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Antonio Ribatti - Direttore Artistico di Ah-Um Jazz Festival

Antonio Ribatti - Direttore Artistico di Ah-Um Jazz Festival
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Si suona molto jazz a Milano, ma chissà perché a quasi tutti piace pensare che non sia così. Detto questo, organizzare un festival a Milano è un’impresa particolarmente complessa.
All About Jazz: Giunto alla sua quindicesima edizione, il festival Ah-Um è ormai una felice consuetudine all'interno del panorama musicale milanese.

Nel corso degli anni, il festival ha cambiato luoghi, traslocando dalla Barona, zona periferica e marginale, al quartiere Isola, forse la zona più fighetta di Milano. Ha cambiato fisionomia. Nato in teatro, oggi è una sorta di festival diffuso. Ha cambiato orientamento artistico. Dall'avant delle origini, Ah-Um copre oggi un ampio spettro di musiche.

Il tutto tra qualche alto e basso, immaginiamo dettato anche da ragioni economiche. Abbiamo chiesto ad Antonio Ribatti, animatore del festival sin dalla sua prima edizione, di raccontarci più in dettaglio questo percorso di cambiamento, e le motivazioni che glielo hanno fatto intraprendere.

Antonio Ribatti: Ah-Um è nato in Barona e lì ha cominciato a crescere, dal 2000 al 2005. Un lustro che corrisponde alla fase più avanguardistica rispetto ai contenuti musicali con una direzione artistica collettiva, condivisa con altri musicisti della scena milanese. Nel 2007 e 2008, al Teatro dell'Arte presso il Palazzo della Triennale, il festival si è arricchito di contenuti collaterali. Quando Ah-Um è arrivato all'Isola, nel 2010, in realtà ha trovato un ambiente tutt'altro che fighetto... Era ancora un cantiere a cielo aperto con un contesto molto conflittuale proprio a causa delle opere che avrebbero poi portato la città a dotarsi di una nuova linea metropolitana e di un nuovo "centro" come Piazza Gae Aulenti.

Allora come oggi è un quartiere ricco di spazi interessanti, al chiuso e all'aperto, con ben due teatri (il Verdi e il Fontana), edifici storici di rilevanza (come i Chiostri di Santa Maria alla Fontana e la Fonderia Napoleonica Eugenia), un jazz club conosciuto a livello internazionale (Blue Note), spazi polifunzionali e gallerie d'arte (Zona K, Laboratorio Cagliani, Fondazione Riccardo Catella...). Inoltre tante realtà commerciali (Angolomilano, Osterialnove, Taj Mahal, Pub24, E...brezza, Il Tronco, Sullenuvole e molti altri ancora) disponibili ad accogliere un progetto di "Jazz Club" diffuso, che propone periodicamente maratone musicali con oltre dieci concerti per serata come, per esempio, quella che si terrà -giovedí 9 novembre -in occasione di JazzMI. Insomma, il quartiere Isola mi ha dato l'occasione per realizzare un progetto ambizioso: ridefinire il rapporto tra cultura e città, realizzare a Milano il primo festival territoriale di approfondimento culturale a carattere continuativo, creare un grande evento a partire dalla somma di tanti eventi in luoghi inusuali, anche piccoli e piccolissimi.

Tornando alla tua domanda, quando parli di "alto e basso" non capisco bene a cosa ti riferisci, specie se associato a questioni di tipo economico. Anche perché sono convinto del fatto che di per sé il valore economico di un musicista non garantisce che questo sia impegnato in un progetto di alto valore artistico. Insomma, entriamo in un terreno molto delicato. La coerenza, come sanno tutti coloro che cercano di perseguirla, ha un prezzo altissimo. Di fatto, ho cercato di tenere intatta la missione di promuovere progetti originali e innovativi, e queste due caratteristiche non sono appannaggio solo di una certa avanguardia, anche se molti musicisti, ascoltatori e critici, snobisticamente lo pensano. Continuo ad assumermi la responsabilità di promuovere progetti originali che spesso non hanno alcuna visibilità presso i media e il grande pubblico. È normale che possa succedere che un progetto che sulla carta sembra valido, possa poi risultare poco convincente. Ma mi è capitato ugualmente di uscire deluso da concerti tenuti da mostri sacri della musica. Per fortuna il palco, come la vita, non si ripete tutti i giorni nello stesso modo.

Oggi sono più che mai interessato al jazz come ad un universo capace di intercettare e ridefinire ogni tipo di suono, per questo motivo si passa dalla canzone d'autore tra jazz e west coast di Marco Massa all'incontro tra jazz e pizzica salentina di Nico Morelli, dal jazz rock europeo del Greg Lamy Quartet alle sperimentazioni sonore tra Mediterraneo e Medioriente di Giovanni Mattaliano, allo scomporre e ricomporre il mondo della canzone di Emilia Zamuner e Massimo Moriconi. Ogni concerto è semplicemente una finestra a sé, aperta sul mondo.

