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"A Multitude of Angels" di Keith Jarrett Secondo Stefano Battaglia

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La ECM ha appena pubblicato A Moltitude of Angels, un cofanetto di quattro dischi che documentano altrettante staordinarie performance solistiche di Keith Jarrett registrate in Italia nel 1996. Ne abbiamo approfittato per chiedere ad uno dei principali pianisti italiani, Stefano Battaglia, una riflessione su questo ambizioso progetto discografico.

Quello che Battaglia ci ha inviato, è molto di più. Unendo la passione di fan di Jarrett con l'acume tecnico di straordinario improvvisatore, Battaglia (che a sua volta pubblicherà un doppio CD dal vivo per la ECM tra qualche mese), offre una delle più appassionanti analisi dello spirito Jarrettiano mai pubblicate, scritta con la consapevolezza e l'introspezione che l'ascolto di ogni performance solistica del pianista di Allentown merita e richiede.

Pubblichiamo quindi l'articolo in maniera integrale, con tutte le sue osservazioni, digressioni e riflessioni, senza editing, quasi fosse un concerto solistico di Jarrett registratto dall'inizio alla fine. Manca solo un bis (almeno per ora).

Improvvisazione spontanea

La musica è uno dei principali canali per l'evoluzione dell'uomo. Raggiungere e ritrovare la natura spontanea della musica è oggi in sé un successo straordinario, perché riporta al senso originario della musica sul pianeta e al senso stesso dell'improvvisazione, una prassi in via di estinzione che ha a che fare con la libertà e ben due verità simultanee: la verità individuale e la verità del momento presente. E per questo andrebbe protetta e insegnata meglio e di più, proprio per i valori che veicola.

Oggigiorno la spontaneità è in sé un valore speciale e prezioso, difficile da raggiungere, ottenere e quindi proteggere: si è naturalmente spontanei sino a quando non si hanno strumenti di tecnica e di consapevolezza utili ad esprimersi compiutamente, ma appena aumentano questi strumenti, e incominciamo ad affinarli, scolpirli e intonarli con la nostre proprie caratteristiche identitarie, rimanere naturalmente spontanei presuppone una grande capacità di abbandono e, cosa più dolorosa, di distacco dalle zone del sé a cui attribuiamo maggior evoluzione. Non è così facile come si è portati a pensare, perché tutto fuori da noi ci chiede continuamente di aumentare conoscenza, elaborazione e sofisticazione. E questo inevitabilmente può farci perdere purezza ed innocenza.

Da sempre, i grandi improvvisatori della storia della musica, dal rinascimento ad oggi, sono stati musicisti sofisticati e pieni di conoscenza. Spesso dei virtuosi del proprio strumento. Dunque questa spontaneità, questa meraviglia, questo incanto della ricerca e della scoperta rimaneva per lo più un gioco segreto per musicisti naif o dilettanti, dunque con legittime ambizioni espressive ma nessuna ambizione formale.

Inoltre gli strumenti a tastiera, relativamente moderni, condizionati dal temperamento e dunque già completamente separati dalla natura primitiva dello strumento, sono l'emblema della sofisticazione. Il pianoforte, tra tutti gli strumenti a tastiera, è certamente il più sofisticato, e i più grandi improvvisatori solitari degli ultimi quattro secoli sono indubbiamente pianisti perché il piano è certamente uno strumento fatto apposta per favorire la prassi solitaria.

Come è noto tutti i più grandi concertisti di clavicordo e clavicembalo nel sei e settecento e molti tra i più grandi pianisti dell'ottocento avevano almeno l'esperienza dell'improvvisazione. Alcuni erano addirittura grandi improvvisatori. Quasi sempre era sufficiente un basso continuo, una progressione armonica, una piccola cellula melodica, e la mente e il corpo (la tecnica) favìcevano il resto. Ma sempre con un canovaccio di partenza: che fosse un'aria popolare, una cadenza interludio o un semplice ritornello, tutto era potenzialmente utile per sfoggiare virtuosismo e arte della variazione ritmica, melodica e armonica. Ma la composizione no, quella ha sempre avuto i suoi tempi meditati, la forma deve poter essere dominata e controllata, nulla può essere lasciato al caso o alla pura emozione.

