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Alberto Pinton: la nostra parte del puzzle

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Il suono del sax baritono di Alberto Pinton è riconoscibile e plastico, comunica forza e sapienza come tutto il suo suonare, dove ogni gesto è simbolo e azione di una necessità, dove anche la più furiosa delle sortite è inserita e controllata da una gestione della forma e del contenuto esemplare
Scrivere di Alberto Pinton è una delle occasioni ghiotte che speravo di avere collaborando occasionalmente con la divulgazione "giornalistica" del jazz. Sapendo bene di non essere un tecnico della scrittura, ma un semplice veneratore del linguaggio, mi avvicino all'impresa con le cuffie, chiudendo il mondo fuori per la durata di un disco.

Questa volta il disco è Live in Japan (Wildcat House 2018) della formazione NOI SIAMO di Alberto Pinton, gruppo che ha la sua base in Svezia (dove Alberto risiede da più di un ventennio), ma che ha registrato questo lavoro live durante un tour in Giappone nel Febbraio del 2017. Per l'occasione il bassista stabile del gruppo (impegnato in altri lidi), Torbjorn Zetterberg, cede il posto a Yasuhito Mori, valente contrabbassista e organizzatore del tour.

La musica del gruppo si dichiara profondamente jazz, e con un profondo legame con la tradizione, ma anche e forse soprattutto con le avanguardie degli anni sessanta, ma con un piglio originale e con un'urgenza a cui forse non siamo più molto abituati. C'è un vociare collettivo, una spinta di energia verso l'esterno, il suono del sax baritono di Alberto Pinton è riconoscibile e plastico, comunica forza e sapienza come tutto il suo suonare, dove ogni gesto è simbolo e azione di una necessità, dove anche la più furiosa delle sortite è inserita e controllata da una gestione della forma e del contenuto esemplare. Le composizioni sono strutture che si piegano ai timbri, agli squarci dinamici, al groove e all'espressionismo in maniera fluida, senza allentare la tensione, ma capaci di narrare e dipingere paesaggi in movimento, veri affreschi vivaci e vitali di un mondo iper-reale.

Quanto siamo lontani dallo stereotipo del jazz nordico... e quanto siamo dentro una sintesi personale! C'è continua sorpresa nell'alternarsi di suono rumore, entropia e silenzio, sapienza armonico-melodica e ricerca timbrica e sonora.

Live in Japan è solo l'ultimo capitolo della saga Pinton (anche se, al ritorno dal tour giapponese, la formazione originale con Torbjorn Zetterberg ha registrato un nuovo lavoro che verrà pubblicato in Maggio dalla portoghese Clean Feed), la quale annovera numerosi dischi, di formazioni sempre organizzate e volute, quasi mai occasionali (il che la dice lunga sulla tipologia e la profondità del lavoro del sassofonista) e un lavoro come sideman di altissimo profilo grazie ad una capacità multi-strumentale che va dai flauti, ai clarinetti, ai sassofoni. Capacità che si ritrova in questa registrazione a garantire una freschezza di ascolto in ogni brano, a rafforzare idee melodiche e composizioni asciutte, suonate in maniera impeccabile il cui valore a chi ascolta, con la dovuta relatività, appare assoluto.

Lungi da me l'idea di scrivere un panegirico sul sassofonista di Porto Marghera, ho l'occasione di farlo parlare in prima persona su alcuni concetti cardine e spero interessanti.

Marco Colonna: Alberto, la prima domanda che vorrei farti riguarda l'identità della tua musica. Sei un musicista esule, un foreign student, un italiano che vive in Scandinavia, hai un gruppo dal nome italiano con musicisti svedesi e il disco di cui parliamo è registrato in un tour giapponese. Insomma mi sembra che la tua prospettiva circa l'identità non possa che essere molto interessante!

