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Adriano Pedini: Organizzatore di Fano Jazz by the Sea

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Ha raggiunto un quarto di secolo Fano Jazz by the Sea, uno dei festival jazz più importanti sulla costa adriatica italiana. I suoi obiettivi e criteri, le sue peculiarità ambientali e stilistiche, il suo pubblico e i suoi finanziamenti sono i temi principali affrontati in questa intervista da Adriano Pedini, che dell'evento marchigiano preferisce essere considerato "organizzatore" anziché direttore artistico. Le sue risposte entusiastiche, ma anche ricche di spunti e di dettagli specialistici, testimoniano la passione e la professionalità con cui si cala in questo ruolo, che lo occupa durante l'intero arco dell'anno. È anche l'occasione per anticipare alcune novità e alcuni nomi di questa edizione, che si aprirà il 22 luglio nella restaurata Rocca Malatestiana per concludersi il 30 con il concerto gratuito alla Golena del Furlo.

All About Jazz: Adriano, puoi innanzi tutto sintetizzare le esperienze principali della tua formazione musicale?

Adriano Pedini: Il mio interesse per la musica risale alla fine degli anni Sessanta, folgorato da quella che allora era la musica che aveva invaso il pianeta, che si evolveva in modo impressionante e rappresentava chissà quale futuro. Con la batteria, che è stato ed è il mio grande amore, ho iniziato prima a suonare in complessini Beat della mia città, poi in gruppi rock delle Marche. Ma la formazione musicale che mi ha segnato si è sviluppata negli anni Settanta: iscritto al conservatorio "G. Rossini" di Pesaro, dove poi mi sarei diplomato in percussioni, mi ero trasferito a Bologna per frequentare il DAMS, e nello stesso anno, 1973, entrai a far parte di un collettivo musicale in cui la ricerca e la sperimentazione erano di casa.
Bologna in quegli anni era l'ambiente creativo ideale per chi come me aveva sete di conoscenza. Potevi ascoltare nei quartieri l'Art Ensemble Of Chicago, al Palasport Charles Mingus, Don Cherry, Miles Davis, Dizzy Gillespie, al DAMS avevi come professori Umberto Eco, Roberto Leydi, Aldo Clementi, Gianni Celati... C'era l'ascolto di Radio Alice, il movimento, la rivista "Attraverso," gli "indiani metropolitani..." poi venne il marzo '77...
La mia bella esperienza bolognese, a cui devo molto, è ben sintetizzata nel lavoro discografico dell'Orchestra Njervodarov Con le orecchie di Eros, prodotto nel 1979 dalla Emi. Poi con gli anni Ottanta è arrivato il professionismo: ho fatto il turnista in studio, scritto sigle e spot televisivi, sono diventato insegnante di musica, programmatore per la Farfisa, ecc. La musica nella sua accezione più ampia mi ha sempre accompagnato e mi accompagna in ogni attimo della vita.

AAJ: Fano Jazz by the Sea compie venticinque anni. Tu hai tenuto la direzione artistica fin dalla prima edizione? Quale il tuo obiettivo principale?

AP: Innanzitutto preferirei che si usasse il termine più appropriato di "organizzatore." Ritengo che per fregiarsi del termine "direttore artistico" non basti essere nominato, occorre essere messi in condizioni tali da poter espletare le funzioni che sono proprie di questo delicato ruolo: un'adeguata disponibilità economica e tempi di programmazione certi; forse un giorno chissà, ora non è così.
Fatta questa precisazione, la mia nomina a direttore artistico risale al 1995. Nei primi due anni il ruolo è stato di Adriano Mazzoletti: una nomina che suggerii io stesso all'allora Assessore al Turismo, interessato a trovare un nome rappresentativo nell'ambito del jazz nazionale. In quegli anni io ho affiancato Mazzoletti nel coordinamento tecnico e artistico. Dal 1995 ho cercato come obiettivo quello di far diventare il Festival, con tutti i limiti del caso (ambientali ed economici), un progetto culturale in grado di radicarsi e di incidere profondamente nel tessuto sociale del territorio.

AAJ: Mi sembra che negli anni il Festival abbia avuto una prerogativa, un tema ricorrente, quello di riproporre i protagonisti storici della fusion, del rock jazz, del funk. È così?

AP: Potrebbe sembrare, ma non è così. Se si guarda bene alla storia del Festival sotto la mia direzione, si trovano ben visibili le tracce di un festival che prova a rappresentare il caleidoscopico universo jazzistico contemporaneo. Per fare qualche esempio, solo nei primi anni sono passati da Fano Jazz by the Sea Milton Jackson, James Carter, David Sanchez, Martial Solal, Steve Coleman, Phil Woods, Gary Bartz, Benny Golson, McCoy Tyner, Michael Brecker, Bill Frisell, Enrico Rava, l'Art Ensemble of Chicago, Michel Petrucciani, Miroslav Vitous, Chick Corea, Roy Haynes, Dave Holland, Charles Lloyd, Lester Bowie, Carla Bley...
I nostri Festival, che sono obbligatoriamente a pagamento, dovendo fare i conti con la sostenibilità e il contesto culturale sono sottoposti a stress da prestazione, pena la cancellazione. Ecco, allora, che occorre trovare dei compromessi che possano garantire una certa affluenza di pubblico. Perciò, nella nostra programmazione, trovi costantemente anche quei protagonisti riconducibili al jazz rock o al funk in grado di garantirla.