Il percorso artistico di Keith Jarrett contiene due caratteristiche straordinarie: il pianista di Allentown è certamente un grande improvvisatore, e lo sarebbe qualsiasi strumento suonasse, anche fosse uno strumento primitivo o una zucca vuota, ma anziché vivere l'improvvisazione come gesto liberatorio, compone. Compone in tempo reale pur sapendo -immagino-che nessuna improvvisazione potrà giungere a risultati formali sublimi come è in grado la composizione, ma è disposto ad accogliere la sfida sapendo che, per contro, nessun interprete al mondo, anche il più sublime, riuscirà mai raggiungere una verità tanto sincera e dunque una temperatura espressiva, quanto un sapiente improvvisatore.

Repertorio, improvvisazione e composizione istantanea

Per questo il piano solo, così come siamo ormai abituati a considerarlo oggi, prima di Keith Jarrett non esisteva: persino nel jazz del '900 i grandi virtuosi dell'improvvisazione al pianoforte tenevano rari concerti in solitudine (più facilmente si ritagliavano degli squarci solistici nell'ambito di concerti con il gruppo), e anche quando lo facevano, né più né meno come i loro predecessori del barocco e del romanticismo, aderivano ad un repertorio, in qualche modo dunque riproponendo da un punto di vista formale la formula del concertismo classico, con una precisa drammaturgia predeterminata dalla combinazione di brani.

Art Tatum, Thelonious Monk, Erroll Garner, Bud Powell, Oscar Peterson, Bill Evans, combinavano l'improvvisazione ad un repertorio definito e pre-esistente, sia che fossero standards dalla grande tradizione di Broadway e Hollywood, sia che si trattasse di composizioni originali.

Appena dopo Facing You, il suo album capolavoro d'esordio che si basava su brani e improvvisazioni in forma relativamente breve, la performance di Jarrett si è cristallizzata su forme meditative, un flusso continuo e senza soluzione di continuità, che combinava la temperatura espressiva -in quegli anni elevatissima-tipica dell'improvvisazione spontanea con una forte tensione formale, da macrostruttura unitaria e compatta, sebbene assai eterogenea idiomaticamente. Queste due caratteristiche combinate (lunghezza dei brani e contenuti sempre diversi e imprevedibili) si rivelarono da subito assai adatte per creare delle forme concerto molto varie e libere nei contenuti e cangianti stilisticamente: il gospel e il blues assorbito agli esordi con i Messengers di Art Blakey, la passione per molte tradizioni diverse del repertorio occidentale europeo, dal barocco al classico, dal romanticismo al novecento; quindi alla adesione, a volte quasi miracolosa per forza espressiva, a certe tradizioni extra-europee dell'Anatolia, probabilmente veicolate dalla sua adesione al lavoro di Gurdjieff e forse, ipotizzo, dal sodalizio con Paul Motian, di origine armena.

Performance

Il percorso artistico di Keith Jarrett è certamente tra i più intensi e articolati di tutta la storia del jazz, sia per l'ampiezza del raggio creativo che per la durata del suo zenith, lungo ben trent'anni, cominciato alla fine degli anni sessanta e durato sino alla fine degli anni novanta, quando la salute del pianista è stata minata dalla rara malattia che lo ha costretto dapprima ad un forzato riposo, quindi di lì in avanti a gestire diversamente il rapporto con l'energia psicofisica e dunque la performance.

Chi segue i suoi recital di piano solo sin dai primi anni settanta, sa che sino a quel momento la struttura formale dei concerti era costruita attorno all'improvvisazione totale di due lunghi brani, quasi sempre abitati da più sezioni interne, talvolta con importanti cambiamenti narrativi ed idiomatici, e totalmente centrata sul concetto letterale di performare: cioè dare forma, nello specifico, a qualcosa che prima di essere suonato nel rito-concerto, semplicemente, non esiste, e dunque elaborando in tempo reale una composizione vera e propria senza alcun materiale musicale preesistente. Una forma macrostruttura da circa un'ora di improvvisazione spontanea o, meglio ancora, di composizione istantanea.

Si sono dati a questa prassi esecutiva nomi diversi, ma nel concreto la chiave privilegiata per comprendere profondamente questi concerti è proprio l'impegno straordinario e simultaneo di corpo, mente e spirito, dove tutti e tre i centri sono presenti contemporaneamente in modo totalizzante e tra loro armonizzato.

