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Ahleuchatistas

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Area Sismica - Forlì - 13.10.2007

E' stato questo il primo sbarco in Italia per la band del North Carolina che, sebbene piuttosto sconosciuta dalle nostre parti, ha già all'attivo quattro album, di cui gli ultimi due usciti per la Cuneiform.

Abitatori della terra in cui s'incontrano jazz-core e math rock, gli Ahleuchatistas sono dediti a un suono scabro e asciutto, spigoloso ed essenziale - direi quasi austero -, che mostra apertamente il proprio debito nei confronti dell'ormai classica scuola Touch & Go: batteria potente, basso aspro e corposo, chitarra asciutta e tagliente, senza effetti e - in realtà - quasi sempre anche senza distorsione, nonostante l'alto volume. Si potrebbe dire che così suonerebbero i Don Caballero se, orfani di una seconda chitarra, avessero voluto seguire le orme degli Zu in trio.

Come da scuola jazz-core, i brani sono costruiti sulla brusca e incessante giustapposizione di cellule ritmico-tematiche che trapassano freneticamente l'una nell'altra, a volte fluidamente, più spesso con scarti improvvisi e repentini cambi di direzione. Le composizioni sono fortemente strutturate e in genere concedono pochi spazi di libertà ai singoli, richiedendo invece precisione millimetrica nel dipanarsi della loro trama accidentata e contorta: una sorta di mosaico le cui tessere sono irregolari cellule ritmico-armoniche in frenetica successione. A volte, però, nel rigore di questi tour de force di matematico furore si aprono improvvise oasi di anarchia: come un binario ferreo - per quanto zigzagante - che s'inabissa improvvisamente in una palude o in un deserto senza più strade tracciate, dove è lecito deragliare e debordare in ogni direzione, per poi riprendere il proprio inesorabile cammino fino al termine della corsa, che spesso però non giunge a una grande stazione, ma si conclude inaspettatamente in fondo a un binario morto.

La batteria di Sean Dail è forse il cuore del suono della band; da lì viene l'incessante propulsione ritmica che costituisce l'ossatura di sostegno di tutti i brani. Il suo drumming è potente e allo stesso tempo complesso e articolato; le geometrie che disegna sono asimmetriche e in perenne scomposizione e ricomposizione.

Nonostante la stesura dei brani fosse generalmente abbastanza ampia, non è mancata una manciata di episodi più frammentari, a mo' di sciabolate, in cui riecheggiava l'intento programmatico dei Naked City di Torture Garden di concentrare il maggior numero possibile di eventi sonori diversi nello spazio di qualche decina di secondi, travolgendo l'ascoltatore sotto l'onda d'urto di un assalto ritmico in stile hardcore, senza lasciargli il tempo di rendersi conto di quel che gli sta succedendo.

Evidenti sono apparsi anche i riferimenti stilistici al minimalismo, soprattutto nell'uso dell'iterazione: le cellule ritmiche della batteria e gli arpeggi della chitarra che, collegati e giustapposti fra di loro, andavano a comporre i brani, avevano l'aspetto di loop irregolari; ricorrente era anche l'effetto di phasing (un altro marchio di fabbrica del minimalismo, soprattutto di quello reichiano) creato dalla sovrapposizione di arpeggi e figure ritmiche di lunghezza diseguale.

Proprio nella resa di queste tecniche e di questi effetti sono parsi risiedere sia il punto di forza che quello di debolezza del concerto, e forse del gruppo. L'effetto ipnotico e al tempo stesso di tensione dato dalle asimmetriche ripetizioni era l'elemento che più affascinava e conquistava; le idee melodiche e armoniche degli arpeggi così reiterati erano il vero cuore musicale dei brani. Shane Perlowin si è dimostrato senz'altro un chitarrista efficace, dal suono preciso e tagliente, dotato dell'agilità richiesta dalla complessità delle composizioni; il suo apporto armonico è forse l'elemento musicalmente più significativo e convincente del gruppo.

La ricchezza e la profondità degli intrecci poliritmici sono però risultate limitate dalla scelta di circoscrivere l'interazione in tal senso alla sola chitarra e batteria. Non si può fare a meno di pensare che una seconda chitarra avrebbe molto giovato alla ricchezza degli intrecci armonici e alla profondità degli effetti poliritmici dei brani.

Il basso di Derek Poteat, nonostante si facesse carico in alcuni casi della linea melodica principale, è risultato sostanzialmente escluso da questo gioco, e comunque non molto incisivo sul piano del fraseggio e del sostegno armonico.

Il brano migliore è stato forse quello conclusivo, in cui l'ossessivo ostinato centrale si prolungava sciogliendosi progressivamente in un muro sonoro magmatico e informe di grande forza espressiva.

In generale, però, la stessa complessità compositiva che costituisce l'elemento più appariscente dei brani è parsa alla lunga anche il loro limite. La ricerca della discontinuità e dell'eterogeneità ritmica e strutturale in ogni singolo brano alla fine hanno lasciato con un senso di fatica e di eccessiva macchinosità, che a un certo punto pare un po' fine a se stessa.

Come dire: a forza di voler essere continuamente imprevedibili, si diventa prevedibili.

Foto di Claudio Casanova


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