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Akbank Jazz Festival 2013, Istanbul

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Akbank Jazz Festival
Istanbul
25,09-10.10.2013

Akbank Jazz Festival, 23. edizione, Istanbul, 25 settembre-10 ottobre, e oltre: rassegna di ampio respiro, quindici giorni di proposte tra jazz e dintorni, evento culturale che richiama uno zoccolo duro di aficionados, ma che sa anche aggregare pubblici diversi in luoghi diversi. Ampie sale da concerto come il Cemal Resit Rey Concert Hall, il Lütfi Kirdar, l'Akbank Art Center e, sulla sponda asiatica, il Caddebostan Cultural Center, per appuntamenti di ampio richiamo; venues più intime—i club Babylon, Nardis, Garajistanbul, The Seed -, dove gruppi emergenti o ampiamente consolidati dialogano a stretto contatto con avventurosi ascoltatori; lo storico, bellissimo Pera Palace, nel quale, dopo un workshop di lindy-hop, si balla accompagnati da una swinging Hot Jazz Band; le terrazze di alcuni hotel pluristellati che ospitano colazioni jazz, e, a conclusione del cartellone a Istanbul, la sezione "Jazz on Campus," con concerti presso atenei in tutto il paese che si protrarranno fino a novembre inoltrato. A completare il fitto programma, alcuni panel sul rapporto tra jazz e tecnologia e sui possibili approcci in ambito didattico, workshop per bambini e in diversi licei di Istanbul, una serata di rimusicazione dal vivo dei funambolici cortometraggi di George Méliès, e, a metà novembre, l'appuntamento finale del concorso per giovani talenti "JamZZ Akbank Jazz Festival Young Talents."

Vale certamente la pena programmare un viaggio a Istanbul per seguire un festival che, accanto a sicuri nomi del firmamento jazz internazionale, offre uno sguardo su tendenze e voci nuove non necessariamente presenti nel panorama festivaliero italiano, permettendo peraltro di apprezzare da vicino la scena jazz turca, difficilmente intercettabile altrove per qualità e quantità. Per rendermene conto è bastato muovermi (nei limiti del possibile, con circa cento eventi in cartellone), tra le proposte che più attendevo, quelle che più mi incuriosivano, e quelle di fronte alle quali ero inevitabilmente tabula rasa.

Musica globale per tradizioni locali, e ritorno
Che il segreto della freschezza sia quello di guardare ai più giovani, e intessere con loro un dialogo alla pari, istigando con leggera ironia quelli che un tempo erano gli allievi, e lasciandosi a propria volta trascinare dalle nuove stelle del jazz contemporaneo? Sia come sia, Enrico Rava, con la sua tromba e il suo quintetto "Tribe"—Gianluca Petrella al trombone, Giovanni Guidi al pianoforte, Fabrizio Sferra alla batteria, Gabriele Evangelista al contrabbasso—non manca di cogliere ancora una volta nel segno, regalando al pubblico che gremiva il Cemal Resit Ray una performance di bellezza e intensità, che si è assistita nella parte conclusiva, e in cui sono stati proposti alcuni dei brani contenuti nell'omonimo album inciso nel 2011 per la ECM, a suo tempo doverosamente apprezzato dalla critica.

Diversa la cifra stilistica del trio che vede impegnati Paolo Fresu (tromba, flicorno), Richard Galliano (accordion, accordina) e Jan Lundgren (pianoforte) nel progetto "Mare Nostrum," anch'esso documentato a livello discografico (2007, ACT), e presentato la sera successiva a un uditorio ugualmente entusiasta. Concerto confezionato con la massima cura e in grande sintonia fra i tre musicisti, testimoni, pur nelle singole e marcate individualità, di due ben precise anime del jazz europeo, quella mediterranea e solare (Fresu, Galliano), e quella del più rarefatto e brumoso Nord Europa (Lundgren). E proprio da questi luoghi trae ispirazione il trio, che si muove sinuosamente—ora malinconico, ora ironico, ora luminoso—tra Ravel, Jobin/De Moraes, folklore svedese, Monteverdi e riuscite composizioni originali, alternando l'interazione collettiva a dialoghi a due. Standing ovation, per una performance di qualità che rifugge da prove muscolari e inquietudini radicali.

