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Antonio Borghini fra Italia e Berlino; disquisizioni sul contrabbasso e sul jazz

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La fuga dei cervelli dall'Italia. Si può catalogare in questa categoria anche la più o meno lunga esperienza che molti giovani jazzisti di casa nostra decidono di fare in altre realtà europee o americane? Non lo so, ma credo che si tratti di esperienze importanti, che tramite il confronto e la prassi li aiutano a crescere ed a configurare una propria personalità artistica. Ciò vale soprattutto per quei musicisti che intendono muoversi in un ambito di ricerca, non canonicamente jazzistico.

Uno degli artisti che hanno fatto questa scelta è Antonio Borghini, contrabbassista ben noto ancor prima che decidesse di stabilirsi a Berlino. Nella lunga e articolata intervista che segue si ripercorre il passato e il presente della sua attività. Fra l'altro Borghini ha modo di esporre profonde e convinte considerazioni sul ruolo del contrabbasso nel jazz di ieri e di oggi.

All About Jazz: Cominciamo dall'attualità. Oggi risiedi a Berlino: quando e perché hai scelto proprio questa città?

Antonio Borghini: Circa quattro anni fa ho cominciato a frequentare regolarmente Berlino. E' una città di cui mi sono lentamente innamorato, non ha una bellezza immediata e richiede tempo. Così, nell'estate del 2009 ho deciso di trasferirmi stabilmente, per concedermi/le questo tempo. I perché sono molti, per esempio posso viaggiare sui mezzi pubblici con il contrabbasso...

AAJ: In quali circuiti musicali ti sei inserito? Quali sono le tue collaborazioni musicali principali?

A.B.: La concentrazione di musicisti in città ha felicemente confuso le acque. Esiste un circuito di spazi indipendenti che accoglie musiche le più diverse. E' un esercizio piuttosto sterile in questo momento parlare di scena berlinese in termini stilistici. Si tratta piuttosto di un sistema di gestione e organizzazione indipendente dell'attività concertistica in città. Naturalmente con pro e contro, ma in città si fa tantissima musica.

A Berlino suono in questo circuito. Accanto ai quotidiani incontri estemporanei, a cui non rinuncio, ci sono alcuni progetti nati a Berlino che lavorano in maniera stabile: uno di questi è "Hook, line and sinker," un quartetto con Axel Doerner, Tobias Delius e Tristan Honsinger. Abbiamo suonato in diversi festival quest'anno e con loro mi sento come Alice nel noto paese. Tristan ed io abbiamo anche un trio assieme al chitarrista Olaf Rupp.

Nel trio "Der lagne Schatten" suono invece con il pianista Havard Wiik e Michael Thieke al clarinetto. Registreremo un disco con nostre composizioni a gennaio dopo un breve tour.

Recentemente ho inoltre cominciato a suonare nel nuovo quartetto di Alexander von Schlippenbach e collaboro regolarmente anche con Achim Kaufmann e Matthias Schubert.

Infine vorrei segnalare due giovani musicisti con cui sto collaborando e che credo faranno cose importanti: il batterista Christian Lillinger e il sassofonista Pierre Borel.

AAJ: Riscontri diversità sostanziali nell'organizzazione dell'ambito jazzistico (mercato, festival, club, laboratori...) fra la situazione italiana e quella tedesca?

A.B.: Discorso complesso. Credo che chi promuove e organizza musica oggi debba necessariamente muoversi come un operatore di mercato (costi, ricavi, vendibilità e quant'altro...) e direi che questo è uno schema internazionale. Così come globale è la tendenza delle amministrazioni pubbliche e della politica a considerare le attività culturali come un onere di cui disfarsi e lasciare che se ne occupi il mercato.

La differenza enorme dal punto di vista della produzione culturale la fa l'esistenza o meno di una rete libera di spazi e la capacità (volontà) delle persone di creare e comunicare al di là dei perimetri che il mercato impone. Io fui, qualche anno fa, tra i promotori del progetto "Map of moods," che aveva alla base un'idea piuttosto semplice: creiamo e sosteniamo in Italia spazi per la produzione e diffusione della musica a livello locale, che consentano una gestione diretta da parte dei musicisti e del pubblico senza l'intermediazione di agenzie o promotori. Non ha funzionato.