In questo senso il termine performance rimanda anche ad un'idea di sforzo straordinario (in senso letterale, cioè raro, extra-ordinario), usato per lo più tra gli sportivi e gli attori. Da cui si comprende facilmente il motivo per il quale dopo questi concerti italiani e l'inizio della malattia la formula è stata abbandonata.

Va detto però che più difficilmente si giunge a risultati convincenti quando si aderisce ad un pre-testo rappresentando un copione pre-esistente ripetuto infinite volte nelle prove (attori, danzatori, musicisti esecutori) e allenamenti (sportivi).

L'improvvisatore al contrario si offre la possibilità privilegiata di essere lì in quel momento a raccontare con la musica esattamente ciò che vuole e può raccontare in quel momento secondo lo strumento che gli capita, alla sala che trova, all'audience che partecipa, cioè la sua verità nel momento presente. Tempo presente che è l'unico tempo che conta, essendo il passato scomparso ed il futuro ancora lì da venire.

Dunque manifestarsi anziché rappresentare: una sfida stimolante, improba quanto affascinante.

Manifestazione

Questa è anche una delle chiavi per comprendere il largo consenso di Jarrett: la partecipazione ad un processo di manifestazione, la natura speciale di questa esperienza quando condivisa. Esperienza che il pubblico sente come straordinaria rispetto agli infiniti concerti-rappresentazione a cui è abituato. E non importa se questo sentire è lucido e/o consapevole. La potenza della manifestazione è letteralmente incomparabile, anche se confrontata alla più sublimi delle rappresentazioni. È proprio un'altra esperienza. È la differenza tra una messa cantata, con la sua liturgia rappresentata e le prove del coro, ed un rito esoterico. Non voglio qui parlare di magia, ovviamente, e scrivo esoterico in senso letterale (esoteros, interiore), dove appunto attraverso lo svelamento delle zone più segrete e intime di un'individuo, in questo caso il performer-sciamano, tutti gli individui si rivelano, si riconoscono.

Il microcosmo individuale del pianista rivela un macrocosmo che comprende più individui, giungendo attraverso la musica ad una possibile comprensione collettiva. È questo il mistero della musica, lo è sempre stato e sempre lo sarà. La comprensione di questo mistero non è intellettuale, ma spirituale. Non si afferra in quanto dinanzi a me, fuori da me, ma attraverso un processo empatico (en-dentro, pathos-sentimento) che collega direttamente il pubblico al cantore. Pubblico che partecipa dunque ai travagli dell'improvvisatore, quindi potenzialmente provando gli stessi travagli e dunque, in senso originario del termine, compassione (cum-pathos). E anche con-passione! Questa spiega benissimo il motivo per cui la pletora di imitatori del pianista-Jarrett non si avvicinano mai ai risultati musicali del loro modello: senza verità individuale, devozione e manifestazione, la musica è svuotata al solo oggetto, che, sebbene sublime, perfetto e ben congegnato non è paragonabile all'altro tipo di esperienza, che è al contempo musicale ed extra-musicale.

Angeli

Lo spirito sembra dunque essere la porta principale, ed è proprio Jarrett nel libretto che accompagna il cofanetto ad offrire delle chiavi per comprendere il senso profondo della sua prassi solistica di performer-improvvisatore: sia attraverso un titolo rivelatore che evoca la moltitudine di angeli e spiega che hanno circondato il suo lavoro negli anni, e in particolare in quei concerti, durante i quali oltre ad essere il performer, Jarrett si era forzatamente ritagliato un ruolo di produttore e tecnico del suono, registrando autonomamente con un Dat Sonosax (angelico perchè ha sempre miracolosamente funzionato, appunto) appoggiato ad una sedia sul palco. E rivela quanto decisivo sia nel rito la presenza vibrante e concentrata dell'altro, inteso come audience. Dunque, come dicevo anche gli strumenti, le stanze entro cui avveniva il rito, ecc. Decisivo anche in senso negativo, naturalmente, individuando negli angeli della morte i demoni che ostacolano il processo creativo: la salute, sua e dell'audience (quanti colpi di tosse, doveva essere stata una stagione probante in Italia il 1996!) e i vari rumori più o meno inevitabili di quando si compie un'esperienza condivisa con centinaia di persone, tutte diverse.

