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Talos Festival Bande 2014

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Talos Festival Bande 2014
Ruvo di Puglia
4-14.09.2014

Se ogni festival che si rispetti ha una sua fisionomia più o meno chiaramente orientata, l'identità del Talos di Ruvo di Puglia corrisponde pienamente a quella del suo direttore artistico Pino Minafra: ne riflette infatti la personalità passionale, le convinzioni, l'impegno socio-politico a favore dei Sud del mondo, la densa storia professionale. Le sue scelte artistiche da un lato sostengono una vigorosa battaglia a favore della tradizione bandistica pugliese, un patrimonio che con tutti i mezzi va salvaguardato e valorizzato nelle sue variegate manifestazioni, dall'altro si riagganciano a quei movimenti creativi del jazz europeo, che lo stesso trombettista ha cominciato a frequentare decenni orsono.
A tale proposito le formazioni e i protagonisti da lui riproposti, da quando nel 2012 ha ripreso le redini del festival, potrebbero sembrare frutto di un atteggiamento un po' nostalgico, poco propenso a scandagliare il fermento più giovane e attuale del panorama jazzistico internazionale, e ancor meno a rifugiarsi nelle certezze del mainstream. A ben vedere si tratta di un criterio di coerenza, di motivazione etica e di onestà culturale, di orgoglioso senso di appartenenza ad un comportamento jazzistico in cui le ragioni del cuore prevalgono decisamente su quelle del facile consenso. Un festival fortemente orientato dunque, diverso da tanti altri, lontano dalle logiche del mercato come da autoreferenziali chiusure intellettualistiche. Il pubblico locale e i numerosi addetti ai lavori intervenuti hanno dimostrato di condividere e apprezzare tali scelte.

Come nella passata edizione, l'anteprima del festival, dal 4 al 10 settembre, è stata quindi dedicata ad una selezione di bande attive all'interno di istituzioni culturali, conservatori, scuole, enti locali, creando anche inedite occasioni d'incontro e mirate produzioni originali.
Dopo questo intenso prologo, i riflettori della parte internazionale del Talos, dall'11 al 14 in varie sedi, sono stati puntati soprattutto su due realtà fondamentali della musica creativa europea dell'ultimo mezzo secolo: l'olandese Instant Composers Pool e quella scena britannica che a cominciare dagli anni Sessanta ha visto una stretta integrazione fra gli improvvisatori inglesi e gli espatriati sudafricani stabilitisi a Londra.

L'organico della ICP Orchestra era quello ormai consolidato da molti anni, comprendente protagonisti olandesi (Han Bennink ovviamente, Ab Baars, Tobias Delius, Wolter Wierbos, Thomas Heberer, Ernst Glerum) e abituali ospiti americani ma ormai olandesi d'adozione: Michael Moore, Tristan Honsinger e Mary Oliver. La forzata assenza di Misha Mengelberg per i noti impedimenti fisici si è comunque tradotta in un'ispiratrice presenza spirituale. Il loro concerto, come da tempo avviene, ha espresso la più nobile classicità, vale a dire i caratteri stilistici di una scuola, di un modo di coniugare composizione e improvvisazione che non possono fare altro che riproporre se stessi con orgogliosa consapevolezza.
Il repertorio ha prevalentemente reso omaggio al grande assente Misha, ma è anche ricorso agli indispensabili ed amati Duke Ellington e Herbie Nichols; è il caso inoltre di ricordare un movimentato e spigoloso brano di Ab Baars. Lo smaliziato interplay, collaudato da anni di esperienza, ha portato a interpretazioni articolate in aggregazioni parziali di strumenti (i tre archi, i tre clarinetti...); le pronunce dei singoli, le dinamiche e le tipiche sonorità dei collettivi hanno profuso una grande eleganza ed equilibrio formale, hanno perseguito un'austerità venata al contempo di arguzia.