I musicisti tendono a vivere con frustrazione la dimensione locale, eppure è proprio così che la musica si crea (la 8th street di Cage, Feldman, Brown, la 52nd street del be-bop, l'AACM del South side di Chicago, se non erano scene locali quelle...). Io credo profondamente che se le arti hanno un futuro possibile, questo passa per le piccole (o grandi) scene locali e per l'organizzazione indipendente. Visto come stanno andando le cose su scala globale non credo che questo discorso possa più essere liquidato come ingenuo. Recentemente ho spesso suonato in piccoli centri tra Germania, Olanda, Svizzera e Austria ed è sorprendente la libertà di azione che hanno gli operatori culturali in queste dimensioni.

Per tornare a Berlino, credo che qui queste condizioni ci siano e funzionino molto bene (da un punto di vista strettamente musicale, non certo economico). La città ha sviluppato strategie semplici e ragionevoli, non ciniche: per fare musica servono musicisti attivi, ascoltatori disposti a contribuire e spazi che li accolgano. Ah, naturalmente il silenzio! La musica ne ha un indispensabile bisogno.

AAJ: In passato hai avuto modo di suonare con tanti altri musicisti stranieri: Tristan Honsinger, David Murray, Hamid Drake, gli olandesi... Quali le esperienze più significative?

A.B.: Ci sono luoghi in cui l'espressione "musicista straniero" suona decisamente poco significativa perché la convivenza di persone provenienti da tutto il mondo è la quotidianità. Io spero che l'Italia diventi presto uno di questi luoghi...

Senz'altro Tristan Honsinger è un musicista per me, e in assoluto, importante; con lui, dopo tanti anni, continuo a imparare e spero di continuare a lungo a fare musica insieme. Di Toby Delius e Axel Doerner posso dire la stessa cosa. È poi chiaro che suonare con Braxton, Mike Patton, Louis Moholo, John Tchicai, Sean Bergin, Han Bennink e tanti altri emoziona anche per il solo fatto di farlo: sono cresciuto ascoltando la loro musica.

Poi le cose non vanno sempre come speri, ci sono anche le delusioni, o semplicemente la natura degli incontri non è spontanea ma forzata: i grandi musicisti fanno uso anche di automatismi, è inevitabile visto il modo in cui spesso lavorano. Comunque ho anche molti ricordi bellissimi e sono contento di quasi tutti gli incontri fatti.

AAJ: Ricapitoliamo ora i tuoi esordi nel mondo del jazz: Milano, dove sei nato nel 1977, Roma, dove nel 1995 hai cominciato a studiare contrabbasso, e Bologna, dove hai proseguito/completato i tuoi studi. Sono state queste le tappe principali della tua formazione giovanile?

A.B.: A Milano ci sono nato, ma ero ancora molto piccolo quando la mia famiglia si è trasferita a Roma. A otto anni ho cominciato a studiare musica con quello che ancora oggi considero il mio unico maestro: Massimiliano Cobianchi. Insegna in una piccola scuola "casalinga" e lì ho imparato i rudimenti del pianoforte e della teoria musicale. Mi ha fatto ascoltare e suonare tanta musica e mi ha insegnato a suonare con gli altri. Posso solo sperare di riuscire ancora a vivere la musica come in quegli anni. Comunque, nei gruppi della scuola suonavo il basso elettrico e dopo qualche anno ho provato ad andare in scuole professionali. E' stato un disastro, ho praticamente smesso di suonare, e anche in seguito, al Conservatorio di Bologna ho avuto gli stessi problemi. Semplicemente detestavo gli insegnanti e l'ambiente. A parte i primissimi anni, credo quindi di essere fondamentalmente un severo autodidatta.

AAJ: A Bologna, fra l'altro, hai fatto parte del Collettivo Bassesfere, all'interno del quale hai conosciuto una serie di giovani e validi jazzisti coi quali hai collaborato a lungo: Fabrizio Puglisi, Edoardo Marraffa, Domenico Caliri, Francesco Cusa e tanti altri. Ci puoi parlare di quel periodo e di quel collettivo?

A.B.: Ecco, questa è stata l'altra scuola, e ha funzionato benissimo. Il primo anno a Bologna ho diviso un monolocale di 30 metri quadrati con Gianluca Petrella. Ho imparato diverse cose, ma l'impatto enorme l'ho avuto proprio ascoltando i musicisti che hai citato. I musicisti del collettivo Bassesfere (di cui faccio ancora parte!) in realtà non sono jazzisti (altro lungo discorso...). Guardando con un po' di distanza il loro lavoro negli anni Novanta posso solo dire che è stato importante, che resiste al tempo e che bisogna riconoscergli un notevole anticipo sui tempi. Sono stati tra i primi in Italia (e non solo) a creare ponti liberi e spesso molto intelligenti tra linguaggi che negli stessi anni custodi severi tenevano rigidamente separati.

