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Ai Confini tra Sardegna e Jazz 2010

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Ai Confini tra Sardegna e Jazz 2010

"The Holy Ghost and the Infinite Spirit of Albert Ayler"

Sant'Anna Arresi 23-30.8.2010

L'edizione 2010 del Festival di Sant'Anna Arresi non poteva forse che essere dedicata ad Albert Ayler, nel quarantennale della sua tragica scomparsa. Molti contributi importanti per la ricostruzione della figura di Ayler hanno visto la luce negli ultimi anni - innanzitutto il ricco materiale inedito contenuto nel fantastico cofanetto Holy Ghost pubblicato nel 2004 dalla Revenant -, ma Ayler resta per molti aspetti una figura enigmatica, anche controversa. Il suo impatto nell'immaginario della musica afroamericana è stato enorme, ma non è così facile definire in cosa consista lo "spirito" della sua musica, e la sua eredità nei decenni a seguire.

Anche per questo, l'edizione 2010 - la venticinquesima - di Ai Confini tra Sardegna e Jazz è stata un'occasione preziosa: grande era l'attesa per i concerti in programma (per un quadro completo si può consultare www.santannarresijazz.it) in cui risaltavano molte produzioni originali e la presenza di musicisti che con Ayler ebbero modo di suonare (Bobby Few, Milford Graves, Alan Silva, Juini Booth) e di figure chiave dell'improvvisazione americana ed europea che ne sono state profondamente influenzate (Charles Gayle, David Murray e Peter Brötzmann, ma c'erano anche Archie Shepp e Evan Parker).

Molto altro è emerso nella settimana del Festival, come al solito centrato prevalentemente sulla ricerca musicale afroamericana, ma con incursioni in altri 'mondi' musicali: il richiamo quasi continuo dal palco alle figure di Fred Anderson e Bill Dixon, altri due giganti scomparsi entrambi nella scorsa primavera, che avrebbero dovuto essere ospiti proprio dell'edizione di quest'anno, alcuni giovani musicisti italiani di grande talento, insieme alla forza d'urto sonora degli Zu (che si sono esibiti anche in un set insieme a Peter Brötzmann), e uno sguardo davvero interessante su concezioni completamente diverse di conduction di ensemble allargati, da Alan Silva a Butch Morris. Ma procediamo con ordine.

Due esibizioni sono state senz'altro memorabili: la conduction di Alan Silva dedicata ad Albert Ayler (dal titolo evocativo "Bells of Sant'Anna"), e il duo di David Murray e Milford Graves. Alan Silva, uno degli eroi del cosiddetto free degli anni sessanta, contrabbassista (solo per fare qualche nome) di storiche formazioni di Cecil Taylor, Sun Ra, Bill Dixon e ovviamente di Albert Ayler (suona, con Milford Graves, nel celebre Love Cry), dalla fine degli anni sessanta iniziò tra le altre cose proprio a sperimentare nel campo della direzione di orchestre di improvvisatori, in cui suona in genere tastiere e campionamenti: a Sant'Anna si è presentato con una formazione inedita ed eccezionale, formata da Evan Parker, Greg Ward, Joseph Bowie, Bobby Few, On ka'a Davis, Juini Booth e Warren Smith, più Ernest Dawkins e Shaun Johnson, aggiuntisi sul momento.

Non c'è nessun tipo di struttura preordinata nelle conduction di Silva, e la loro bellezza dipende in gran parte, come si è potuto vedere, dalla naturalezza quasi sconcertante con cui i musicisti creano istantaneamente attraverso libere associazioni, cambi di direzione improvvisi e poi crescendi (è proprio il caso di dire) semplicemente celestiali di tutto l'ensemble. Silva, che si alterna fra tastiere e semplice direzione d'orchestra, non fa altro che cogliere e rilanciare tutto quello che "accade" nel corso dell'improvvisazione (piccoli nuclei tematici, effetti onomatopeici e quant'altro), selezionando momenti e associazioni di ogni tipo; ma lo spirito della performance sembra essere soprattutto nella concezione radicalmente orizzontale della musica e del contributo di tutti i musicisti.