AAJ: Come si posiziona e come si differenzia l'AH-Um rispetto alle altre proposte musicali presenti nel territorio?

AR: Non so... mi piacerebbe che fosse il pubblico o la critica a rispondere a questa domanda. Sin dalle origini è stata fatta una scelta di campo molto precisa e, di fatto, nel nostro cartellone difficilmente compaiono i nomi che comunemente ricorrono nei principali festival jazz del Paese. Mi piace pensare al festival come ad un laboratorio in continua evoluzione, capace di sperimentare sinergie in ogni possibile direzione.

AAJ: Milano può vantare una grande tradizione jazzistica. Negli ultimi anni, tuttavia, la città sembra aver perso interesse nei confronti di questa musica. Com'è organizzare un festival a Milano?

AR: Non sono d'accordo. Non mi pare proprio che la città abbia perso interesse nei confronti di questa musica, tutt'altro. Specie negli ultimi tre o quattro anni sono successe un sacco di cose e si è assistito ad un fiorire di iniziative che rendono Milano una città a vocazione jazz. Qualche esempio? JazzMI, diretto da Luciano Linzi, che il prossimo novembre, per la sua seconda edizione, proporrà circa centocinquanta concerti dislocati in tutta la città, oltre a incontri e film a tema. Jazz al Piccolo racconta la storia del jazz da un ventennio a partire da un'istituzione fondamentale per la diffusione di questa musica come la Scuola Civica di Jazz. C'è Emilio Sioli (già ideatore del Ritmo delle Città) con il progetto Area M, che si sviluppa in Città Studi e che ha proposto moltissima musica in anni recenti, coinvolgendo centinaia di musicisti dell'area milanese. Per non parlare di Atelier Musicale alla Camera del lavoro di Gianni Bombaci, che da anni propone un eccellente programmazione al sabato pomeriggio. Piano City, che a maggio propone l'universo degli 88 tasti in tutte le salse. C'è Alterazioni, una coraggiosissima rassegna di musica di ricerca ideata da Massimo Giuntoli. Da qualche tempo il Conservatorio di Milano propone un fitto programma di concerti aperti al pubblico. Numerosi sono i locali che propongono programmazioni continuative tra i quali spiccano sicuramente il Blue Note con un cartellone internazionale di rilievo, il Masada con una programmazione jazz consolidata diretta da Pietro Squecco, il Bonaventura Music Club di Fabio Diana: realtà in continua crescita e sempre più radicate in città. Intorno a Milano poi ci sono realtà molto attive e propositive come Cernusco Jazz e, recentemente, il Cineteatro Astrolabio di Villasanta e chissà quanti altri ne sto tralasciando ... Cantina Scoffone, Nordest Caffè, La Buca di San Vincenzo... Si suona molto jazz a Milano, ma chissà perché a quasi tutti piace pensare che non sia così. Detto questo, organizzare un festival a Milano è un'impresa particolarmente complessa.

AAJ: Quali obiettivi ti poni quando inizi a lavorare sulla programmazione?

AR: Portare alla luce progetti originali capaci di raccontare storie interessanti. La suddivisione della musica per generi non mi ha mai convinto, ma quello che mi ha sempre interessato del jazz è l'estrema libertà nel trattare ogni tipo di materiale sonoro. Chi conosce il jazz sa che questo non è un atteggiamento nuovo, ma accade sin dalle origini. Per essere precisi, peraltro, non c'è mai un momento vero e proprio in cui inizio a lavorare sulla programmazione del festival. Ormai da tempo è un flusso di progetto in perenne itinere che si sviluppa in modo naturale, senza soluzione di continuità, per incasellarsi in contenitori diversi come Ah-Um Milano Jazz Festival, Parole Al Vento, Ah-Um Meets Europe, Dancing on the Strings, solo per citarne alcuni.

AAJ: Che criteri adotti nella scelta dei musicisti?

AR: Ricevo molte proposte, ascolto sempre il materiale e poi, approntato un primo programma, cerco di comprendere il suo grado di sostenibilità in termini economici. Spesso cerco di delineare un filo conduttore coerente, ma cerco anche di non essere troppo rigido, del resto mi piace interpretare e Ah-Um è un laboratorio in continua evoluzione. Spesso le idee e le intuizioni maturano improvvisamente, quando meno te lo aspetti. Alcuni progetti poi, in questi anni, sono diventati ricorrenti, con musicisti che tornano sulla scena del festival con continuità, ma fanno parte anch'essi di un percorso qui difficile da sintetizzare.

AAJ: Come selezioni gli spazi a tua disposizione per abbinarli con i musicisti adatti?