AAJ: Ma c'è anche l'attenzione per i giovani gruppi italiani.

AP: Da qualche anno, questo è un tema ricorrente che mi sta molto a cuore, a cui prestiamo particolare attenzione, prendendo anche molti rischi: il famoso "rischio culturale," come lo chiama il Ministero. È per questo che all'interno del Festival abbiamo istituito lo Young Stage, rivolto ai giovani musicisti, anche in collaborazione con l'associazione Mjdi.

AAJ: Dalla scorsa edizione c'è anche Exodus Stage, la serie di soli pomeridiani nella ex chiesa di San Domenico. Come ti è venuta l'idea?

AP: Per mia formazione ho sempre pensato che la musica, e in particolare il jazz, non rappresenti solo un fatto stilistico o di mero intrattenimento, ma debba trovare una relazione con i fatti e le trasformazioni sociali contemporanee. Vedendo quelle drammatiche immagini dei migranti, e rendendomi conto che il razzismo, la paura e la xenofobia stanno pericolosamente inquinando la nostra vita civile, mi sono detto che era il caso di prendere una posizione, di non stare dalla parte di coloro che non vogliono vedere e sentire.
Il jazz, che in fondo è musica di migrazione per antonomasia, può essere un veicolo atto a sensibilizzare, a diffondere un messaggio di solidarietà, per favorire una giusta integrazione. Quest'anno ad aprire la rassegna Exodus "Gli echi della migrazione" sarà Jabel Kanuteh, un musicista suonatore di kora, discendente della grande tradizione africana dei Griot, un ragazzo che ha attraversato il deserto, affrontato l'attraversata del Mediterraneo in quei precari barconi per trovare qui da noi quella libertà e quelle aspettative di vita negate nel suo paese. Sarà un bell'esempio di un processo d'integrazione attraverso la musica.

AAJ: C'è poi la tradizionale chiusura del Festival alla Golena del Furlo ad ingresso gratuito.

AP: È l'appuntamento più atteso dal grande pubblico: mediamente si radunano dalle 2.000 alle 4.000 persone, complici lo straordinario scenario naturalistico della Riserva naturale, la gratuità, e una musica sempre coinvolgente. Quest'anno abbiamo scelto la Gangbè Brass Band, un favoloso gruppo di percussioni e fiati proveniente dal Benin. È sempre una festa, e testimonia quanto il Festival non sia solo un fatto cittadino ma patrimonio di tutto il territorio provinciale.

AAJ: Tante le sedi dei concerti nel passato. Da cosa era determinata di volta in volta la scelta di quelle location?

AP: Dal fatto che fino ad oggi il Festival non disponeva di una sua sede istituzionale di riferimento. Lo è stata per un periodo la Corte Malatestiana, ottima location, da un paio di anni dismessa. Poi lo è diventata la Marina dei Cesari: aveva un suo fascino con l'esclusivo palcoscenico sull'acqua, oggi impraticabile. Anche l'Anfiteatro Rastatt sul mare rendeva bene l'idea del By the Sea, ma troppo dispersivo. Il Teatro della Fortuna ha sempre rappresentato la via di fuga in caso di maltempo, ma in piena estate il pubblico predilige gli spazi aperti.

AAJ: Quest'anno invece, a parte i concerti pomeridiani di cui abbiamo già parlato, per la prima volta tutti i concerti serali si svolgono nella centrale Rocca Malatestiana. Quali le ragioni e che risultati ti aspetti?

AP: Non poteva esserci miglior regalo per celebrare i venticinque anni del Festival! La Rocca Malatestiana rappresenta quello che in gergo marinaro è "l'approdo definitivo," il luogo ideale. Un prezioso lavoro di restauro e di messa in sicurezza, che si sta ultimando in questi giorni, consentirà di disporre di una location in grado di contenere fino a 1.000 persone, oltre alla possibilità di altri spazi interni per attività collaterali. Inoltre, proprio di fronte alla via d'accesso alla Rocca, quest'anno verrà allestito un Jazz Village, tutto Green e tutto da scoprire. Destino vuole che la Rocca Malatestiana restaurata venga inaugurata proprio dal Festival con il concerto d'apertura del 22 luglio. Stiamo investendo molto in questa location tanto agognata e mi aspetto ottimi risultati.

AAJ: Hai un'idea della composizione del pubblico del Festival? Quale il rapporto fra fanesi e turisti, fra appassionati di jazz e spettatori occasionali?