Con i dovuti distinguo, un discorso analogo può essere fatto per John Surman, considerato uno dei principali protagonisti della scena storica inglese, che da sempre nella sua attività di polistrumentista (sax baritono e soprano, clarinetto, elettronica) attinge anche alla tradizione folk delle isole britanniche e del Nord Europa, e che al pubblico turco ha offerto un concerto intimista ed evocativo, sapientemente giocato tra chiari e scuri, ripetizione ed elaborazione, tradizione e contemporaneità.

Con il concerto, al Babylon, del giovane compositore e pianista turco Evrim Demirel—vincitore del secondo premio al concorso olandese "Young Composers" del 2004 con l'album Osmanli Minyatürleri ("Miniature Ottomane") -, è invece la musica turca ad entrare in gioco innestandosi su un jazz cui non mancano carte da giocare. E se a tratti ci si può dimenticare di essere a Istanbul, tra un tributo a Bartòk e un pianismo che in parte evoca ora gli E.S.T. ora i The Bad Plus degli esordi, basta il canto imponente e quasi ieratico di Özer Özel (che collabora stabilmente con formazioni di musica araba classica), come pure i ritmi che il cantante intesse al tanbur, per riprendere il filo del discorso. Discorso dal nuclo orientale, di fatto mai interrotto dall'ensemble (con Volkan Topakuglu al contrabbasso e Erdem Göymen alla batteria), e che rende localmente vibrante la musica del diavolo.

Dall'ethiojazz all'hip-hop, passando per il soul e la musica di Nino Rota
È proseguito nei giorni successivi il viaggio transnazionale del festival, che tra gli eventi di punta ha proposto nel capiente Lütfi Kirdar una serata all'insegna dell'ethiojazz di Mulatu Astatke e degli ottoni funky del chicagoano Hypnotic Brass Ensemble, con il rapper Yasiin Bey (ovvero Mos Def) come ospite d'onore. Concerto trascinante, quello del grande maestro Astakte (vibrafono, percussioni, wurlitzer) e della sua ottima band, tra cui spiccano in brevi interventi solistici il trombettista Byron Wallen e il sassofonista James Arben, oltre al percussionista Richard Olatunde Baker. Felice sintesi di jazz e musica tradizionale etiope, con un occhio di riguardo ai ritmi afro-latini, e l'estemporanea, riuscita interazione con gli ospiti turchi Misirli Ahmet (darbula) e Hüsnü Senlendririci (clarinetto), entrambi virtuosi dei propri strumenti.

A far ballare il pubblico è stata tuttavia la brass band composta da otto dei 22 figli del grande trombettista Phil Cohran (Sun Ra Arkestra, AACM e via dicendo), che del padre hanno seguito le orme in una originale fusione di jazz, hip-hop, funk, rock e reggae. Fedele al proprio nome, il collettivo nato nel 1999 come street band nella windy city e ora trasferitosi a New York ha coinvolto ipnoticamente un pubblico soprattutto giovane che non stava più nella pelle, grazie anche alla complicità del carismatico Yasiin Bey e del suo hip-hop di uguaglianza sociale.

A riscaldare corpo e mente ci hanno pensato anche, in due diverse serate nel setting avvolgente del Babylon, due musicisti dell'età di mezzo ma di lungo corso come gli statunitensi Nicholas Payton e Steven Bernstein, l'uno alla sua prima performance turca, l'altro ritornato finalmente al Babylon, dov'era stato nel lontano 1999 con John Lurie e i suoi Lounge Lizards (cf. oltre).

Nicholas Payton, trombettista originario di New Orleans attivo sin dalla più tenera età, già vincitore di un Grammy nel 1997 per un album in coppia con il veterano Doc Cheatham, e reduce dalle fatiche di recenti lavori quali "Sketches of Spain" uscito nel settembre scorso (concerto live con la Sinfonieorchester Basel, BMF Records), ama definire la propria musica come "Black American Music" (si veda a questo proposito il recente "BAM: Live at Bohemian Caverns"). Con gli eccellenti Lenny White alla batteria (Miles Davis, Chick Corea) e Vicente Archer al contrabbasso (Kenny Garrett, Terence Blanchard, Roy Haynes), ne ha dato prova in uno strepitoso set dai ritmi sostenuti e ricco di inflessioni funky, caldo e ruvido nelle atmosfere soul e R&B, evocate da una stupenda tromba e un uso altrettanto sapiente di pianoforte e Fender Rhodes.