Alberto Pinton: La prima domanda che mi poni mi fa tornare indietro di una ventina d'anni almeno, o anche trenta, ad un periodo durante il quale mi domandavo quale potesse essere il mio ruolo e contributo ad una musica che mi ha entusiasmato, caricato di energia, reso frustrato, messo in riga per quanto riguarda dedizione e disciplina, richiesto tutta la mia attenzione giorno dopo giorno e anno dopo anno. Da italiano, veneto, nato nei primi anni sessanta, qual'era (qual è) il mio rapporto con il jazz e la musica improvvisata? Cosa voglio presentare ed esprimere?

La risposta fu, ed è, che sta a me trovare il mio posto nel puzzle. Incastrarmi nel modo giusto, o anzi, nel modo mio. Da queste riflessioni è nata e nasce la mia voglia di provare modelli compositivi e improvvisativi che magari non rientrano perfettamente nei canoni, ma che comunque rispecchiano una precisa volontà espressiva sincera, senza manierismi, fronzoli, nè velleità di "successo." Per quanto riguarda il nome del progetto più recente, Noi Siamo, mi suona bene nella sua modestia. Un po' come dire "what you see (hear) is what you get." È anche un po' una reazione a tanti progetti, titoli di brani e produzioni dove sembra sia obbligatorio trovare gli abbinamenti di parole più "hip" possibili. Ho quindi un'identità da italiano espatriato (Svezia e America) con la necessità quotidiana di confrontarsi con altri musicisti, che è divenuta una situazione naturale a cui sinceramente non penso più.

A questo proposito, ripensando a Live in Japan, ricordo con piacere l'apertura quasi disarmante del pubblico giapponese. È stata una bellissima esperienza. Persone di tutte le età che ascoltano attentamente e accolgono qualsiasi gesto musicale con rispetto ed apprezzamento: indimenticabile. Gente che non aveva idea di chi fossi e da dove venissi che poi dopo il concerto compra tutta la mia produzione.

MC: "La nostra parte nel puzzle," mi sembra veramente che sia così. Ed io ascoltando la tua musica sento una sintesi personale e potente di due differenti atteggiamenti. Quello "americano" nel suono e nella pronuncia, e anche nella scansione ritmica. E quello europeo, nel gusto melodico (ci sento tanto Kenny Wheeler... ma magari sono io), nel gusto del contrappunto e nelle sospensioni che trasformano un "jazz combo" in un gruppo "da camera." Quale spazio trova la tua musica? Purtroppo, in Italia non capita spesso di ascoltarti, e questo è l'ennesima prova di quanto ci perdiamo inseguendo le varie chimere del mercato. Quale idea compositiva c'è alla base del tuo lavoro? E come si manifesta nel tuo essere solista?

AP: Cercando di vedere dal di fuori quello che propongo sia come sideman che come bandleader mi trovi d'accordo, anche se l'analisi del mio lavoro di leader mi risulta più difficile, dato che lascio molto spazio all'intuizione. L'atteggiamento "potente" o "americano" è probabilmente frutto di decenni di lavoro in big band, ispirato da figure di riferimento come Hamiet Bluiett o Pepper Adams, e di un lavoro sul suono del baritono che mi ha da sempre spinto ad investigare tutto lo spettro dinamico ed espressivo. Cioè, quanto soft/loud posso suonare? Che messaggio si trasmette, lavorando su dinamiche più estreme? Cito qui il leggendario For Alto di Anthony Braxton, che ascoltai già da principiante, alle prese con il mio primo sassofono, un contralto Grassi. Braxton improvvisa sia con suono quasi classico che con la massima potenza e "distorsione" acustica. Con Kenny Wheeler ho avuto la fortuna di suonare come sideman in almeno tre produzioni. Fu ospite dello Swedish Radio jazz Group in più occasioni, una volta con musica scritta per l'occasione con, tra gli altri, Anders Jormin al basso e Billy Hart alla batteria. Grande artista, supermodesto e silenzioso, che dava zero istruzioni ai musicisti ed era sempre sorpreso e contento di sentire la sua grande musica suonata bene, come se si aspettasse che i suoi clamorosi voicings non funzionassero.