Particolarmente a loro agio in questo elemento, con interventi folgoranti, Few e Bowie (pianoforte e trombone), due vecchi compagni di strada di Silva, e Warren Smith, con la sua straordinaria capacità di impiego tematico di batteria e percussioni; e ancora un contributo decisivo al sound dell'insieme in direzione funky è quello di On ka'a Davis e Juini Booth (non a caso pure loro veterani delle orchestre di Sun Ra) alla chitarra e al basso elettrici.

Altro momento magico, si diceva, il duo di David Murray e Milford Graves, che sul palco di Sant'Anna Arresi, per così dire chiamati a testimoniare di un loro nume tutelare, hanno suonato con un equilibrio di bellezza cristallina e di rara intensità emotiva. Fin dall'introduzione in solo Murray al tenore porta il discorso sul campo di un lirismo e di una espressività dichiaratamente ayleriani, se possibile forzandoli verso concrezioni ancora più dense di suono; parallelamente Graves sviluppa l'impressionante stratificazione ritmica e tematica della sua batteria, e l'interazione fra i due sembra scandita da una dimensione quasi rituale, che prosegue dopo l'ingresso a metà concerto di Alan Silva (al contrabbasso) e di Joseph Bowie: anche qui si collezionano altri incontri mirabili di suoni.

Quando Murray a metà concerto prende la parola per ricordare Ayler, dice una cosa molto significativa: della lezione di Ayler sottolinea la "polifonia". Ecco, ci è sembrato che questi due concerti, mettendo insieme potenza/densità sonora e una capacità illimitata di associazione istantanea del sound dei suoi musicisti, siano stati l'omaggio migliore, al di là di facili citazioni o "tributi" che oggi vanno così di moda, allo "spirito" di Ayler.

Ma molte altre cose di grande interesse si sono sentite a sant'Anna. Notevole il concerto che ha visto insieme sul palco Peter Brötzmann e Evan Parker supportati da Harrison Bankhead e Hamid Drake, per un "Homage to Albert, Fred and Bill" in cui ha avuto un ruolo più spiccato la forza dirompente del sassofono di Brötzmann, che in una improvvisazione furiosa al tarogato ha raggiunto forse il momento più suggestivo. C'era però meno equilibrio nell'insieme, e veniva da pensare che in fondo l'arte dei due storici sassofonisti dell'avanguardia europea sia molto diversa e non del tutto compatibile (più costruttiva e internamente circolare quella di Parker, potentemente unidirezionale quella di Brötzmann); ma soprattutto la "sezione ritmica" dei fuoriclasse Bankhead e Drake è risultata schiacciata dalle colonne di suono dei fiati.

Molto attese anche le esibizioni di Charles Gayle, che si è presentato a Sant'Anna in due concerti diversi, in piano solo e in quintetto, quest'ultimo dedicato al repertorio ayleriano, dal titolo "Songs of Albert Ayler". Atipico il quintetto, in cui il sax tenore di Gayle incrociava le due batterie di Hamid Drake e Chad Taylor e il contrabbasso di Bankhead, più la chitarra elettrica di Jean Paul Bourelly, con un risultato non del tutto all'altezza delle aspettative: l'apporto della coppia di batteristi e di Bankhead, che qui si è espresso al suo meglio, era una garanzia, ma Bourelly ha galleggiato per tutto il set come un corpo estraneo, e soprattutto Gayle è apparso troppo trattenuto, aprendo e chiudendo i pezzi con temi ayleriani, ma senza dare spazio a uno sviluppo più ampio dell'improvvisazione al sassofono. Sorprendente invece il concerto in solo del giorno prima: Gayle ha sviluppato al pianoforte un linguaggio autonomo rispetto al sassofono, e nell'esibizione di Sant'Anna si è dedicato a riprendere temi classici, addirittura romantici, di canzoni americane dei primi decenni del secolo scorso (sembrava venissero quasi dalla sua memoria d'infanzia), e poi a complicarli e riformularli in un pianismo angolare e percussivo ma allo stesso tempo molto intimo, che sembrava tracciare quasi la storia della sua formazione personale.

