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Ben Allison: tra groove e melodia

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Il bassista e compositore Ben Allison è uno dei principali bandleader della scena contemporanea. Negli ultimi vent'anni ha pubblicato 12 album a capo di vari ensemble, collaborato in trenta e più dischi e fondato il Jazz Composers Collective. Dotato di una personale vena creativa, Allison compone brani d'inconfondibile freschezza e raro appeal, che sono tra gli elementi distintivi della sua musica. In quest'intervista il bassista parla del suo ultimo album (Layers of The City, Sonic Camera Records 2017), del suo stile, della lunga collaborazione con la Palmetto Records e di molto altro.

All About Jazz Italia: Vorrei iniziare parlando di Layers of the City. Splendida musica e belle composizioni ma vorrei sottolineare il clima musicale che ricorda un po' Miles Davis. Cosa ci dici?

Ben Allison: Grazie per gli apprezzamenti. Sono molto soddisfatto di quest'album. Tutti i musicisti coinvolti, Jeremy Pelt, Frank Kimbrough, Steve Cardenas e Allan Mednard infondono linfa vitale nei brani del disco. C'è grande intesa tra noi e questo è forse l'ingrediente più importante per realizzare un buon disco. Nel corso dell'album ci sono tanti momenti d'interplay nei quali si può sentire come l'idea di qualcuno nasce e poi viene presa e sviluppata dal resto del gruppo. È interessante il tuo riferimento a Miles: un aspetto importante del suo genio era l'abilità di riunire i musicisti più idonei per creare una speciale intesa. Non ho progettato quest'album con Miles in mente ma lui ha esercitato un forte impatto su di me me, come su molti musicisti della mia generazione. Per questo motivo credo che la sua musica resti sempre nella mia mente.

AAJ: Il tuo coinvolgimento con la Palmetto Records è durato molti anni. Quali fattori hanno consentito questa lunga collaborazione col produttore Matt Balitsaris?

BA: Negli anni novanta sono stato uno dei primi artisti jazz a firmare con la Palmetto ed è stata una fortuna. Negli anni di gestione di Balitsaris, che era anche il fondatore, la Palmetto si caratterizzò come la Blue Note del suo tempo. Come quest'ultima la Palmetto ha prodotto un mucchio di splendida musica che veniva trascurata dalle grandi case discografiche. Guardando a posteriori l'etichetta ha documentato alcune tra le cose migliori dell'epoca, anche perchè era interessata interamente alla qualità musicale e non scritturava artisti celebri. In molti casi promuoveva musicisti emergenti oppure dava spazio a nomi leggendari per realizzare dischi d'alta integrità. Alcuni dei miei eroi, come Andrew Hill e Dr. Lonnie Smith, hanno pubblicati alcuni dei loro album migliori con la Palmetto e la ragione di questo era proprio Matt Balitsaris.

AAJ: Non molto tempo fa il produttore ha lasciato il mercato discografico per dirigere un'istituzione che promuove microcrediti ad Haiti. È una scelta ammirevole ma è anche una perdita per il jazz...

BA: Sono d'accordo. Quando ho sentito il bisogno d'incidere un'altro disco mi sono messo in contatto con Matt per chiedergli se poteva inciderlo. Mi mancava lavorare con lui e sono stato entusiasta quando mi ha detto si. I suoni che ha ottenuto in quest'ultimo disco sono meravigliosi, così pieni di vita e acusticamente ricchi. C'è stato tanto da lavorare quando è giunto il momento del missaggio. Quest'operazione l'ho compiuta da solo e credo di dare all'album un mio particolare carattere, un "Ben Allison Sound" [ride N.d.R.].

AAJ: Quattro anni fa hai fondato una tua etichetta, la Sonic Camera. Quali sono i motivi alla base di questa scelta?