Il mio intento compositivo e improvvisativo è credo basato sia su intuizione pura (se un'idea non mi prende emozionalmente probabilmente non funzionerà) che su un approccio metodico dove uso, giro e rigiro intervalli e linee melodiche fino a che hanno senso per me. Aggiungo però che qualche volta ho composto della musica in maniera molto "accademica" e sono stato sorpreso dai risultati positivi. Solisticamente quando sono bandleader sono abbastanza legato all'arco della composizione. Lascio campo libero ai membri dei miei gruppi ma poi quando ascolto i takes mi rendo conto del mio ruolo di "regista," sia nella lunghezza che nel tipo di assolo. Purtroppo non riesco a far interessare nessun organizzatore, in Italia. Suonai con successo (venduti tutti i CD che avevo con me) ad una edizione del Clusone jazz. Una volta.

MC: Clusone è una delle vittime eccellenti di questi periodi oscuri. La mancanza di denaro, le difficoltà di avvicendamento nel direttivo e tanti altri fattori ci hanno privato di un'eccellenza nel panorama dei Festival italiani. Come è la situazione in Svezia? Quali musicisti lontani dai radar sono degni di nota secondo te? Quanto la musica che suoni partecipa alle vicende umane e sociali della terra in cui vivi?

AP: È un vero peccato. Qui in Svezia credo ci siano più sussidi statali. La cultura viene abbastanza aiutata. Detto questo, la musica più sperimentale, meno "trendy," trova sempre meno spazi. I pochi clubs non pagano perchè proprio non possono, i festival più importanti non propongono gruppi poco conosciuti. Musicisti lontani dal radar ce ne sono anche qui come dappertutto. Siamo in tanti, nonostante the pond della musica originale improvvisata sia relativamente poco popolato. Evito di far nomi cosi non dimentico nessuno. MC: Quanto la musica che suoni partecipa alle vicende umane e sociali della terra in cui vivi?

AP: Direi poco. Le dinamiche sociali qui su sono meno estreme che da noi, col rischio di generalizzare. Detto questo, trovo importante continuare a fare ciò che faccio, assieme a tanti altri. Si "combatte" contro un impoverimento culturale rampante dove i canali di comunicazione più importanti fanno scelte di presentazione sempre più uniformate e superficiali. Anche qui, come in Italia negli anni della mia crescita, si vedeva il jazz in televisione nazionale a orari prime time. Ora non più.

MC: A volte penso alle iniezioni sudafricane nella Londra degli anni sessanta e settanta come un'esempio della fondamentale importanza che l'apertura a stimoli esterni ha per la salute di una scena musicale. L'integrazione dalle nostre parti è una sorta di missione impossibile. Non conosco molti musicisti di "jazz" che arrivino da altre culture, nè in prima nè in seconda generazione. L'unica spiegazione che riesco a trovare è che la musica (o meglio, il bacino culturale di riferimento) sia relegato ad una certa fascia sociale ed economica. E che quindi essa non sappia rivolgersi a quei ragazzi che vivono la loro vita emotiva anche attraverso la musica, ma che appartengono a gruppi "sociali" distanti dal mercato generato intorno alla stessa. Questo non succede per la musica di "consumo," lo sport, e volendo anche il teatro e il cinema (in minimissima parte comunque). Tu come interpreti questo e c'è una differenza con l'ambiente in cui sei inserito e lavori? Come è stato il tuo "essere" Italiano in Svezia? Nel senso, quanto secondo te l'apporto esterno riesce a vivificare una scena musicale e quindi culturale?