AR: Devo dire che il tutto accade in modo assolutamente istintivo, un po' come quando decido cosa indossare per un appuntamento. Così come non mi presenterei mai in bermuda e infradito ad un appuntamento di lavoro, nello stesso modo non metterei mai un concerto di improvvisazione radicale in un ristorante dove si mangia e si beve. Sono esperienze che richiedono livelli di attenzione differenti. Ogni luogo ha determinate caratteristiche e una determinata propensione ad accogliere un certo tipo di progetti. Certo è che un bel luogo amplifica notevolmente qualsiasi tipo di progetto musicale, facendolo diventare a tutti gli effetti un'esperienza culturale complessa, capace di radicarsi di più nella coscienza e maturare come un seme nel terreno. Ma il luogo migliore dove godersi un bel progetto è, a mio avviso, il teatro ed è per questo motivo che Ah-Um è tornato prepotentemente al palcoscenico grazie anche alla bella collaborazione con il Teatro Fontana. Di contro, è vero, ho la sensazione che il buio del teatro spesso inibisca il pubblico, perché costringe all'attenzione e induce a pensare, un'esperienza vissuta con soddisfazione da un pubblico sempre più esiguo.

AAJ: Come ti relazioni con il territorio?

AR: Spontaneamente, frequentando i luoghi, confrontandomi con le persone, cercando di interpretare le attese di coloro che con me collaborano e coinvolgendoli su un progetto che, se vissuto con spirito di condivisione, diventa il modo migliore per sviluppare un atteggiamento ad alta resilienza, ovvero con un'alta capacità di reagire alle condizioni avverse. Importante è stato anche il confronto con realtà territoriali come l'Associazione Isola Revel e l'Associazione Borsieri Garibaldi, seppure spesso, per motivi diversi, non hanno compreso sino in fondo le enormi potenzialità di un festival come Ah-Um. Approfitto per segnalare che proprio al fine di capire questo territorio e il suo rapporto col festival ho affiancato Loredana Scandura nella realizzazione della tesi di laurea dal titolo "Il Festival territoriale come strumento di trasformazioni culturali: Ah-Um Milano Jazz Festival e il quartiere Isola," discussa nell'aprile 2015 presso l'Università degli Studi di Milano.

AAJ: Qual è il segno più tangibile che il festival lascia sul territorio?

AR: Non ho mai avuto tempo e risorse per avviare un monitoraggio analitico sull'impatto del festival sul territorio. Tuttavia, osservando cosa è successo all'Isola dal 2010 ad oggi, posso affermare che l'apporto di Ah-Um è stato significativo per lo sviluppo delle attività musicali in quartiere. Diversi locali hanno cominciato a programmare musica od ospitano saltuariamente eventi musicali anche al di fuori del festival. Inoltre si sono sviluppati eventi di grande impatto sul quartiere come Un Giorno da Marciapiede, I Giovedì all'Isola, Mod City e Alfabeto di Città di qualche anno fa, oltre alla Notte Lilla o Fish & Swing, che si tengono con cadenza annuale nel periodo estivo.

Insomma, credo che Ah-Um abbia saputo innestare una bella spinta per il quartiere e a favore di tutta la città. Peraltro, dire che a fare musica ci si guadagna tutti è oggi più che mai un'affermazione che trova la sua veridicità anche in una recente indagine intitolata "La cultura che crea valore" e realizzata dal Ciset (Centro Internazionale di Studi sull'Economia Turistica), insieme a Confcommercio e Agis, dalla quale risulta che ogni euro investito nell'evento produce sei euro di spesa dei visitatori per tre euro di valore aggiunto. Un dato più che positivo a sostegno di quanto da me affermato.

AAJ: Quali sono le maggiori difficoltà con cui ti devi confrontare nell'organizzazione del festival?

AR: La maggiore è squisitamente di ordine economico, ma credo sia una problematica particolarmente diffusa in Italia, specie per le iniziative di innovazione. Avere risorse consente di ambire ad una qualità complessiva che, per quanto mi riguarda, significa investire sulla progettualità, garantire la dovuta correttezza nella gestione dei rapporti contrattuali, comunicare in modo strutturato e incisivo e così via, ma è fin troppo risaputo e banale ribadirlo in questo contesto.

Un'altra difficoltà -quando il festival è pronto -è legata al pubblico sempre più esiguo, tendenzialmente sempre più distratto, sempre meno curioso e sempre meno interessato ad eventi che non portino con sé contenuti altri rispetto a quelli squisitamente musicali: un tema importante su cui ci sarebbe molto da discutere, che coinvolge ambiti delicati come l'istruzione della musica.

AAJ: Indicativamente, che budget ha il festival? E che percentuale è allocata direttamente ai musicisti?