Altra presenza d'eccezione quella del quartetto di Archie Shepp, trasmesso in diretta da Radiotre. Le esibizioni dal vivo di Archie Shepp sono virate sempre più, già da molto tempo, verso la forma di ballads, con classici immancabili come "U-jaama" e "Mama Rose," in cui grande spazio ha preso la sua voce suggestiva; in questo quadro pure ormai standardizzato l'esibizione di Sant'Anna è stata particolarmente riuscita, e indovinato si è rivelato l'innesto dell'ottimo Greg Ward al contralto, che era presente al festival in altre formazioni. Certo è un po' straniante ascoltare l'inno "Revolution" ("Mama Rose") in un contesto musicale che non ha più nulla di dirompente, e che spesso segue quasi il copione di uno show ben rodato; ma bisogna anche dire che Shepp tocca ancora momenti sublimi, come quando nel finale ha intonato al sassofono, entrando e uscendo magicamente in dalla linea melodica, una "'Round Midnight" da pelle d'oca.

In tema Ayler è ancora da ricordare il concerto del trio di Bobby Few, amico d'infanzia di Ayler e suo collaboratore a più riprese, anche nello storico Music Is the Healing Force of the Universe, il cui pezzo omonimo ha aperto il concerto, in cui il pianista ha impiegato tutto il suo vocabolario di arpeggi e gruppi di note. Il gruppo si è allargato poi a quartetto con l'onnipresente Dawkins al contralto, con cui è partito un furioso pezzo di stampo coltraniano, sostenuto dagli accordi di Few e dalla batteria intensa - suonata quasi come tamburi - di Ichiro Onoe. Il trio però non sorprende come aveva fatto Few nel concerto diretto da Silva; e qualcosa di simile si può dire per On ka'a Davis col suo "Seeds of Djuke" in quintetto. E' un grande merito del Festival aver portato in Sardegna questo davvero eccentrico outsider, che propone un misto di jazz, afrobeat, funk chiaramente debitore dell'imprinting visionario di Sun Ra (assolutamente da leggere la presentazione della sua "Djuke" music sul suo myspace!) e che finalmente è ascoltabile su disco in due recenti uscite. Il concerto della formazione è stato senz'altro godibile e coinvolgente, ma non ha toccato i livelli delle bellissime registrazioni su disco, complici anche alcuni problemi tecnici (rottura della chitarra elettrica e sua carambolesca sostituzione).

Interamente dedicato a Ayler era poi il progetto in solo di Paolo Botti ("Angel and Ghost: The Ayler Tapes"), che si è cimentato nell'impresa non facile di arrangiare i classici di Ayler su strumenti lontanissimi come banjo, dobro e violino. Botti è molto bravo nell'arrangiamento di pezzi proibitivi, da "Zion Hill" a "Ghosts," e si capisce tra le righe che l'intento è quello di lavorare sulle radici folk e blues della musica di Ayler; ma il risultato finale ha dato piuttosto l'impressione di catapultare Ayler in un mondo musicale troppo rarefatto e distante.

Un posto a sé nel programma del Festival l'ha avuto l'orchestra diretta da Butch Morris per la sua conduction nr.192 "Possible Universe," che poteva contare quest'anno (il terzo di seguito di lezioni e concerti a Sant'Anna) su una vera e propria big band di improvvisatori, basti pensare alla presenza fra gli altri Evan Parker, David Murray, Hamid Drake, e ancora Silva, Bowie, On ka'a Davis, per un totale di 15 elementi. Ma le conduction di Butch Morris richiedono un addestramento lungo dei musicisti al suo sistema musicale e di segnali, e i tre giorni di workshop a Sant'Anna sono stati pochi per far funzionare adeguatamente l'orchestra, pure costituita da musicisti da sogno. Con un risultato dunque altalenante, tra sezioni dominate da una certa rigidità - se non dal terrore dei musicisti per le occhiate stizzite di Morris! -, e parti più fluide, sostenute da piccole cellule tematiche scritte, in cui le forze dell'orchestra si liberavano con maggiore disinvoltura e con aperture complesse e suggestive (da segnalare gli interventi molto belli di Tony Cattano al trombone e Riccardo Pittau alla tromba). Assistere a un concerto di Butch Morris è però sempre un'esperienza emozionante: si sente una tensione fortissima, anche quando il risultato non è univoco, verso il personale obiettivo di una universal music che sta dietro la sua teoria della conduction.