Il focus sulla ICP comprendeva anche una bella mostra della fotografa Francesca Patella, dal 2000 collaboratrice del Bimhuis di Amsterdam, e un commovente film di Cherry Duyns, che coglie l'ultimo tour di Misha Mengelberg, attanagliato dalle progressive menomazioni dell'Alzheimer, ma attorniato dalla stima e dal premuroso affetto dei colleghi. Probabilmente Han Bennink avrà intimamente dedicato all'amico Misha la sua solo performance. Anche in questo caso ci si è trovati di fronte a un classico, a un'esibizione esemplare, quasi dimostrativa, comprensibilmente meno imprevedibile e caustica di un tempo. La varietà ritmica/dinamica e la qualità timbrica del sound di Bennink hanno tracciato un compendio della storia del drumming jazzistico.

La peculiare scena inglese, che venne documentata dai dischi Ogun, è stata rievocata in un incontro (ben coordinato da Riccardo Bergerone e Roberto Ottaviano) con Hazel Miller, che della gloriosa etichetta è tuttora produttrice e animatrice.
La batteria di Louis Moholo-Moholo, unico superstite di quella schiera di improvvisatori sudafricani, tornato da alcuni anni ad abitare a Città del Capo, ha poi dialogato in concerto con il piano di Livio Minafra, braccio destro di Pino nell'organizzazione del festival.

Il respiro ritmico tracciato da Moholo è risultato organico, frammentato e vibrante, tutt'altro che regolare e prevedibile, pur possedendo un senso di continuità circolare. Il pianismo a tutta tastiera di Livio, che ha utilizzato anche campane e strumenti a percussione accessori, si è rivelato d'indubbia matrice free, con sussulti, grovigli di note, insistenze e tese progressioni; ma nello stesso tempo ha metabolizzato il free per inoltrarsi in una sintesi narrativa che include romantici slanci melodici, temi danzanti e delicate riflessioni. Le prerogative individuali dei protagonisti si sono fuse in un dialogo empatico e fitto, concatenando situazioni diversificate e suggestioni emotivamente coinvolgenti.
Questo primo incontro fra generazioni ed esperienze diverse, fortemente voluto dal settantaquattrenne batterista, visibilmente emozionato, troverà forse la via dell'edizione discografica. Fra l'altro lo spazio raccolto del Teatro Comunale ha permesso un abbraccio particolarmente caloroso fra il pubblico e i due protagonisti.

Un altro pianista, l'inglese purosangue Keith Tippett, anch'egli figura di spicco di quel fermento creativo degli anni Settanta, si è esibito in solo. Le sue incantatorie e dense evoluzioni non hanno previsto interruzioni e hanno rappresentato una sorta di esaltazione delle peculiarità del piano preparato, tecnica che nella concezione e nelle mani del pianista di Bristol ha assunto un'organica, profonda giustificazione musicale.

Ma la presenza degli ospiti inglesi è sfociato in quel progetto speciale dedicato alla memoria di Nelson Mandela che si è rivelato l'evento del festival: vale a dire il concerto della MinAfric Orchestra, animata da Pino Minafra (in questa occasione autorelegato nella sezione dei fiati) e integrata appunto da Moholo, da Tippett, e da sua moglie Julie.
L'obiettivo era quello di far rivivere lo spirito, il clima di una stagione mitica e irripetibile del jazz europeo, quello dei Blue Notes e della Brotherhood of Breath. Per questo sono state reinterpretate composizioni dello stesso Tippett e di Johnny Dyani, Mongezi Feza, Dudu Pukwana, includendo anche "Canto general," scritto da Minafra su una lirica di Pablo Neruda, per raggiungere l'apoteosi nel conclusivo "You Ain't Gonna Know Me 'Cause You Think You Know Me" di Feza. La MinAfric Orchestra si è confermata una formazione estremamente agguerrita, una sorta di all stars di una certa generazione del jazz italiano; le numerose ore di prove hanno conferito alla formazione allargata una convinta coesione, una solidità estrema, una vitalità umorale e contagiosa. L'operazione quindi, pienamente riuscita, ha dato corpo a un'esibizione palpitante, dalla comunicativa esplicita nei suoi messaggi umani ed espressivi.

Fra le altre proposte di questa edizione del Talos non ha del tutto convinto il duo Klaus Paier-Asja Valcic (rispettivamente fisarmonica e violoncello), che ha già due dischi Act all'attivo e che pochi anni fa suscitò grande ammirazione al Jazz and Wine di Cormons. Nella loro musica, in cui si agitano vari umori di matrice popolare, a Ruvo sono emersi il drive della conduzione ritmica, soprattutto ad opera della violoncellista, la linearità accattivante dei temi, il cangiante impasto armonico fra i due strumenti, ma si è palesata anche la tecnica abbastanza modesta, non certo virtuosistica, del fisarmonicista.