Pensa a gruppi come Vakki Plakkula, Gastronauti, Specchio Ensemble, Atman, solo per citarne alcuni. Sono molto contento di aver passato quegli anni a Bologna e di avere fatto musica con loro. Tra l'altro è in uscita il disco del Collettivo al completo, direi che la storia continua!

AAJ: Approfondiamo alcune di queste collaborazioni: l'Open Quartet di Cristina Zavalloni, il Cal Trio di Caliri e il trio Chant, con Libero Mureddu e Cristiano Calcagnile.

A.B.: Questo è un bel salto nel passato in effetti... Dunque, Domenico Caliri è stato un incontro di enorme importanza per me, musicalmente e umanamente. Mi ha aiutato moltissimo, dedicandomi tempo e portandomi in giro a suonare con lui quando ero poco più che un ragazzino. Mi ha insegnato tantissimo e poi ha il brevetto della ritmica con Calcagnile, avendoci messi insieme lui per la prima volta! Con il Cal trio abbiamo fatto due dischi e tanti concerti, ma purtroppo è ormai qualche anno che non suoniamo più insieme.

L'Open Quartet è un gruppo che non esiste più da alcuni anni, ma con Cristina continuo a suonare nel progetto Idea. Anche di Cristina posso dire lo stesso, musicista importantissima per me, con lei ho fatto i miei primi concerti internazionali, mi ha dato un'enorme fiducia e continuo a imparare molto lavorando con lei.

Chant nacque da un'idea di Cristiano Calcagnile ed è stata un'esperienza centrale nel mio percorso musicale. Il trio funzionava come un piccolo collettivo e la musica portata da Cristiano veniva trattata in modo aperto e discussa da tutti e tre. L'ultimo disco, Ma io ch'in questa lingua..., secondo me è un lavoro importante. Abbiamo passato due settimane chiusi in uno studio ad Helsinki e per me è stata un'esperienza nuova e molto bella. Abbiamo lavorato senza sosta e usato lo studio di registrazione come uno strumento. Il risultato è un lavoro che trovo molto originale e di cui sono personalmente orgoglioso. Purtroppo la logistica del gruppo è difficilissima (io a Berlino, Libero a Helsinki) e la chimica umana anche; la musica per di più non è di facile collocazione sul mercato. Comunque credo di poter dire che con Libero e Cristiano ho avuto alcune delle esperienze musicalmente più forti e significative in assoluto.

Comunque alcuni progetti italiani ancora attivi ci sono: il quartetto "Eco d'alberi" con Edoardo Marraffa, Alberto Braida e Fabrizio Spera, "Mrafi" di Edoardo Marraffa con Pasquale Mirra e Cristiano Calcagnile; e ancora il trio "Headless Cat" con Francesco Bigoni e Federico Scettri e "Orange Room" di Beppe Scardino.

AAJ: Finora un unico CD a tuo nome: Antonio Borghini & Malebranche: Six Dances Under, edito da El Gallo Rojo, in cui a fianco di vecchi compagni di strada italiani si inserisce anche Michael Thieke. Ci puoi sintetizzare la genesi del progetto, l'obiettivo di fondo, il repertorio?

A.B.: Six Dances Under comprende una serie di composizioni ispirate alla danza e scritte nell'arco di pochi mesi appositamente per il gruppo Malebranche: Bigoni e Thieke alle ance, Puglisi al pianoforte, Mirra al vibrafono, Venitucci alla fisarmonica e Calcagnile alla batteria. L'idea di fondo che lega le sei composizioni è la costruzione della musica attraverso la combinazione di tre "funzioni" principali: lo spazio determinato, lo spazio mobile e il movimento. Più semplicemente i brani possono essere considerati delle coreografie. La musica risale al 2008 e ascoltando questo lavoro fatalmente oggi sento alcune ingenuità nella scrittura e nell'organizzazione della musica. Ma il suono del gruppo lo trovo molto convincente; penso che "Danza#3" e "Danza#4" siano due buone composizioni. La mia gratitudine va tutta ai musicisti del gruppo che hanno fatto un lavoro importante e suonano magnificamente.

Adesso comunque è pronto un nuovo disco di mie composizioni che uscirà nel 2012, anche se è qualcosa di completamente diverso...