AP: Pur potendo contare su una buona affluenza grazie ad uno zoccolo duro di appassionati e fedelissimi, siamo convinti che ci sia ancora un buon margine di crescita, nonostante la tendenza generale che indica delle sofferenze a tale proposito. La convinzione ci viene da un lavoro di analisi sul pubblico, che stiamo facendo grazie alla collaborazione con l'Università della Comunicazione di Urbino; un pubblico che viene da fuori città per il 70% di cui un 12% in crescita dall'estero (ad oggi abbiamo prenotazioni dalla Germania, dall'Olanda, dalla Francia, dall'Inghilterra). Il dato che comunque emerge è che il Festival è atteso e ci si viene in larga parte per scelta. Su questo stiamo lavorando, potenziando una comunicazione più mirata, tempestiva e virale.

AAJ: Negli anni come è cambiato il contributo finanziario di enti/istituzioni pubbliche e di sponsor privati?

AP: Questo è un tema che affligge non solo noi ma, per quello che so, tutti i festival italici, facendo passare notti insonni a tutti gli organizzatori. Con la scomparsa delle Province, con i Comuni sempre più con i bilanci in sofferenza, con gli sponsor privati che hanno ben altri problemi, con un pubblico che ha mille altre occasioni, riuscire a mettere insieme un budget che possa garantire un festival dignitoso è veramente un'impresa ardua.
Fatto sta che nel momento peggiore si è aperta una possibilità di sopravvivenza e di sviluppo grazie ai nuovi decreti del Mibact voluti nel 2015 dal Ministro Franceschini, che nel giro di tre anni ha triplicato le assegnazioni Fus al jazz, passando dai circa 800.000 euro del 2013 ai circa due milioni del 2016.
Di questa, che ritengo essere una vera e propria svolta epocale per il jazz italiano, ne abbiamo beneficiato anche noi, che ci siamo visti passare da un contributo di 10.000 euro nel 2014 a 55.000 euro nel 2015. Un aumento del 500%, tanto che qualcuno ha parlato di un "caso Fano," e con un trend in crescita del 7% nel 2016 e 2017 che è il massimo concesso. Tengo a sottolineare che le annuali assegnazioni su base triennale vengono fatte con criteri in larga misura oggettivi, dove si riducono di molto quelle fatte per "conoscenza"; una metodologia che seppur ancora da perfezionare (è in itinere la nuova legge sullo spettacolo dal vivo, che metterà in soffitta la famigerata Legge 800, e che sarà operativa credo dal 2018) premia il lavoro virtuoso, basandosi sui risultati oggettivi, sulla sostenibilità e bontà dei progetti.

AAJ: Il Festival è organizzato da Fano Jazz Network; quali altre rassegne e concerti organizza l'associazione nel corso dell'anno?

AP: Il Festival rappresenta la punta di diamante di un'attività diffusa e articolata che svolgiamo tutto l'anno. Fin dal 1993 curiamo una programmazione di Jazz Club, da sempre principalmente dedicata al jazz italiano, dando spazio ai giovani musicisti emergenti, e favorendo la fidelizzazione del pubblico con appuntamenti ogni quindici giorni da ottobre ad aprile. Abbiamo poi la rassegna Jazz'in Provincia, che si svolge dal 2001 principalmente nel periodo primaverile nei teatri storici di cui è ricca la nostra provincia, in collaborazione con i comuni e le associazioni del territorio; anche qui la presenza del jazz italiano è predominate. Nel periodo natalizio curiamo da vent'anni una rassegna Gospel nei più importanti teatri della provincia. C'è poi l'attività didattica in collaborazione con le scuole medie inferiori e superiori del territorio.
Da un paio di anni, infine, siamo impegnati nella realizzazione della Casa del Jazz, finanziata con fondi europei su progetto dell'architetto Italo Rota, un centro dove confluiranno tutte le esperienze descritte, oltre ad essere un luogo per la documentazione, produzione e sperimentazione della musica creativa contemporanea. Insomma, il lavoro non ci manca.

AAJ: Quali sono i festival, nazionali o internazionali, che segui e ammiri? E perché?

AP: Di norma seguo attraverso internet gran parte dei festival, soprattutto europei; dei grandi appuntamenti, più che la programmazione mi interessa l'aspetto organizzativo, manageriale. Sono convinto che oggi qualsiasi festival, anche piccolo, se vuol sopravvivere debba essere un'impresa di cultura, avvalendosi di strategie e di strumenti di gestione appartenenti alla letteratura d'impresa. Per essere competitivi non è più possibile improvvisare, o pensare di svolgere il proprio lavoro come se fosse un hobby. Al tempo stesso guardo con molto interesse a quei festival di piccole dimensioni che però danno il senso di una comunità, che è poi il nostro obbiettivo. Di questa categoria potrei citarti INNtöne, un piccolo Festival che si svolge in una cascina nella sperduta campagna austriaca; in Italia il Festival di Sant'Anna Arresi diretto da Basilio Sulis, Ai confini tra Sardegna e Jazz. In ogni caso, non ci sono modelli a cui mi ispiro, poiché credo che ogni festival debba per prima cosa relazionarsi con il contesto territoriale e culturale a cui appartiene, e trovare una sua identità.

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