Ben più rigoroso e riuscito è stato l'omaggio a Steve Lacy da parte del trio di Roberto Ottaviano, con gli affidabili Giorgio Vendola al contrabbasso e Enzo Lanzo alla batteria. Le composizioni uniche di Lacy, sfaccettate, piene di strutture oblique e di suggestioni poetiche, non sono certo facili da reinterpretare: l'approccio deve essere selettivo e funzionale, giocato su idee circoscritte. Nel concerto pomeridiano alla Cantina Grifo, il soprano di Ottaviano, profondo conoscitore del mondo lacyiano, ha saputo costruire di volta in volta i percorsi più opportuni, ora spigolosi e ben scanditi, con sonorità sforzate, ora più distesi e narrativi. L'impianto strutturale ha trovato una perfetta traduzione nella mobilissima voce strumentale del leader.

Un maestro altrettanto unico, Frank Zappa, è stato invece l'oggetto della rivisitazione della Tankio Band di Riccardo Fassi, comprendente ottimi elementi e rinforzata dal vulcanico Antonello Salis. Come quella di Lacy la musica di Zappa è in assoluto una delle più rischiose da affrontare, perché si tratta di scegliere con grande motivazione e chiarezza d'idee se essere più aderenti allo suo spirito o alla sua forma. Di quelle composizioni gli arrangiamenti di Fassi hanno dato una versione compatta e swingante, a tratti più frastagliata. Peccato che la pessima acustica del Palazzetto dello Sport, dove il maltempo ha costretto a ripiegare, non abbia permesso di cogliere e apprezzare tutte le sfumature.

Di grande interesse inoltre la doppia presenza di Gianluigi Trovesi: in duo con la clavicembalista Margherita Porfido, nella loro seconda apparizione in pubblico, e a capo dell'Orobico Quartetto.
In una sorta di lezione-concerto il prezioso duo ha affrontato un singolare repertorio che dal Cinque-Seicento (sempre avvincente l'aria "Pur ti miro" dall'Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi) è giunto a brani di oggi, anche a firma di Trovesi. In una sala dell'Ex Convento dei Domenicani l'integrazione delle pronunce strumentali e l'intima dimensione cameristica hanno tratto giovamento dalla mancanza di amplificazione. In una sequenza solitaria il clarinettista ha esposto episodi brevi, gustosi, di tenore allegorico. A sua volta la clavicembalista è risalita invece all'origine popolare e balcanica del suo strumento (il cymbalon, il salterio), incorniciando una composizione di Michel Godard e alcune "Danze rumene" di Béla Bartók fra due pertinenti e apprezzabili composizioni del figlio Livio Minafra.

L'Orobico Quartetto è di recente formazione, ma in realtà comprende collaboratori storici del sassofonista e suoi conterranei: Paolo Manzolini alla chitarra, Marco Esposito al basso elettrico e Vittorio Marinoni alla batteria. Per Trovesi questa formazione segna il ritorno ad un cifra prettamente jazzistica e tipicamente sua, in cui i temi di folklore immaginario e i loro sviluppi vengono prosciugati in un incedere più essenziale e decantato, in forme più eleganti rispetto alle epiche e trascinanti esecuzioni storiche dell'ottetto. Melodie e ritmi estremamente netti hanno messo in evidenza una pronuncia al contralto ancora agile e acuminata, che ha duettato con la voce complementare della chitarra di Manzolini.

Con il festoso rito di congedo il cerchio si è chiuso, riagganciandosi al tema trainante delle bande, oggetto dell'anteprima del festival, e dando appuntamento alla prossima edizione. Il trattamento della tradizione bandistica e delle matrici popolari del Salento, dei Balcani e di altro ancora da parte del salentino Cesare Dell'Anna & Girodibanda ha portato ad esiti sonori e visivi ampiamente contaminati, indubbiamente coinvolgenti, volutamente eccessivi, grotteschi, sfrenati, ammalianti, barocchi, Kitsch, circensi, ubriacanti...

Foto
Luciano Rossetti.

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