AAJ: Fra gli anni Settanta e i primi Novanta si è assistito al rinnovamento della tecnica contrabbassistica. Ci puoi dare delle spiegazioni storico-tecniche?

A.B.: A questo proposito c'è una considerazione storicamente importante da fare. Gli anni Settanta hanno rappresentato uno spartiacque per lo strumento per due motivi: la diffusione delle corde di acciaio e, soprattutto, l'uso dell'amplificazione. Questi cambiamenti sono stati enormi e se vuoi il mio parere, si è pagato un prezzo altissimo. L'impressione generale, tra i contrabbassisti, è stata che potevano finalmente "regolare" lo strumento in modo estremamente più confortevole e, soprattutto, che potevano raggiungere i volumi desiderati senza sforzo.

La quasi totale adesione a questa prassi ha fatto sì che per trent'anni il contrabbasso ha, con poche eccezioni, perso la sua natura di strumento acustico, membro della famiglia degli strumenti ad arco (anche se pizzicato). Se si ascoltano i grandi maestri che hanno attraversato questo cambiamento ci accorgiamo subito degli effetti devastanti di questa scelta: Ron Carter, Richard Davis, Gary Peacock, lo stesso Mingus solo per citarne alcuni: dall'avvento dell'amplificazione il loro suono risulta deturpato. Per non parlare di tutta la generazione di bassisti che non ha neanche conosciuto il percorso "acustico". Io ovviamente appartengo a questa generazione e solo da pochi anni, dopo una lunga ricerca e alcuni splendidi esempi, ho completamente abbandonato l'amplificazione.

Per un contrabbassista suonare acustico comporta due problemi principali: imparare a sviluppare un suono acustico (che non vuol dire solo volume, ma qualità e proiezione di suono) e fronteggiare la frequente incapacità degli altri musicisti a suonare senza amplificazione. Sulle dinamiche la regola è molto semplice: decide lo strumento più debole. Questa è una regola che nel mondo della musica da camera, antica o moderna, è del tutto acquisita, mentre nel jazz è praticamente estinta (l'orchestra di Ellington suonava acustica!). Eppure le possibilità dinamiche della musica acustica sono infinitamente superiori rispetto alla meccanica dell'amplificazione.

AAJ: Nell'ultimo trentennio sono venuti alla ribalta due protagonisti che rappresentano i due estremi virtuosistici dello strumento: Barry Guy, di tipo sperimentale, avanguardistico, contemporaneo, e Renaud Garcia-Fons, narrativo e legato a varie tradizioni etniche e popolari. Ci puoi dare un tuo parere al riguardo e un tuo commento su questi due colleghi?

A.B.: Di Garcia-Fons non conosco molto. Quello che ho sentito mi ha lasciato piuttosto indifferente, come, devo confessare, quasi tutti i tentativi di contaminare linguaggi di tradizione etnica o popolare con un approccio euro-colto. Sul fronte strettamente strumentale, è un tipo di virtuosismo che non mi emoziona particolarmente. Per spiegarmi meglio ti racconto un episodio: ho visto una masterclass di Yehuda Hanani sulla Sonata n. 5 per piano e violoncello di Beethoven. L'allievo suona perfettamente ma viene interrotto da Hanani che gli dice: "Io continuo a sentire uno che suona il violoncello. Tu devi farmi dimenticare il violoncello". Ecco, questo è un tipo di virtuosismo che mi interessa molto di più. Ci sono, pochi, musicisti che riescono a farti dimenticare il loro strumento (tra i bassisti contemporanei uno che ci riesce è John Edwards).

Barry Guy lo conosco molto meglio, è un musicista importante e in una certa misura mi ritengo influenzato da lui. In particolare ho amato molto il lavoro del trio con Derek Bailey e Paul Rutherford.

AAJ: Al contrario, nel jazz di oggi, escluse le esperienze di improvvisazione radicale e compresi i non pochi casi di bassisti-leader, il contrabbasso appare ancora relegato al ruolo di accompagnatore.

Inoltre, dal punto di vista della tecnica strumentale, mi sembra che il contrabbasso negli ultimi vent'anni non abbia subìto l'evoluzione che ha caratterizzato altri strumenti (penso soprattutto a piano, tromba e batteria).

Quale è il tuo pensiero in merito?