Con Steven Bernstein e i SexmobBriggan Krauss al sax contralto, Tony Scherr al basso e Kenny Wollesen alla batteria -, la festa continua ed esplode ilare e sorniona, musiche di Nino Rota e verve fellinianamente "circus, cinema and spaghetti," in un concerto dove la formazione nata nel 1995, grande affiatamento, bravura e divertimento collettivo che arriva dritto al pubblico, parte e ritorna liricamente alla Rimini di Amarcord lasciandosi ispirare da Prince, la New Orleans di Mardi Gras e il felliniano "Toby Dammit" ("Tre passi nel delirio," 1968). A sorpresa, l'invito a salire sul palco all'amico neworkchese Ilhan Ersahin, anche lui a Istanbul per l'Akbank (cf. oltre), e infine, a grande richiesta, bis con "Fernando" degli Abba. Lieve, esplosivo, nervoso, psichedelico: gran bel modo di festeggiare il proprio compleanno (fortuitamente in coincidenza con la data del concerto di Istanbul), per un irriverente trombettista, bandleader, compositore/arrangiatore da sempre istigatore della scena downtown neworchese, e in modi sempre diversi e intelligenti.

Il sole nero: Harriet Tubman e Cassandra Wilson
"Black sun," questo il titolo del progetto che ha visto, per l'ultima serata sul palcoscenico del Lütfi Kirdar, la formazione Harriet TubmanBrandon Ross alla chitarra elettrica e al mandolino, JT Lewis alla batteria, Melvin Gibbs al basso elettrico -, con la cantante Cassandra Wilson; prima data di un lungo tour europeo per un sodalizio vincente, come si è avuto modo di constatare a Instanbul. I tre afroamericani di Harriet Tubman sono del resto musicisti di alto valore, con un background di frequentazioni individuali non solo e non necessariamente jazz (in ordine sparso e a titolo di esempio: Black Rock Coalition, Arto Lindsay, Henry Threadgill, Butch Morris, Lou Reed, Tina Turner, Cassandra Wilson, Defunkt). Dal canto suo, Cassandra Wilson, dopo essere stata la voce ufficiale dell'MBase Collective guidato da Steve Coleman negli anni '80 a New York, ha raggiunto visibilità e successo presso il grande pubblico con un'ampia produzione da solista, che l'ha portata a vincere tra l'altro due Grammy Awards (1996, 2009) e a essere considerata una delle migliori voci nel panorama musicale oltreoceano.

Harriet Tubman, com'è noto, nasce negli anni '90 prendendo ispirazione dall'attivista afroamericana che nell'Ottocento guidò centinaia di schiavi verso la libertà, grazie una rete clandestina, la "Underground Railroad," che permise la fuga dalle piantagioni e il riparo nel più sicuro Nord America. Ed è un messaggio di libertà che risuona ancora forte nella musica del collettivo neworchese, tanto come esplorazione sonora nella frantumazione di stili e idiomi musicali, quanto nell'interplay paritario che caratterizza l'interazione all'interno del gruppo: un continuo e fluido scambio di ruoli tra batteria, chitarra/banjo e basso—chi conduce, chi accompagna, chi crea la base che sostiene o impreziosisce l'assolo, centro e periferia di un suonare comunitario—in cui Cassandra Wilson, in veste di cantante ma anche di chitarrista, si inserisce organicamente e in maniera ugualmente egalitaria. Così, è forte il dialogo tra la voce scura e calda di Cassandra e il banjo a volte abissale a volte lieve e ghosty di Ross (un'intesa certo frutto anche di passate collaborazioni); banjo che sa però farsi strumento ritmico-percussivo per lasciare spazio a un uso a tutto tondo della batteria di Lewis, e alle linee melodiche del basso di Gibbs.

Atmosfere rarefatte e dilatate, quelle che hanno caratterizzato gran parte del concerto tra rimandi blues, spiritual, jazz e rock—la ruvida malinconia metropolitana evocata da più di un brano, l'interpretazione sfilacciata di "Tomorrow Never Knows" dei Beatles, l'intensità emotiva di "I'll Overcome Someday," spiritual profondo delle radici. Non è mancata però l'energia di pezzi solari e aperti, o giocati su tempi veloci e sonorità più aggressive ("Black Sun," "Taller"), dando così la misura di un (rinnovato) incontro musicale che dopo una naturale fase di assestamento non mancherà di farsi ulteriormente apprezzare. Viaggio in cui la memoria del passato remoto, la consapevolezza radicale del presente e la forza propulsiva di un futuro che è già qui e ora scuotono e consolano.