BA: Quando nel 2011 Balitsaris lasciò la Palmetto io stavo realizzando l'ultimo disco richiesto dal mio contratto, ovvero Action-Refraction. Terminata l'incisione decisi di non firmarne un altro perchè senza Matt l'etichetta non mi sembrava più la stessa. Iniziai così a pensare di poter fare un buon lavoro a capo di una mia etichetta. Nei molti anni in cui realizzavo album con altre label, ascoltavo e imparavo, assorbendo quello che potevo sul mestiere, il processo e il mercato. C'è tanto da sapere e capire se vuoi fare un buon lavoro in questo campo. Bisogna avere una buona comprensione degli aspetti riguardanti il copyright, la produzione, il marketing, la promozione, la distribuzione e una serie di altre abilità. Ho appreso molto lavorando direttamente con la Palmetto e ho potuto usare quelle conoscenze quando ho creato la Sonic Camera Records. In un certo senso avviare un'etichetta è stato un'altro modo di esprimermi. Occorre infatti molta creatività nell'operare entro il mercato discografico, incluso scoprire come ottenere il massimo con risorse limitate.

AAJ: La tua scrittura è moderna con composizioni dal chiaro indirizzo melodico. È una precisa scelta artistica?

BA: Il groove è il battito cardiaco... la scansione dei passi... il respiro. Ma la melodia è la voce... il canto... il raccontare una storia. Penso che molto jazz moderno abbia perso la melodia, specialmente alcune cose che ascolto dai giovani musicisti. L'espressione lirica sembra essere diventata un'arte perduta ma forse è solo fuori moda. Il jazz attuale appare molto complesso con i musicisti che sperimentano strutture e patterns. È tutto interessante ma qualche volta resto freddo. Le semplici melodie hanno una bellezza profonda e sono difficili da scrivere perchè richiedono poesia anche se non hanno parole. Richiedono inoltre un certo tipo di abilità, saper esprimere cosa intendi con semplicità. Molti musicisti credono che fare una musica più complessa la renda più profonda e interessante. Io non sono d'accordo.

AAJ: Il tuo approccio al contrabbasso è in relazione a quello compositivo?

BA: Come dicevo prima, il mio stile al contrabbasso e il mio stile di composizione sono completamente intrecciati. In altre parole sono due facce della stessa moneta e l'uno non può esistere senza l'altro. Il basso è il fondamento armonico e ritmico di un pezzo. Spesso compongo suonando il basso e cantando insieme allo strumento. Questo mi dà sia la melodia che la base armonica, creando il contrappunto. La linea di basso fornisce anche il frazionamento del beat che fissa il groove. Insieme mi danno il fondamento di qualsiasi struttura sto elaborando.

AAJ: Per 13 anni hai diretto il Jazz Composers Collective. Puoi trarre un bilancio di quell'esperienza?

BA: Il Jazz Composers Collective è stata un'importante organizzazione che ha supportato e promosso della musica nuova e creativa nell'idioma del jazz. Ha poi aiutato a formare un pubblico per questa musica iniziando semplicemente in forma di jam session. Questa era l'idea: per accedere alla session un musicista doveva portare un nuovo brano su cui far lavorare gli altri. Volevo che la session diventasse una sorta di workshop per sviluppare nuove idee; così la session informale s'è sviluppata entro il Jazz Composers Collective. Nel 1992 ci siamo costituiti come una fondazione no-profit iniziando a presentare dei concerti e pubblicando newsletters con articoli dei compositori riguardanti la loro musica. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per accogliere un nuovo pubblico e rendere l'esperienza d'ascolto divertente e appagante. Presto abbiamo iniziato a commissionare nuovi lavori, incidendo dischi e organizzando tours. Abbiamo creato una collaborazione con il Museo d'Arte Moderna (MoMa) a New York e con la New School for Jazz and Contemporary Music (dove sono attualmente membro di facoltà). Dagli inizi fino al 2005 abbiamo presentato oltre 300 nuove composizioni di più di 50 compositori e promosso oltre 250 musicisti. È stato un fantastico torrente creativo che ha concesso a molti di noi il supporto che volevamo per definire la nostra dimensione di artisti. Sono immensamente orgoglioso di quello che abbiamo fatto.

AAJ: Una delle tue prime incisioni è stata Rhapsody con Lee Konitz. Cosa ti ricordi di quell'esperienza?