A.B.: Personalmente questa cosa che uno sia relegato nel ruolo di accompagnatore non la capisco molto. La questione è la musica. Se ascolto Larry Gales o Percy Heath, James Jamerson o Cachao (per citare alcuni bassisti) non avverto nessuna frustrazione nel loro modo di suonare (piuttosto avverto la mia se non ballo...). Cosa fanno questi musicisti? Gales suona la musica di Monk ed è uno dei grandi interpreti e conoscitori di questa musica. E' un virtuoso? Senz'altro, perché il contenuto musicale che esprime e il vocabolario che usa rivelano una profonda "comprensione" della musica che suona.

La verità è che la musica è un linguaggio terribilmente complesso e fragile, ognuno deve sviluppare una propria intelligenza e soprattutto fare ciò che ama. Ho la sensazione che nell'ascolto si sia sviluppato un approccio "jazzistico" che tende a concentrarsi sui musicisti più che sulla musica. In questo modo la bravura si misura individualmente (e ahimé quantitativamente) e si rischia di perdere un ascolto d'insieme. C'è una bella pagina nel libro scritto da Charles Mingus in cui parla dello splendido "anonimato" dei musicisti di un quartetto d'archi, e sembra sognare un mondo che gli è stato precluso (in quanto nero e musicista di jazz), in cui i musicisti spariscono nella musica e nessuno sente il bisogno di conoscere i loro nomi.

Per quanto riguarda la tecnica strumentale vale un po' lo stesso discorso: l'evoluzione della tecnica strumentale può essere significativa solo all'interno di un'evoluzione del linguaggio. Credo che quella che comunemente chiamiamo "musica jazz" abbia attraversato una lunga fase in cui la tecnica strumentale è cresciuta sostanzialmente senza intaccare il linguaggio, o meglio, senza svilupparne uno nuovo.

AAJ:... Ovviamente persiste sempre la grande tradizione americana, tipicamente jazzistica (bianca o nera). Quali ritieni essere i più importanti contrabbassisti di oggi? In che misura ti ritieni influenzato da - o appartenente a - questa tradizione?

A.B.: Il problema è che il termine "jazz" è un enorme equivoco linguistico sin dall'inizio, anche a detta dei suoi grandi protagonisti. Se il dibattito non li appassionava particolarmente, figurati quanto possa appassionare me... comunque ho sempre avuto un rapporto decisamente laico con la materia. Per risponderti, no, non mi sento, come musicista, di appartenere a questa tradizione (di cui non capisco il perimetro). Ho imparato a suonare e ad amare la musica anche grazie a molti musicisti che generalmente vengono chiamati jazzisti, quindi, se così è, senz'altro la musica jazz mi ha enormemente ispirato. Questo è quanto riesco a dire sul "jazz". Poi potrei chiacchierare per ore di Rollins, Taylor, Ellington, Braxton, Monk, e qualche altro centinaio di musicisti per ognuno dei quali varrebbe la pena di trovare una parola che descriva la loro musica, uno per uno.

Per quanto riguarda i bassisti americani contemporanei bianchi o neri di jazz... Aspetta, mi sono perso, troppi aggettivi! Comunque, la lista sarebbe certamente lunga, ma onestamente non seguo quasi nulla del jazz contemporaneo. Ah, Mary Halvorson mi ha dato un bel disco del suo trio e John Hebert è bravissimo.

AAJ: Per finire guardiamo al prossimo futuro che ti riguarda. Quali i tuoi progetti, gli impegni discografici o concertistici nei prossimi mesi? In particolare avremo modo di riascoltarti in Italia?

A.B.: Ho appena finito di registrare a Berlino con il mio nuovo progetto "Manunkind" e sono felicissimo del disco. Ho scritto una serie di canzoni per la cantante Almut Kühne, su testi di E. E. Cummings e altri poeti. È musica quasi totalmente scritta ed è un lavoro decisamente diverso da tutto quello che ho fatto fino ad ora. Con me e Almut ci sono tre fantastici musicisti: Michael Thieke al clarinetto, Gerhard Gschlößl al trombone e Giorgio Pacorig al pianoforte. Spero di riuscire a presentare questo lavoro anche in Italia.

Nei prossimi mesi girerò con alcuni dei progetti di cui ti ho parlato: farò alcuni concerti con il quartetto di Schlippenbach, assieme a Tristan Honsinger. Poi con Cristina Zavalloni, e con il gruppo Mrafi di Edoardo Marraffa... ma in Italia per il momento non c'è niente di programmato.

Foto di Claudio Casanova


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