Un tributo a Butch Morris, ideatore della Conduction®
Per Butch Morris, "musicista che non ha mai cessato di espandere i confini della musica": questa la dedica della 23. edizione dell'Akbank, cui il direttore e compositore afroamericano, purtroppo scomparso prematuramente agli inizi dello scorso anno, aveva partecipato nel 1992 (si vedano le Conduction 25 e 26) e nel 2007, e che con la comunità musicale turca, frequentata nel corso di un soggiorno di docenza triennale a Istanbul a fine anni '90, aveva intessuto un intenso rapporto.

La collaborazione con strumentisti della più diversa estrazione musicale e culturale, del resto, ha attraversato come un filo rosso le 199 Conductions numerate che Morris ha avuto al suo attivo; nell'ambito del festival, un esempio di tale poliedrica attività si è avuto grazie al documentario a cura di Vipal Monga "Black February," che si auspica circoli ben presto anche in Italia.

Incentrato sull'omonimo progetto di Morris svoltosi nel 2005 in occasione dei primi vent'anni di Conduction®—un mese ininterrotto di concerti, con un'ampia gamma di formazioni e in innumerevoli locations newyorchesi tra Manhattan e Brooklyn -, il documentario non manca di aprirsi a una riflessione sulla natura stessa della Conduction® come pratica innovativa di direzione d'orchestra all'intersezione tra idiomi e comunità musicali, come sottolineato da musicisti e critici intervistati allo scopo. Tra questi Brandon Ross, che, presente al festival con Harriet Tubman, ha ricordato con affetto l'opera e l'approccio di Morris nel corso di un panel dedicato alla figura del maestro.

Ilhan Ersahin e il suono di Istanbul
Il festival si è concluso con due ulteriori tributi a Butch Morris, l'uno previsto ufficialmente in cartellone con il concerto del Rova Saxophone Quartet, e l'altro, a cui si è potuto assistere, con la performance che Ilhan Ersahin ha dedicato spontaneamente a Morris, con cui aveva collaborato stabilmente all'interno della Nublu Orchestra, formazione newyorchese gravitante attorno all'omonimo club fondato da Ersahin nell'East Village, e di cui il sassofonista svedese di famiglia turca è il leader.

Ersahin, di casa a New York quanto a Istanbul, si è qui esibito in due progetti completamente diversi tra loro, mostrandosi a proprio agio tanto come special guest della cantante Jehan Barbur, stella in ascesa sulla scena musicale turca a cavallo tra jazz e popular, quanto nel successivo concerto in seconda serata con la sua Istanbul Session, uno tra i tanti progetti cui il sassofonista quarantottenne ha dato vita nei decenni passati (si pensi al collettivo Wax Poetic e al Love Trio, ma anche all'apertura nel 2000 del club Nublu e, nel 2005, dell'etichetta discografia Nublu Records, che sarà a breve affiancata da una stazione radiofonica, www.nublu.fm), e che vanta al proprio attivo due album, Istanbul Sessions featuring Erik Truffaz (2010) e Night Rider(2011).