Musica devozionale

Se dovessi dunque esprimere una mia verità sulla musica di Keith Jarrett, oltrepassando l'illimitata riconoscenza e i miei personali gusti musicali, oggi direi che si tratta di musica devozionale, e per questo potente al di là dell'oggetto musicale. Non mi interessa sapere l'obiettivo di tale devozione, qualsiasi Dio egli sia. Ciò che mi interessa è il canale di collegamento, la devozione che viene veicolata e sprigiona in sé una tale quantità di fede e verità individuale, forza e fragilità, bellezza e brutalità, luce e oscurità, innocenza e consapevolezza, controllo e abbandono, da rendere ogni suo concerto appassionante e irrinunciabile a prescindere dall'oggetto musicale che determina. Ha a che fare con l'espansione del cuore, l'invocazione, l'inno, la lode e la preghiera. La relazione tra il fisico e il metafisico.

Ricordo la commozione mia e di altre diverse centinaia di persone ai concerti del cantante pakistano Nusrat Fateh Ali Kahn.

La potenza del suo cantare in Qawwali, la musica devozionale Sufi, era per tutti noi totalmente metalinguistica, dal momento che nessuno capiva una parola dei testi. Ma era sufficiente a collegare tutti i nostri cuori in un modo che ad evocarlo mi mette ancora i brividi.

Radicalismo e successo

Certamente si deve ricordare quanto per l'America del '900 abbia pesato il multiculturalismo, nel bene e nel male, ovviamente non solo per il jazz, e che Jarrett è un pianista americano: direi paradigmaticamente americano, per la quantità di linguaggi che intreccia osmoticamente nella sua musica. Durante la mia gioventù letteralmente invasa negli ascolti del suo lavoro della fine degli anni sessanta e di tutti gli anni settanta (tutto il lavoro, non solo quello in solo), mi domandavo le ragioni per le quali Keith Jarrett fosse così seguito da un pubblico tanto vasto e trasversale pur facendo libera improvvisazione radicale, solitamente non di grande auspicio per chi insegue il successo di massa. Nemmeno si può dire che abbia mostrato di cercare deliberatamente consenso concedendosi profusamente a media, uffici stampa, battage promozionali; né di essere particolarmente disponibile ed empatico, forse nemmeno particolarmente simpatico (e sottolineo forse, non avendolo mai conosciuto personalmente).

Nel corso della sua storia il jazz si è sempre nutrito del doppio canale cultura e intrattenimento, c'è una lista infinita di jazzisti che hanno ostentatamente scelto di cavalcare il confine tra arte e spettacolo, e molti tra loro questo confine lo hanno deliberatamente spostato a favore di una fruizione più probabile, cercando il riconoscimento più immediato del mercato che gli onori dei libri di storia della musica.

Persino Duke e Miles, tra i giganti della storia, sembravano più apertamente inseguire il consenso, in un certo modo e con dinamiche molto diverse tra loro.

Anche la scelta di suonare col Trio canzoni americane standards per trent'anni, che sarebbe potuto sembrare all'inizio una scelta furba, si è rivelata all'opposto un percorso esemplare e, almeno per dieci anni, appassionatamente avventuroso.

Di più, e mi ripeto, credo che da un punto di vista creativo sia, tra gli artisti che hanno segnato la storia del novecento, uno dei più longevi. Per longevità creativa non intendo solo la quantità di anni, ma la capacità di stare nella cretività attraverso una tensione dinamica e propulsiva nel corso di tanti anni, rinnovando la ricerca attraverso cambiamenti, più o meno radicali. I nomi di Picasso e Davis possono da soli spiegare bene quanto tento di dire e, per capirci, Coltrane sembrava avviato ad una dimensione simile, anche dal punto di vista delle caratteristiche devozionali e meditative della sua musica, se il destino gli avesse concesso altro tempo.

