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Bergamo Jazz 2016

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Bergamo Jazz 2016
13-20 mar.

Tutto sommato Bergamo Jazz 2016 ha tenuto fede alle parole programmatiche di Dave Douglas, suo nuovo direttore artistico, tese a presentare "un ampio spaccato di alcune delle espressioni di questa musica in costante evoluzione...," in considerazione anche del fatto che essa "ci arriva in varie forme e proviene da altrettante parti, attraverso persone diverse, ognuna delle quali ha un proprio modo di rapportarsi a questa musica." Douglas ha dimostrato di essersi trovato a proprio agio in questo nuovo ruolo e di aver apprezzato l'accoglienza che la città gli ha riservato. Affiancato dall'addetto stampa Roberto Valentino ha presentato i vari concerti, lasciandosi andare a gag improvvisate; né poteva mancare da parte sua un omaggio alla cucina italiana, in particolare ai casoncelli (se vogliamo un luogo comune usato da qualsiasi americano voglia ricorrere ad una captatio benevolentiae, che non sempre sortisce l'effetto voluto).
Fatta questa considerazione di costume, bisogna ammettere che la programmazione delle due ultime giornate del festival ha dimostrato un apprezzabile equilibrio fra proposte americane e di altre parti del mondo, fra approcci classicamente jazzistici ed espressioni dell'attualità in divenire.

Il versante aulico, classico, incontestabile del jazz era incarnato dal trio di Kenny Barron. Sarebbe sbagliato considerare la musica del sessantottenne pianista di Filadelfia come mero e risaputo mainstream; piuttosto essa rappresenta la personale decantazione, consapevole e propositiva più che nostalgica, di proprie esperienze del passato. In particolare, nel suo pianismo l'originaria matrice bebop è stata distillata in raffinate eleganze formali, in un concentrato di poesia ed in un sereno, imperturbabile intimismo. La sapienza armonica è stata declinata in cadenze ritmiche ora pacate ora mosse, toniche ma mai esagitate, fino a concludere il concerto nel segno gioioso e danzante, ma sempre controllato, di un calypso.
Sono apparsi del tutto congeniali i due accompagnatori che completavano il trio, assieme al pianista anche nel CD appena pubblicato dalla Impulse!: l'austero giapponese Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e soprattutto il monumentale batterista Johnathan Blake, concittadino di Barron.

Cambiando riferimenti stilistici, sembra quasi un paradosso che una formazione scandinava come gli Atomic, attivi dal 2000, si sia eletta a portabandiera dell'ortodossia jazzistica di derivazione free. Ciò è riconoscibile nell'espressività del sound, nel dinamico intreccio dell'interplay, nell'alternarsi di tensioni e distensioni, nell'arrangiamento che persegue un organico intreccio fra parti composte e parti improvvisate collettive o individuali... Anche nell'apparizione bergamasca tutti questi caratteri sono stati attualizzati ed esasperati dalla spiccata e consolidata identità del gruppo. D'altra parte sappiamo che la galassia della musica improvvisata scandinava è piuttosto ampia e comprende appunto anche atteggiamenti genuinamente jazzistici. Inoltre alcuni membri del quintetto hanno un rapporto diretto con le esperienze statunitensi più attuali: in particolare il contrabbassista Ingebrit Haker Flaten, che da anni risiede in Texas e collabora abitualmente con significativi ensemble americani.
Nel concerto pomeridiano all'Auditorium, i loro original hanno dato vita a una performance fatta di pieni e vuoti, di contrasti coloristici e dinamici, di esuberanti esplosioni sonore e riflessivi ripiegamenti, lasciando emergere nitidamente i contributi, tutti indispensabili, dei singoli membri. Oltre al già citato Håker Flaten, dalla pulsazione elastica e possente, sono emerse in evidenza la tromba crepitante e allucinata di Magnus Broo, il tenore più sornione e divagante di Fredrik Ljungkvist, il lirico e lucido periodare del piano di Håvard Wiik e il drumming ben finalizzato, a tratti spumeggiante, di Hans Hulbækmo.

