzo di una giungla urbana tridimensionale con gli strumenti liberi di vibrare attorno al centro focale che è sempre la tromba di Miles, sia quando è presente, sia quando è assente. Gli strumenti dialogano ininterrottamente fra di loro, gli assoli sono quasi sempre dei dialoghi a più voci, magari con una voce più in primo piano, piuttosto che dei monologhi.

Questo album è in assoluto il capolavoro di Miles Davis ed è anche uno dei punti più alti raggiunti dalle manifestazioni artistiche nel ventesimo secolo. Per Davis fu una sorta di eruzione lavica che lo liberò definitivamente da ogni legaccio connesso con la tradizione jazzistica. Potremmo persino dire che lo liberò dal jazz tout-court. Anche se in realtà all'uscita di Bitches Brew, nel mese di aprile del 1970, il mondo del jazz più attento e innovativo decise di seguire Miles su questa strada immaginifica e cambiò radicalmente le proprie linee guida, pur di rimanere agganciato alla navicella spaziale del trombettista, proiettata verso il futuro.

Se cerchiamo di collocare Bitches Brew all'interno del percorso artistico di Miles Davis ci accorgiamo che questo album, pur avendo chiari punti di connessione con la svolta elettrica maturata con Filles de Kilimanjaro e poi consolidata con In a Silent Way (di pochi mesi precedente rispetto a Bitches Brew), è in realtà una sorta di detournement verso un territorio sacro che proprio per la sua intima sacralità non sarà più visitato da nessuno, Miles compreso.

Questo album arrivò in un momento di passaggio nella vita di Miles. La fatidica soglia dei quarant'anni era stata superata da pochi anni (Miles era nato a Alton, Illinois, il 26 maggio del 1926), la nuova generazione di musicisti rock, Jimi Hendrix in testa, stava prendendo campo nel business musicale e soprattutto nel cuore e nell'anima delle giovani generazioni. Miles si era sposato con Betty Mabry nel mese di settembre del 1968 e Betty lo aveva introdotto in un nuovo mondo molto più psichedelico e molto meno convenzionale. Miles capì al volo che la coolness si stava spostando verso quella direzione. Lo capì col cuore, ancora prima che con la mente.

Betty campeggiava sulla copertina di Filles de Kilimanjaro, in uno splendido ritratto realizzato dal celebre Hiro con la tecnica delle multiesposizioni. Dopo pochi mesi arrivò In a Silent Way, una svolta foriera di ulteriori sviluppi che introdusse la chitarra di John McLaughlin come spezia predominante, assieme alle escursioni meravigliose di Wayne Shorter al soprano e alla tromba regale di Miles. La seduta dalla quale fu tratto l'album era una sorta di audizione per John McLaughlin, arrivato qualche giorno prima dall'Inghilterra per unirsi al gruppo nascente di Tony Williams. Quest'ultimo, dopo la seduta di una sola mattina a metà febbraio 1969 dalla quale venne ricavato In A Silent Way, decise di abbandonare definitivamente il gruppo di Miles.

Qualche mese dopo Miles produsse una seduta di registrazione per Betty, con Mitch Mitchell (il batterista di Hendrix), John McLaughlin e Jim McCarty alle chitarre, Harvey Brooks al basso e Larry Young e forse Joe Zawinul alle tastiere elettriche. Durante quella seduta (rarissima e mai pubblicata, ma per fortuna fatta circolare clandestinamente in circoli molto ristretti di super appassionati) Miles ha una sorta di visione precognitiva di quello che può saltar fuori mischiando assieme nelle giuste proporzioni i ritmi del rock con la competenza strumentale del jazz, aggiungendo un po' di psichedelica, una buona dose di influenze africane e il suono inconfondibile della giungla urbana tipico di New York. Non a caso la prima versione live conosciuta di "Miles Runs the Voodoo Down" (il brano chiave di Bitches Brew) è proprio al Village Gate di New York in una data non bene identificata che comunque viene posizionata fra maggio e giugno del 1969.

Il matrimonio con Betty andava avanti fra alti e bassi, con Miles geloso dell'amicizia di Betty con molti giovani musicisti, a cominciare proprio da Jimi Hendrix. A metà agosto, esattamente il giorno dopo la conclusione del Festival dei Festival, quel Woodstock che chiuse nella mattina di un lunedì con le note straniate della Stratocaster bianca di Jimi Hendrix impegnata a rincorrere gli angeli nel cielo della parte settentrionale dello stato di New York, Miles e il suo produttor Teo Macero avevano fissato tre sedute di registrazione consecutive per produrre l'album 'sacro' che Miles sentiva di avere pronto. Martedì. Mercoledì, Giovedì. Dalle 10 del mattino all'una del pomeriggio. Tre ore al giorno per incidere sui nastri Ampex dello studio B della Columbia, al secondo piano del numero 49 east della 52ma strada di New York, una panoplia di suoni misteriosi e dilatati che solo Miles e Teo sapevano come ricomporre successivamente per giungere al capolavoro.