Dunque dicevo improvvisatore radicale: oso aggiungere radicale nonostante questo aggettivo abbia assunto nella storia della musica significati diversi e quasi ideologici in merito alla scelte idiomatiche: chi vuole suonare solo musica rinascimentale è radicale, chi non vuole sentire più una triade perfetta è radicale, chi pensa che il jazz sia morto con le contaminazioni degli anni settanta è radicale, chi esegue solo rumori fuori dal temperamento è radicale, chi riesce ad ascoltare Haydn solo al fortepiano e Bach esclusivamente al clavicembalo è radicale, ecc ecc. Ecco allora che si evidenzia che la radicalità solitamente agisce per esclusione, determinando esclusiva attenzione solo a ciò che è, in contrasto/opposizione con ciò che non è. Ed è così anche per l'unico altro vero pianista performer dell'improvvisazione di matrice-emanazione jazzistica, Cecil Taylor, che è certamente radicale nel linguaggio, totalmente identificato con le avanguardie afroamericane del free anni sessanta, che egli stesso ha contribuito a germogliare e sviluppare insieme ad una parte nutrita della comunità culturale afroamericana, non solo musicale, ma anche letteraria, poetica, filosofica.

Il radicalismo di Jarrett è opposto, e lo potremmo chiamare paradigmaticamente americano, perchè è proprio una sorta di manifesto della multiculturalità dell'America: si nutre della varietà e della contaminazione in modo esistenziale, addirittura strutturale, per creare delle forme cangianti, in continuo divenire. E delle tradizioni non butta via quasi nulla, usandole tutte allo stesso livello di potenzialità, come fossero degli ingredienti potenzialmente disponibili per creare ricette sempre nuove e diverse. Dunque il suo radicalismo non è nei linguaggi ma nel contenuto, nel principio. Nell'ethos, si dovrebbe dire. Che dice che ogni tradizione è ancora viva, ma solo potenzialmente. Solo a condizione che il performer che ne veicola i contenuti sia presente in modo totalizzante.

Meditazione

Se parliamo dunque di concerti come strumento di meditazione, per esempio userò la meditazione più semplice e diffusa del cristianesimo, quelle delle nostre nonne: il rosario, che descrive poeticamente una corona di preghiere paragonandole ad un rosaio, appunto.

Si può dire che una delle caratteristiche di Jarrett è proprio quella di aver piantato nel suo rosaio, nel corso della sua vita, una tale varietà di fiori-preghiere da rendere la sua meditazione così ricca da renderla fruibile ed evidentemente godibile ad un'ampio uditorio nella forma condivisa del concerto. E tutti dischi live in solo sono la straordinaria testimonianza di questo percorso e di quanto sono riconoscibili i semi di questo rosario e quanto potente è stato il suo sgranare condiviso per venticinque anni, tra il 1973 (Solo concerts e Bremen/Losanne) e il 1997 (La Scala), passando per Koln Concert (1975), Sun Bear Concerts(1976), Concerts (1981), Paris Concert (1990), Vienna Concert (1991), e ora i concerti italiani del 1996.

Provando a sintetizzare in una parola il processo che tante volte Keith Jarrett ha compiuto pubblicamente e che tante volte ha provato a illustrare nelle note dei suoi dischi o attraverso interviste, descrivendolo poeticamente come—lasciar scorrere il fiume-in sostanza si tratta di meditazione. Non è un segreto che la musica è da sempre -e per sempre sarà-uno strumento potentissimo di rivelazione. Nulla come il suono e il silenzio sono chiavi privilegiate per aprire le porte dell'interiorità individuale. A queste zone interiori nel corso dei secoli sono stati dati nomi diversi e soggettivi a seconda della civiltà, della cultura e della tradizione, e certamente questa non è né l'occasione nè il luogo adatto per indagare su ciò, ma rimane il semplice dato oggettivo che la musica, esattamente quanto il silenzio da cui deve germogliare, è il passepartout più potente per aprire quelle porte ed esplorare le stanze di cui sono a custodia.

Chi conosce quel processo sa che sono necessarie due cose: la dilatazione del tempo e dunque l'effetto ripetitivo, mantrico del suono e della sua iterazione, e un rapporto univoco ed esistenziale tra suono (controllato ed elaborato) e silenzio, dunque dove l'uno ha bisogno dell'altro per esistere: tutto quanto non appartiene né all'uno né all'altro riporta il performer da uno stato che possiamo descrivere come di apnea alla superficie, a galla, ostacola questo processo. Talvolta lo distrugge.