Il giovane Mark Guiliana Jazz Quartet ha portato invece una delle espressioni più attuali della scena statunitense. Significativa innanzi tutto l'impronta dei brani in repertorio, per lo più a firma del batterista e leader italoamericano, tratti dal CD Family First recentemente autoprodotto. In alcuni casi la semplicità delle linee melodiche ha preso la fissità propria dei riff, diventando la base per la crescita incessante della tensione e del compatto interplay. Altre volte la melodia si è distesa sugli ampi spazi di una narrazione evocativa e nostalgica. Caratteristico inoltre il modo di concludere spesso i brani in poche, repentine battute.
Fra i partner di Guiliana, più che il tenorista Jason Rigby, ascrivibile all'ampia ma un po' generica schiera degli attuali sassofonisti d'impronta neo-cool per la sua sonorità spenta e il fraseggio di algida linearità, si è messo in evidenza il pianista Fabian Almazan. La sua elaborata diteggiatura ha tramato una costruzione allucinata, meditabonda e ritorta su se stessa, paragonabile, pur nella concisione degli spazi concessigli, al lavoro che sta portando avanti Vijay Iyer. Il contrabbassista Chris Morrissey ha avuto modo di emergere in una lunga introduzione solistica, dimostrando nel pulito e selettivo pizzicato una derivazione vagamente hadeniana. Quanto al leader, il suo ricco e frastagliato drumming, non particolarmente spigoloso, ha pervaso e strutturato registicamente l'andamento dei brani.

Un altro batterista-leader americano, l'ancor più esperto Billy Martin (membro del famoso trio Medeski Martin & Wood), ha firmato una performance totalmente differente, riprendendo il suo recente progetto Wicked Knee, una sorta di brass band in cui si sono trovati riuniti tre notevoli fiati: Steven Bernstein alle trombe, Brian Drye al trombone e Michel Godard alla tuba (gli ultimi due in sostituzione di Curtis Fowlkes e Marcus Rojas, membri dell'originario quartetto).
Il cinquantatreenne batterista si è comunque riservato il ruolo di protagonista, sia riempiendo perentori spazi solistici, soprattutto nella prima metà del concerto, sia conducendo una personale e parziale ricapitolazione della storia del jazz. A iniziali polifonie dixieland, briose e divertite, ha fatto seguito l'essenziale rivisitazione del colemaniano "Peace"; si è quindi passati a un andamento melodico-ritmico moderatamente arabeggiante, poi a collettivi più dissonanti e sperimentali, per finire l'esibizione con una misurata versione di "It Don't Mean a Thing..." In tutto questo era indubbiamente percepibile una solida regia e una funzionale complementarietà dei tre ottoni. Considerato l'organico, la singolare proposta di Martin è risultata tutto sommato sempre controllata, mai sopra le righe, a tratti quasi cameristica.

Il festival si è chiuso con un altro gruppo pilotato da un batterista: questa volta un protagonista che ha fatto la storia del jazz europeo degli anni Settanta e Ottanta, trattandosi di Louis Moholo-Moholo, approdato in Inghilterra alla metà degli anni Sessanta assieme a uno stuolo di altri musicisti espatriati dal Sudafrica. Il propulsivo e umorale drumming del settantaseienne leader e il materiale tematico, storico o recente, ora innodico ora di lontana, danzante matrice africana, hanno originato una performance eminentemente collettiva e tribale. Ne è sortita una musica in cui la componente informale, il visionario lirismo e l'indispensabile partecipazione emotiva, entusiastica e quasi naïf, per certi versi si sono contrapposti alle smaliziate e levigate procedure postmoderne di molte proposte dell'attualità.
Rispetto ad altre sue formazioni apparse in Italia negli ultimi anni, il più ridotto quintetto 5 Blokes ha visto il fitto dialogo dei due giovani sassofonisti della front line: il tenorista Shabaka Hutchings e Jason Yarde che si è alternato al soprano, contralto e baritono. Ma soprattutto il risonante contrabbasso dell'esperto John Edwards, eccessivamente amplificato, e il rapsodico pianismo di Alexander Hawkins hanno contribuito a creare una tensione continua, ma fluida e imprevedibile.

A ben vedere, se si considera che nel concerto d'apertura al Teatro Sociale Han Bennink faceva parte del quartetto di Franco DAndrea, questa trentottesima edizione di Bergamo Jazz si è qualificata come l'edizione dei batteristi.

Foto
Luciano Rossetti.

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