AP: Io sono arrivato qui a metà anni ottanta. Poi me ne sono andato e sono ritornato due volte (le borse di studio americane mi hanno fatto passare quattro anni (due a Boston e due a New York) negli States. Per cui si può dire che ho ricominciato da zero per un totale di tre volte. L'espressione sembra esagerata, ma chi fa il musicista free-lance sa esattamente cosa intendo. Ci vuole tempo a farsi conoscere, mostrare le proprie capacità e disponibilità alla scena locale, per poi magari muoversi anche fuori, far girare il nome. Da straniero, questo è senz'altro ancora più complicato. I musicisti stranieri inseriti nella scena non sono tanti neanche qui. Devi mostrare, dimostrare e ridimostrare quello che hai da offrire, cosa che credo sia una cosa che tutte le minoranze hanno in comune. Nel mio caso, un vantaggio credo sia stato che polistrumentisti preparati al mio livello non ne crescono sugli alberi neanche qui. Suonare, e averli nell'arsenale, sassofoni, clarinetti e flauti di ogni dimensione non è da tutti. Uno svantaggio, invece, è che non sono mai stato, nè mai sarò, disposto a non essere me stesso, facendo compromessi stilistici o sociali. Senza entrare troppo in dettagli o raccontare aneddoti, diciamo che non essere nato qui si percepisce a volte in maniera molto trasparente. Detto questo, trovo che qui ci sia una scena sana, di bravissimi strumentisti, che si rispettano a vicenda ed apprezzano gli sforzi che ognuno fa per presentare la propria visione creativa.

MC: Con chi ti senti affine fra i musicisti a te contemporanei? E quindi in quale direzione evolvi, e quanto il confronto con i maestri ed i colleghi ti ha rafforzato nelle tue convinzioni?

AP: In tutta sincerità non ascolto musica tutto il tempo libero, e non mi sento completamente al corrente di quello che succede adesso. Quando mi siedo al piano per comporre o butto giù qualche idea suonata tra un tour e l'altro cerco di farlo da un punto di partenza neutrale. Non credo di avere trovato un concetto compositivo, o improvvisativo, particolare, e mi piace, anzi lo trovo necessario, mettermi in discussione, provocarmi. L'autunno scorso ho scritto musica per un sestetto che ho allestito in occasione di un concerto, e mi ricordo di essermi dato, al tempo, delle linee da seguire che solitamente non seguo necessariamente. Il risultato è stato interessante ed apprezzato. La musica è senz'altro mia, ma più di uno che era al concerto mi ha detto che c'era un'apertura diversa. Più spazio. Questo a me fa piacere, mi interessa esplorare, evitare il più possibile di ripetermi. Se penso alla traiettoria compositiva e improvvisativa di un John Coltrane, o Roscoe Mitchell, mi rendo conto di avere appena graffiato la superficie. Artisti contemporanei che ascolto con una certa frequenza sono Tim Berne, Vijay Iyer, Vinny Golia (ci spediamo musica abbastanza regolarmente, per qualche motivo gli piace ed apprezza ciò che faccio, e lui per me è uno dei pionieri del polistrumentismo) MC: Nel mio percorso ho sperimentato praticamente qualunque tipologia di scrittura e di organizzazione dei materiali. Dalla notazione tradizionale, ai grafici, ma ammetto che la fluidità delle idee e la partecipazione emotivo-sintattica dei musicisti non hanno paragoni nelle forme aperte e completamente improvvisate. Questo però risulta essere un grave limite in quanto la capacità di costruire logos attraverso l'improvvisazione riduce drammaticamente il numero di musicisti con cui poter aspirare ad una forma "alta" all'oggetto musicale. Qual è il tuo rapporto con l'improvvisazione (sia solistica che diciamo "sintattica")? Da dove nasce il tuo essere polistrumentista?