Chiudiamo con gli ultimi tre concerti del ricco cartellone: "Reggaelogy" di Hamid Drake & Bindu, con fresca uscita discografica, è un'incursione del gruppo di Drake nei territori del reggae e della musica giamaicana. L'esibizione ha trascinato il pubblico, ed è stato molto interessante osservare la combinazione per nulla scontata delle strutture della musica giamaicana col terreno dell'improvvisazione. Drake ha lavorato anche su un drumming molto diverso dal solito, e il risultato è stato convincente; da annotare almeno l'ottimo contributo dei due tromboni (Jeb Bishop e Jeff Albert), capaci di suonare insieme distribuendosi con abilità le linee melodiche e ritmiche.

Infine i progetti di Dee Alexander e di Ernest Dawkins, chiaramente improntati alla koinè della scena nera di Chicago degli ultimi anni. Il quartetto guidato da Dee Alexander, cantante chicagoana che spazia fra soul, blues e jazz, ha eseguito un altro omaggio a Ayler, dal titolo "Suite Ayler". Belle le composizioni della Alexander, che si ispira come era lecito aspettarsi alla produzione più rhythm&blues di Ayler, aprendo il concerto con la recitazione del "Message from Albert" contenuto in New Grass, e che è brava a dirigere l'intervento dei tanti fiati che via via si aggiungono sul palco per un ricordo finale di Fred Anderson.

Ernest Dawkins si è dedicato invece, alla guida di un sestetto, a un'altra commemorazione, quella dei cinquant'anni dall'uscita della celebre Freedom Now Suite di Max Roach. E qui il discorso si fa spinoso, non tanto per il risultato strettamente musicale, che in sé è solido (bravissima tra l'altro Silvia Bolognesi al contrabbasso, quasi una veterana accanto alle belle propulsioni ritmiche di Ernie Adams alla batteria). E' questo modo di interpretare la memoria collettiva immancabilmente come una festa, che risulta alla fine stucchevole e dà la sgradevole impressione di diluire in una generica miscela afroamericana-chicagoana tutto quello che viene ricordato (Ayler, Anderson, l'indipendenza dei Paesi africani, fa poca differenza). Dee Alexander non è Abbey Lincoln, va bene (irritante però che nessuno abbia pensato di ricordare sul palco la scomparsa della Lincoln poche settimane fa), ma ciò che sorprende è che della tensione anche ideale dell'originale, del suo carattere così scarnamente drammatico, non ci sia alcuna traccia, sostituiti da una retorica musicale anche godibile, ma davvero poco attinente, con tanto di trenino (!) finale tra il pubblico che ha rasentato il grottesco.

Notazioni che non cambiano il bilancio positivo dell'edizione 2010. Quella di Sant'Anna Arresi si conferma una rassegna speciale, non solo per la capacità di mettere insieme cartelloni così allettanti, ma anche perché in questo angolo meraviglioso di Sardegna si crea un rapporto particolare tra musicisti (che normalmente risiedono qui per tutto il periodo del festival), pubblico e gente del paese: ed è qualcosa che si respira davvero, anche nei concerti.

Foto di Luciano Rossetti / Phocus

Ulteriori immagini di questo festival sono disponibili nel foto-racconto di Luciano Rossetti (parte prima e parte seconda) e nella galleria di Danilo Codazzi dedicata al concerto di Archie Shepp e Homage to Albert, Fred and Bill [Evan Parker - Peter Broetzmann - Harrison Bankhead - Hamid Drake].


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