Betty era presente e fu certamente il catalizzatore principale per scatenare la tempesta creativa che poi produsse un simile risultato. La testimonianza di Wayne Shorter a questo proposito è assolutamente illuminante così come lo è la bellissima foto a tutta pagina che troviamo nel libro allegato, a pagina 47. Si potrebbe aggiungere che la musica registrata in quei tre magici giorni, apparentemente 'normali,' fu una sorta di splendido canto del cigno che metteva in scena il grande amore fra Miles e Betty, visto che nell'autunno successivo il loro matrimonio finì piuttosto bruscamente.

Bitches Brew fu insomma una sorta di celebrazione della passione e dell'amore che sottolineava e amplificava il legame, più spirituale che sentimentale, di Miles verso la sua amata e, attraverso di lei, verso il mondo. Una esternazione artistica dirompente ed affascinante che rivendicava la sua hipness e il suo desiderio di dichiarare che il re era sempre lui, un post-quarantenne che non si sentiva inferiore ai nuovi leader delle generazioni che stavano emergendo e avanzando.

La stessa forma dell'album sottolinea la sacralità carnale di questo momento, con la lunga preparazione rappresentata dai brani "Pharaoh's Dance," "Bitches Brew" e "John McLaughlin" (che è semplicemente una parte del brano "Bitches Brew" montata volutamente fuori posto), la divagazione di "Spanish Key," la celebrazione (o se volete il rito pagano, l'atto d'amore, il sacrificio) di "Miles Runs the Voodoo Down" e la chiusura, la lunga quiete (dopo la tempesta / dopo l'amore) di "Sanctuary".

Paradossalmente questo fu probabilmente il solo punto della lunga carriera artistica di Miles che il trombettista stesso non riuscì a digerire completamente: tutti i concerti dei mesi successivi ci fecero infatti ritrovare Miles alla testa del suo quintetto elettrico- acustico e alle prese con una musica che era più una evoluzione di Filles de Kilimanjaro piuttosto che una diretta conseguenza di Bitches Brew. Il concerto proposto sul DVD è una chiara rappresentazione di questa sorta di ritorno al passato (caso unico nella carriera di un artista che si è sempre caratterizzato proprio per la dichiarata scelta di voler guardare solo in avanti). La musica è comunque splendida e le riprese sono di ottima qualità, però la magia della giungle urbana di Bitches Brew è piuttosto lontana. Al contrario, nel CD che contiene il concerto di Tanglewood dell'agosto 1970, troviamo una situazione musicale abbastanza spostata verso il funky e il rock, con il jazz mainstream ormai morto e sepolto.

Il brano di apertura di entrambi i concerti live è un po' la chiave di lettura perfetta per capire il cambiamento. Si intitola "Directions" e proviene dal repertorio del gruppo di Cannonbal Adderly. L'autore è Joe Zawinul, ma nelle mani di Miles Davis il brano originale diventa il tramite perfetto per sottolineare i cambiamenti stilistici in atto. Una sorta di manifesto che Miles utilizzerà per aprire i suoi concerti per almeno un paio di anni.

Nel concerto di Copenhagen "Directions" è ancora un veicolo per rappresentare lo stato dell'arte del jazz moderno. Angolare, raffinata, stravolta. Dave Holland è al basso acustico, Wayne Shorter è al sax tenore, l'approccio, sin dal tema preso all'unisono da tromba e sax, è ancora chiaramente jazzistico, in una delle espressioni più riuscite e portate all'estremo del jazz modale dei primi annui sessanta che a sua volta è una diretta conseguenza dell'hard bop degli anni cinquanta. Chick Corea suona il Fender Rhodes come se fosse una variante più ritmica di un piano acustico e non come se fosse uno strumento completamente nuovo, come invece faceva in Bitches Brew. Gli stilemi del free jazz emergono con decisione, specialmente nei momenti in cui i due fiati lasciano il campo a Corea, Holland e DeJohnette. Non a caso la successiva avventura di Chick Corea e Dave Holland sarà il quartetto Circle (con Anthony Braxton e Barry Altschul) che approfondirà proprio queste tematiche sospese fra jazz moderno, avanguardia e free. A dire il vero il free jazz fa capolino, in maniera meno netta, anche nelle parti nelle quali Wayne Shorter prende i suoi assoli. Il ritorno di Miles in proscenio riporta il tutto a casa base.