AR: Ovviamente è una domanda per cui mi avvalgo della facoltà di non rispondere, soprattutto perché i rapporti contrattuali sono giustamente coperti da privacy. Certo è che se vogliamo dare ai lettori un cenno di quel che accade dietro le quinte di un festival dal punto di vista organizzativo e gestionale, possiamo tranquillamente affermare che ci sono costi fissi di allestimento che valgono più o meno sempre, ovvero costi tecnici (location, service audio e luci, noleggi, personale tecnico, pulizie, utenze...), costi gestionali (personale amministrativo, collaboratori, tasse per diritti d'autore...), costi di comunicazione (ufficio stampa, grafica, stampa dei materiali, distribuzione, affissioni, pubblicità a pagamento...) e, infine, costi artistici (musicisti, viaggi, ospitalità) e questa, spesso, è la voce che può variare di più, dipendendo dalla fama dell'artista e dalla sua provenienza geografica.

AAJ: Riguardo ai partner organizzativi e finanziari, istituzioni pubbliche o sponsor privati, cosa è cambiato nel tempo?

AR: È cambiato che tutti sono sempre più disponibili a fare rete, ma sempre meno disponibili ad investire risorse economiche reali. Questa almeno è la mia esperienza. Le istituzioni hanno sempre meno fondi e relativamente ad Ah-Um non si è mai sviluppata una sinergia reale o continuativa, cosa che garantirebbe una progettualità ampia e condivisa. Spesso è difficile anche parlarsi. Recentemente ho trovato in Raffaele Todaro, assessore con delega alla cultura di Municipio 9, un interlocutore attento e interessato.

AAJ: Ci racconti un episodio particolare accaduto nelle passate edizioni?

AR: Potrei stare qui ore. Ci siamo sempre divertiti molto e dal festival sono passati poco meno di un migliaio di musicisti di ogni età e di ogni livello di notorietà. Tenuto conto che ogni individuo è un universo a sé, puoi ben immaginare... Tra i momenti che non dimenticherò mai, ricordo l'esecuzione di "Gate to Darkness" di Alberto Tacchini (era il 17 novembre 2000) nel concerto che ha dato l'avvio ufficiale ad Ah-Um e di "Orecchie Unite" dell'Artchipel Orchestra al Teatro Fontana (21 maggio 2010), concerto che contemporaneamente celebrava i dieci anni di attività del Collettivo Jam, gettava le basi della stagione isolana di Ah-Um e varava una delle formazioni più interessanti del panorama nazionale degli ultimi anni, che vanta oggi un repertorio ricchissimo e articolato, collaborazioni prestigiose, un buon seguito e un meritato successo.

AAJ: Quali sono i festival, nazionali o internazionali, che ammiri?

AR: Ce ne sono molti, moltissimi. Esistono molte realtà coraggiose animate da organizzatori provvisti di grande passione, Citerò i primi che mi vengono in mente. Time in Jazz, che in trent'anni di attività -sotto la direzione artistica di Paolo Fresu -ha valorizzato in modo significativo un territorio lontano dalle rotte, a partire da un piccolissimo centro rurale come Berchidda. Il Festival della Letteratura di Mantova: il pensiero che esista in Italia una città meravigliosa nella quale migliaia di persone si trovano per sentire scrittori e filosofi parlare mi rassicura. Il Luxembourg Jazz Meeting, che mi interessa molto per la sua capacità di mettere in relazione operatori del settore provenienti da tutto il mondo, intercettando spesso anche realtà meno note ma tuttavia spesso particolarmente innovative, un'idea di vetrina per progetti musicali locali da esportare, un modello che sto studiando da molto vicino e che mi piacerebbe riproporre in Italia, magari anche solo a livello regionale per cominciare. Qualcosa di simile lo ha fatto in Italia solo Puglia Sounds. Un festival appena nato che trovo assolutamente attuale è il Festival della Disperazione, che si è tenuto lo scorso maggio ad Andria, con inaspettato successo da parte degli organizzatori, dimostrazione che vale la pena non disperare.

AAJ: Una volta iniziato il festival, riesci a goderti i concerti che hai organizzato come uno spettatore comune?

AR: Oggi un po' di più che in passato, questione di allenamento. Ci sono questioni organizzative che ora riesco a trattare con maggiore facilità, velocità e controllo di una volta. L'esperienza dona calma, questo mi consente di sedermi ad ascoltare, ma soprattutto mi lascia lo spazio per capire -oltre alla musica—qual è il clima generale della serata, come suonano gli artisti, il grado di soddisfazione degli ospiti, qual è l'umore del fonico o dell'addetto alla biglietteria.

Insomma, ascolto ma tengo gli occhi ben aperti sullo staff e le orecchie ben aperte sul respiro del pubblico: nel buio della sala di un teatro si riescono a visualizzare energie altrimenti invisibili, fantasmi compresi, e ognuno ha i suoi...

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