BA: Lee era, ed è, un musicista meraviglioso. Ho inciso vari album con lui, suonato in qualche tour nei primi anni novanta e da allora ci siamo trovati di tanto in tanto. Ho sempre ammirato com'è riuscito a reinventarsi nel corso degli anni. Da giovane aveva una tecnica strabiliante al sax contralto... volava come un uccello. Con l'età —ora ha 90 anni! —ha trovato nuovi modi per essere creativo. Ora può suonare una sola nota e raccontare tantissimo. E quando suona quella nota tu sai che è lui. Il suo suono e il fraseggio sono unici. Spero di poter essere così creativo quando avrò la sua età.

AAJ: Nel disco Action-Refraction, pubblicato nel 2011, incidi per la prima volta composizioni di altri autori (tra cui Neil Young, Thelonious Monk, Donny Hathaway, PJ Harvey) ed è stato un successo. Ci sarà un nuovo capitolo?

BA: Con Action-Refraction volevo realizzare un disco di sole cover. Mi ero posto la sfida di vedere se, mettendo assieme un variopinto gruppo di brani, potevo ottenere un album coeso. Donny Hathaway, Samuel Barber e PJ Harvey, ad esempio, sono compositori e artisti molto diversi tra loro. Alcune di quelle differenze, però, sono solo superficiali e volevo esplorare come potevano relazionarsi reciprocamente. È stato un esperimento e sono molto felice del risultato. Commercialmente è stato uno dei miei album più venduti ma ora che l'ho realizzato non penso di ripetere la cosa anche perchè ho molti brani originali che voglio documentare.

In effetti, da quando Layers of the City è stato pubblicato la scorsa estate, ho scritto composizioni per quasi mezzo album e sto iniziando a pianificare per una prossima nuova incisione. Nel frattempo sono in tour col gruppo Think Free e proviamo il nuovo materiale. È importante per me continuare a guardare avanti.

AAJ: Parlando della relazione coi tuoi partners, è significativa quella che intrattieni con Steve Cardenas. Quali elementi stanno alla base di questa lunga cooperazione?

BA: Steve è uno dei miei migliori amici. Collaboriamo da circa 13 anni e in tutto quel tempo non abbiamo mai avuto un litigio. Gli voglio bene come un fratello. È una persona straordinaria. Ma all'inizio è stata la musica a unirci. Da oltre vent'anni suono con la Steven Bernstein's Millennial Territory Orchestra e alcuni anni fa abbiamo avuto una scrittura per i concerti del lunedì sera al Jazz Standard di New York. Una notte Steve Cardenas sostituì il regolare chitarrista. Ricordo che stavamo suonando un vecchio tema di Duke Ellington, "Harlem Speaks," e nel mezzo del brano avvenne un inatteso riferimento musicale: Steve citava discretamente un solo di George Harrison, in modo musicalmente appropriato entro il contesto del pezzo. Un'idea davvero geniale che mi fece pensare: "ecco un musicista che ama quanto me connettere stili e improvvisare con i generi musicali." Parlammo un po' nella pausa e gli chiesi se voleva partecipare con me a un nuovo progetto. In quel periodo stavo scrivendo della nuova musica che comprendeva la chitarra (il mio primo strumento) e pensai che sarebbe stato il musicista perfetto per aiutarmi a farla rivivere. Da allora non abbiamo smesso di collaborare.

AAJ: Tu insegni musica da parecchio tempo. Che qualità deve avere un buon musicista jazz?

BA: Come educatore il mio lavoro è aiutare i musicisti a trovare la loro voce, sia dal punto di vista strumentale che professionale. Ai miei studenti non dico mai: "suona in questo o quest'altro modo." Un buon musicista jazz ha qualcosa di personale da dire, sa correre rischi e comunica in modo eccellente col suo strumento. È intrepido.

AAJ: C'è un progetto che sogni e non hai ancora realizzato?

BA: Si, ne ho molti. Ma preferisco parlare del presente, non di quello che sogno...

AAJ: Quali sono i tuoi prossimi tour?

BA: Concerti negli Stati Uniti, in Europa e qualche data in Asia. Siamo appena tornati da Cuba e amerei molto tornarci. Qualche anno fa siamo stati sul punto di andere a suonare in Iran e amerei molto poter suonare la nostra musica per il pubblico iraniano. Sono convinto che l'apprezzerebbero... Oh, oh... ma questo è uno dei miei sogni nel cassetto...

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