Il concerto inedito di metà agosto a Tanglewwod, nel Massachussets, è tutt'altra cosa. Il gruppo è profondamente cambiato e lo possiamo ben comprendere sin dalla iniziale "Directions" e dalla linea funky di basso che la caratterizza. Al sax troviamo Gary Bartz che privilegia i timbri nasali di alto e soprano e li sposa con la sua vena honker per arrivare ad una eccellente integrazione fra la pronuncia ruvida del rhythm and blues e la funkyness di fondo che è diventata nel frattempo la cifra espressiva più evidente di questa formazione milesiana. Alle tastiere troviamo Chick Corea e Keith Jarrett, entrambi in gran spolvero, lucidi e luciferini quanto basta per innescare dialoghi e rimandi al calor bianco. Dave Holland appare sempre più orientato alla semplificazione delle linee ritmico/melodiche del suo basso elettrico (che ormai sul palco prende quasi sempre il posto del fido basso acustico) e assicura un ancoraggio perfetto per il groove di Jack DeJohnette alla batteria e per le divagazioni coloristiche di Airto Moreira alle percussioni. Senza dimenticare il protagonista principale, un Miles Davis in ottima forma, capace di guidare il suo settetto con grande coerenza e coraggio, senza alcun timore di finire nelle sabbie mobili. Si tratta di un concerto non lunghissimo (dura infatti circa tre quarti d'ora), che era inserito in un festival di tre giorni che vedeva sul palco tante altre band, a cominciare da Santana, Who, Jethro Tull, Joe Cocker e John Sebastian. Non a caso tutti (ad eccezione del gruppo guidato da Ian Anderson) facevano parte del package che esattamente un anno prima aveva sbancato Woodstock e non è troppo azzardato pensare che Bill Graham, l'organizzatore di Tanglewood, si fosse ispirato proprio a quell'illustre precedente che stranamente lo aveva visto coinvolto in maniera abbastanza marginale.

Per meglio comprendere il percorso di Miles verso Tanglewood e successivamente verso Live/Evil e On the Corner, abbiamo due punti di confronto importanti: i quattro concerti al Fillmore East di New York (che si erano tenuti a metà giugno dello stesso anno e che erano stati poi montati da Teo Macero nel fortunato doppio album At Fillmore) e il concerto del Festival di Wight che si tenne invece due settimane dopo quello di Tanglewood. Da qualche anno disponibile in DVD. Vi lasciamo il piacere di una analisi comparativa più dettagliata e puntuale e ci limitiamo a dire che nei concerti newyorkesi era ancora presente la deriva free portata avanti soprattutto dalla ritmica e da Chick Corea, mentre nell'isola inglese il funky che caratterizzava i concerti del Fillmore e soprattutto la data nel Massachussets lasciava spazio ad una svolta più rock, anche se la distinzione è molto sottile e meriterebbe di essere approfondita.

Magari lo faremo in occasione del 50° anniversario...

Track Listing

CD 1: 01. Pharaoh's Dance; 02. Bitches Brew; 03. Spanish Key; 04. John McLaughlin. CD 2: 01. Miles Runs the Voodoo Down; 02. Sanctuary; 03. Spanish Key (alternate take); 04. John McLaughlin (alternate take); 05. Miles Runs The Voodoo Down (single edit); 06. Spanish Key (single edit); 07. Great Expectations (single edit); 08. Little Blue Frog. CD 3: 01. Bill Graham introduction; 02. Directions; 03. Bitches Brew; 04. The Mask; 05. It's About That Time; 06. Sanctuary; 07. Spanish Key/The Theme; 08. Miles Runs The Voodoo Down; 09. Bill Graham outro. DVD 01. Directions; 02. Miles Runs The Voodoo Down; 03. Bitches Brew; 04. Agitation; 05. I Fall In Love Too Easily; 06. Sanctuary; 07. It's About That Time/The Theme.

Personnel

Miles Davis
trumpet

Miles Davis (tromba); Wayne Shorter, Steve Grossman, Gary Bartz (sax); Bennie Maupin (clarinetto basso); Joe Zawinul, Chick Corea, Larry Young, Herbie Hancock, Keith Jarrett (tastiere); John McLaughlin (chitarra); Dave Holland, Ron Carter, Harvey Brooks (basso); Lenny White, Jack DeJohnette, Billy Cobham (batteria); Don Alias, Jumma Santos, Airto Moreira (percussioni); Khalil Balakrishna (sitar); Bihari Sharma (tamboura, tabla).

Album information

Title: Bitches Brew | Year Released: 1970 | Record Label: Sony Records

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