Questo, se ce ne fosse bisogno, spiega il motivo per cui dinanzi a platee vacanziere, rumorose e maleducate, il performer con le sue fragilità esposte, talvolta in modo inopportunamente aggressivo, vede interrompere il processo, con grande scandalo da parte di una parte del pubblico e godimento dei media, che possono così riempire le pagine dello spettacolo e gli spazi culturali di inutili -e assai più facili-riflessioni riguardo al caratteraccio del performer in questione.

Il fatto è che tutti sommati, gli infiniti potenziali distruttori di silenzi e di suoni, creano una specie di montagna ulteriore, una montagna-sopra la montagna, e chi è impegnato a scalare si trova dinanzi ad una doppia sfida: oltre a quella di condividere un percorso di contemplazione del sé attraverso la musica, quella di convincere il mondo che la musica non è sempre solo un gioioso e più-o-meno sofisticato sottofondo, o una semplice collezione di brani che il performer introietta a memoria e replica implacabilmente ogni sera a prescindere dal contesto, ma che può essere invece un'esperienza più, intima, profonda e totalizzante, tanto straordinaria quanto fragile.

In questo senso tutte le musiche di repertorio, tutte, senza distinzione, dalla classica al pop, dal jazz al rock, hanno fatto un pessimo servizio all'educazione dell'ascolto inducendo alla noia, o alla leggerezza e alla distrazione attraverso un approccio esclusivamente professionale e di routine, oppure eccessivamente condizionato dalle paure di fallire formalmente, spesso risolte solo tecnicamente.

Rivelazione

Il concerto invece potrebbe (sempre dovrebbe?) essere un'esperienza di rivelazione. Rivelazione del performer che si mostra a sé e a chi lo ascolta, rivelazione di chi ascolta e che si trova catapultato in un'esperienza di esplorazione del sé, proprio ed altrui, attraverso il processo meditativo offerto dalla musica.

Se l'altro è chiunque abbia voglia di condividere questo percorso con il performer, quando il performer ha le capacità di rivelarsi davanti all'altro, insieme all'altro, e chi ascolta ha la disponibilità ricettiva a partecipare a questo percorso, ecco che avviene il miracolo, il circuito attraverso il quale la musica è il luogo entro cui non vi è più alcuna distanza tra performer e audience: tutte le menti, tutti i corpi e tutti gli spiriti si collegano, lì, in quel preciso momento, per un tempo che si dilata al di fuori dello spazio fisico. E attraverso la musica si è tutti uniti ad un livello più profondo, metalinguistico, e dunque ci si comprende.

Intendiamoci, comprendere significa semplicemente capire profondamente, che non ha a che fare con l'andar d'accordo. E nemmeno con il gradimento. Ma la comprensione profonda crea, questo sì, l'esperienza unica della musica e del significato che deve poter riaffermare continuamente su questo pianeta. Il ruolo di grande canale universale di collegamento tra gli esseri viventi.

A Moltitude of Angels

Il cofanetto dunque offre quattro registrazioni dell'ottobre del 1996, le ultime nella forma prediletta meditativa, senza pausa tra un brano e l'altro. Sono la chiusura di un lungo capitolo iniziato circa venticinque anni prima.

Musicalmente c'è da sottolineare una forte presenza di idioma jazzistico, non sempre così scontata in passato (penso al bellissimo Dark Intervals del 1988)

Modena

Due lunghe improvvisazioni di mezz'ora l'una circa: la prima formata da quattro "zone"-sezioni e la seconda da tre. Dico subito che l'ultima sezione della prima parte e la prima sezione della seconda sono le mie preferite.

Jarrett cerca subito una forma forte e leggibile, più un gesto compositivo che improvvisativo: una lunga ballata armonica di un lirismo travagliato, mai scontato, su di un ritmo lento e danzante con delle orchestrazioni che sembrano venire dalle sofisticate tradizioni novecentesche di certi songwriters brasiliani.

Dopo dieci minuti, attraverso una breve transizione si ferma su di un pedale armonico e ritmico e rimane su questo groove a suo modo per altri dieci minuti. Quante volte lo abbiamo sentito improvvisare su di un ostinato ritmico armonico? Del suo rosario, questa preghiera-mantra è tra le più riconoscibili e consuete.