AP: Fin dal primo CD a mio nome decisi di registrare dei momenti e brani completamente improvvisati. Ho mantenuto questa "formula" in ogni produzione o quasi. Questo per sottolineare il fatto che mi trovi assolutamente d'accordo, per quanto riguarda la fluidità, e la partecipazione emotiva e sintattica dei musicisti. Detto questo, trovo estremamente interessante l'inserimento di situazioni completamente aperte all'interno di parti scritte. Ho sperimentato con momenti di transizione tra varie sezioni di una composizione, introduzioni, code, "vamps" più o meno complesse ritmicamente e/o melodicamente, progressioni armoniche, scale costruite da intervalli contenuti nella composizione, attaccare due o tre brani (o un set intero) con soli, duetti, trii etc.

Un brano registrato nel mio secondo CD intitolato Marching Man ha una linea melodica statica e riconoscibile che, uno alla volta, batteria, basso e tromba mollano ad ogni nuovo chorus, creando una sorta di disfacimento ritmico e melodico dove io (il marching man) mantengo la direzione, suonando il tema senza variazioni. Questo fu uno dei molti esperimenti. Quello che non faccio mai, per scelta e per (ancora una volta) soddisfare la mia curiosità e bisogno di farmi sorprendere è dare istruzioni specifiche ai membri dei miei gruppi. Sono un bandleader e compositore estremamente democratico. Suggerimenti fatti durante prove, o alla fine di un concerto, sono sempre benvenuti, anzi spronati, e nove volte su dieci messi in prova al concerto seguente. Questo crea, secondo me, una situazione di lavoro rilassata, dove la creatività individuale e collettiva può esprimersi al meglio.

Il polistrumentismo l'ho inseguito fin dai miei primi passi di sassofonista. L'Art Ensemble Of Chicago suonò a Mestre, dove sono cresciuto, e vedere questo palco coperto di fiati mi fece impressione. Decisi subito che lo volevo fare anch'io. Polistrumentisti che ho seguito durante gli anni sono il già citato Vinny Golia, Marty Ehrlich, Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, Henry Threadgill con l'Air trio, Eugenio Colombo. Aggiungo alla lista il mio primo maestro, Renato Geremia, musicista carismatico e incredibilmente creativo, che mi stava seduto davanti, durante le nostre lezioni completamente aperte, e suonava flauto, sax soprano, alto, tenore, clarinetto, violino, pianoforte, per dimostrare i suoi concetti sul suono, o l'intonazione, o il linguaggio improvvisato.

MC: Il polistrumentismo, che nel mio caso si riduce ad un poli-clarinettismo mantenendo il sax baritono come unico sassofono e qualche rapporto occasionale con i flauti, lo associo alla figura di Roland Kirk. Anche se le vere investigazioni sono cominciate con l'ascolto di Braxton, la musica di Kirk la trovo completamente destabilizzante, con il suo essere popolare e iconoclasta allo stesso tempo. In qualche modo da solo era tutto l'Art Ensemble... Come vedi la dicotomia ricerca/popolarità? Spesso nella musica che amiamo le avanguardie hanno testimoniato un'esigenza dal basso reinventando le chiavi di lettura delle persone e facendo numeri che per noi (a qualsiasi latitudine) sono inimmaginabili. Quale futuro per noi? Come vedi l'evolvere dei linguaggi contemporanei verso le persone? Io noto una drammatica sterzata verso l'accademismo, e un privilegiare atteggiamenti "colti" (o simil tali) ed esclusivi, mentre il motivo fondante per cui riconosco ancora nella parola "jazz" un qualche valore e la sua radici di inclusività e rigenerazione.

AP: Roland Kirk! Introducing Roland Kirk, con Ira Sullivan, Out of the Afternoon, Kirk's Work... musica che comprai in cassetta o vinile, che ascoltavo e riascoltavo quotidianamente. Ho fatto dei tentativi di suonare due o tre fiati contemporaneamente (come ti ho visto e sentito fare con bravura) ma non ho mai approfondito la ricerca. Sinceramente trovo la creatività e livello di output di Roland Kirk praticamente inarrivabile, per un comune mortale come me. La tua descrizione di quello che è e rappresenta la sua musica è perfetta.