"Mi incuriosiva Jehan Barbur, ma ancor più come avresti interagito con lei..."—"È la lezione di Butch," risponde Ilhan mentre in taxi passiamo da una sponda all'altra del Bosforo—viaggio nella notte di una città pulsante, tra le mille contraddizioni di crociere da rivista patinata, quartieri tradizionalmente religiosi e poliziotti in tenuta antisommossa che si aggirano oscuri per Taksim mescolandosi a famigliole e turisti del sabato pomeriggio—per spostarci dal centro culturale di Caddebostan nell'asiatica Kadiköy e arrivare al Babylon, dove lo attendono i membri della Istanbul Session. "Entrare nella musica senza dovere per forza ragionare in termini di armonia e progressione di accordi, ma sentire: dove vuole andare, come posso assecondarla?" Così, con Jehan Barbur e il suo gruppo di ottimi strumentisti, primo fra tutti il tastierista Evrim Tüzün, il tenore di Irshein si inserisce con sapiente discrezione nelle canzoni jazzate e nei brani originali in turco di Jehan (questi ultimi, più localmente idiomatici e interpretati dalla cantante con maggiore originalità e autenticità), senza per questo mancare di far sentire la propria voce di tenorista tra melodie calde e soffuse e squarci improvvisativi musicalmente più arditi, mai fini a se stessi. Un discorso, questo, sviluppato nella sua interezza con i sodali della Istanbul Session, che, battendo strade free come mai era accaduto prima, a dire di Ilhan, con questa formazione, ha coinvolto l'entusiastico pubblico del Babylon, facendolo ballare ai ritmi ipnotici intessuti dai notevoli Izzet Kizil alle percussioni e Turgut Alp Bekoglu alla batteria, e sostenuti con vigore dal valido Alp Ersönmez al basso elettrico. Definire "contaminazione" la sintesi tra tradizione percussiva e melodica turca, jazz, e funk modale che ne emerge risulterebbe limitante per un gruppo che, fedele al proprio nome, coglie appieno lo spirito delle stratificazioni sedimentate ma sempre vive di Istanbul, che prima di essere tale fu Bisanzio greco-romana, Nuova Roma-Constantinopoli, e capitale dell'Impero Ottomano...

Backstage
Un'intera parete del Bablyon è occupata dalla gigantografia della Sun Ra Arkestra che nel 1990 suona sfilando per Istiklal Caddesi nel quartiere di Beyoglu, e non a caso: un evento che ha fatto storia, e un sogno, quello di portare Sun Ra in Turchia, che i fratelli Ahmet e Mehmet Ulug e l'amico Cem Yegül realizzano, rientrati a Istanbul in seguito ad alcuni anni trascorsi in una New York tutta musicale, e dopo aver fondato l'agenzia musicale "PozitifLIVE" con lo scopo dichiarato di aprire la Turchia al jazz (e, come se n'è avuto prova al festival, anche il jazz alla Turchia).

Un'intensa attività di promozione della musica black sarebbe seguita a quel memorabile evento: non solo nell'ambito di eventi e festival organizzati da Pozitif (tra cui, dal 1993, l'Akbank), ma anche e soprattutto all'interno dello stesso Babylon, ex falegnameria riconvertita in music venue in un'oscura area di Beyoglu, Asmali Mescit, che alla fine degli anni '90 era pressocchè disabitata. Operazione culturale ardita e lungimirante, che avrebbe aperto la strada a una totale riconfigurazione del quartiere, ora uno dei più vivaci, e inevitabilmente gentrified, a ridosso della centrale Istiklal Caddesi. Una gentrificazione che tuttavia non sembra avere intaccato l'anima dell'universo Babylon, seguito da un vasto pubblico di assidui frequentatori e amici non solo per l'attenzione dedicata in più di dieci anni di vita al jazz, soprattutto nella sua declinazione free e creative—il locale fu inagurato, il 24 aprile 1999, con il concerto di John Lurie & The Lounge Lizards, seguito da Butch Morris e il suo Instabul Ensemble, e frequentato successivamente da musicisti del calibro di Joseph Bowie, Omar Sosa, Jimmy Scott, Henry Grimes, Patti Smith, The Bad Plus, Marc Ribot, Eric Truffaz e via dicendo—ma anche per l'apertura alle più diverse comunità musicali, provenienti da oltre confine o radicate sul territorio, tutte accomunate da un concetto di musica di qualità. Singoli eventi si alternano e si sono alternati negli anni a serie tematiche con cadenza quindicinale o mensile: musica balcanica Romani reinterpretata da artisti locali e internazionali nella serie "A'dan Z'ye Roman," il Turkish pop di "Eski 45'likler," o ancora "Nublu presents," week-end in cui il Nublu di Ilhan Ersahin da New York si sposta a Istanbul per presentare nuovi progetti musicali nati al suo interno.

Si lascia alla curiosità di chi legge scoprire le molte altre attività che gravitano attorno al Babylon, seguite dal team di Pozitif: persone la cui gentilezza e disponibilità si è avuto modo di apprezzare nel corso del festival, e alle quali non possiamo che augurare extra speed to your goals!

Foto
Zeynel Abidin Yaman.

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