Mi viene in mente un altro LP che ho praticamente consumato, Roscoe Mitchell and the Sound and Space Ensembles, sulla leggendaria etichetta Black Saint. I brani si alternano tra composizioni/improvvisazioni cameristiche, con intervalli dissonanti, sparsi, la voce operistica del baritono di Thomas Buckner, a pezzi superfunky (abbastanza "storti," alla AEOC) che arrivano direttamente alle viscere. Questo è un approccio alla composizione, esecuzione e improvvisazione con cui mi identifico, lo trovo interessante, stimolante, inclusivo e rigenerativo, allo stesso tempo presentato con modestia e semplicità, uno statement di "this is what we do," senza false pretese. Credo di capire ciò che intendi per accademismo e atteggiamenti colti; l'esclusivismo che eventualmente ne risulta spero non sia scelta cosciente. Detto questo, sento tanta musica in giro che mi lascia completamente freddo. Un livello di complessità compositiva e improvvisativa che sento fine a se stesso, come se tutte le strade espressive siano ormai esaurite, giunti come tutti siamo verso la fine del secondo decennio degli anni duemila, e bisogna a tutti i costi cercare il "diverso," il "di più." Ma non sono un purista, ed il mio atteggiamento di partenza è, come ho già menzionato altrove, mettere in questione me stesso, le mie scelte espressive, gli intervalli che metto insieme, i suoni che tiro fuori dai miei tubi.

MC: Chiudo questa chiacchierata provocandoti un po' e chiedendoti cosa vuoi dire ora. Quale è la tua necessità comunicativa del momento fuori dai macrosistemi espressivi di cui abbiamo parlato. Perchè Alberto Pinton soffia dentro un sassofono, oggi?

AP: Crescita interiore. Meditazione quotidiana. Esigenza di ricerca (il "cleaning the mirror" di John Coltrane), sentirmi (ogni tanto) soddisfatto di quello che so fare ed esprimere sui miei strumenti. Non credo in tutta sincerità di essere particolarmente dotato, dal punto di vista di facilità di apprendimento. Per citare un'altro sassofonista di cui lessi un'intervista anni fa: "all I could play were a few bad notes, in the beginning...." Mi identificai immediatamente in quella frase semplice, al tempo. Ma sono passati gli anni, ed un bel numero di ore di studio, lezioni, concerti, esperimenti. Per cui oggi quando imbocco lo strumento c'è già una base su cui poi costruire un gesto improvvisato o anche solamente delle scale, degli esercizi.

Questo per quanto riguarda il "me, myself and I." In un contesto allargato, ed a rischio di essere forse un pò "mistico," ho da anni la sensazione che alla fine non sia stato io a scegliere questa strada, ma viceversa, cioè che la musica abbia scelto me. Prendo seriamente il mio ruolo di outsider/visionario, nel mio piccolo. Cioè: noi musicisti non siamo in tantissimi, alla fin fine. Dove sono cresciuto io, Porto Marghera, o si facevano i concorsi, o si studiava all' Università, o si lavorava in fabbrica. Il tutto dipendeva, di solito, dalla fascia sociale ed economica a cui si apparteneva.

Io scelsi di suonare il sassofono, con una testardaggine, convinzione e ambizione che sono a tutt'oggi (forse anche più di allora) ancora vive. Voglio prima o poi trovare tempo per un progetto in solo (ammiro te ed altri che hanno il coraggio di esporsi in quel meraviglioso contesto), la musica per sestetto che ho menzionato verrà registrata ad aprile (perlomeno in parte, più gente c'è in un gruppo e più difficile è la logistica), a fine maggio farò un concerto con un nuovo trio per cui spero di scrivere dei nuovi pezzi. C'e troppo da studiare e scoprire. E poi chissà, che alla fine anche non riesca a far sentire la mia musica ad un pubblico più allargato.

Foto: José Figueroa

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