Dopo una lunga parte interessante a una voce che suona come una transizione, Jarrett trova sui tasti un effetto corde particolare, che però rapidamente (troppo!) si trasforma nuovamente in un fugato neoclassico(!). È una di quelle sezioni dove l'improvvisazione fatica a trovare una forma coerente da un punto di vista idiomatico, ma la febbrile concentrazione e la temperatura espressiva dell'improvvisazione giustifica i difetti strutturali.

La coda è bellissima, è uno di quei brani che spesso Jarrett improvvisa e che a me sembrano una sorta di inno dell'America, la cui melodia idealmente potrebbe essere stata composta nello Iowa da Black Hawk, con quella semplicità innocente che sembra poter ispirare tutte le persone, senza manierismo e senza false sofisticazioni, diretta forte e sincera: universale, in una parola.

Questa parte finale, sublime anche da un punto di vista pianistico, mi riporta specialmente ad un compositore armeno-americano, Alan Hovhaness, anche lui portato a mischiare elementi di musica innica, consonante ed occidentale, con elementi extra-occidentali, bizantini, indiani, spesso modali o costruiti su semplici pentatoniche.

Non mi sorprenderebbe che ad introdurre a Jarrett la musica di Hovhaness ci avesse pensato George Avakian il suo primo agente ai tempi del quartetto di Charles Lloyd e armeno a sua volta, la cui moglie violinista molto aiutò la diffusione della musica di Hovahness negli Stati Uniti.

La seconda parte si apre magnificamente con una "vera" improvvisazione, di quelle cioè che anche dall'esterno al più innocente dei fruitori suona come qualcosa che si inventa al momento, al contrario della composizione istantanea, che quasi sempre all'esterno può suonare né più né meno come un brano pre-esistente.

Jarrett gioca con le tensioni ritmiche e gli intervalli in modo estremamente intenso ed astratto, senza polarizzazione armonica.

Poi incomincia una lunga e faticosa transizione nella quale rimane solo la pulsazione ritmica come unico comune denominatore, ma si passa continuamente da atmosfere contrappuntistiche neoclassiche ad echi di ragtime al folk americano, senza mai scegliere una vera direzione.

Con un'inizio così esaltante, è un peccato che questa sezione si perda un po' da un punto di vista "compositivo."

Infatti arriva un'altra transizione che porta ad una lunghissima canzone tonale grondante di nostalgia. Non è facile tenere al guinzaglio il sentimentalismo, in questi casi.

Percepisco sempre sincerità, ma certo rimane il fatto che dopo i primi dieci minuti così propulsivi ed intensi, questa seconda parte cala di forza, sia da un punto di vista musicale che in un'ottica "meditativa," perchè sembra svanire la dimensione della ricerca.

Come bis a questo punto mi aspettavo un nuovo shock narrativo, invece si rimane nel territorio della nostalgia e della canzone.

La piccola delusione è compensata dalla qualità della canzone: Jarrett suona, divinamente e senza mai strafare, una versione di "Danny Boy" che è una di quelle song of songs che sembrano sempre esistite, la tradizionale Londonderry Air, un'antico anthem irlandese che invita al coro. Qui non c'è mai ridondanza, è suonata con sincero amore e con il cuore aperto. Lui non ci suona sopra e non butta via nemmeno una nota, il pubblico si commuove, come dargli torto?

Ferrara

Si ripropone la stessa struttura modenese, con quattro sezioni nel primo brano e tre nel secondo

Come a Modena Jarrett attacca con una improvvisazione lirica e densamente armonica, cercando la composizione istantanea più che l'improvvisazione, e lo fa per di più di 15 minuti, con momenti sublimi di relazione tra canto e orchestrazioni che piano piano si aggrovigliano in una stimolante pantonalità che lentamente, con la giusta pazienza, si trasforma in una sezione più ritmica dove l'armonia si coagula su di una modalità semplice che innesca un mantra esotico, iterativo e minimalista.

Naturale a quel punto giungere all'amato ostinato, un groove pieno di elettricità dove Jarrett libera a lungo il suo inconfondibile fraseggio su di un centro armonico minore, sino a swingare in modo coinvolgente trovando anche delle cellule melodiche decisamente convincenti

La coda è un classico esempio di quanto le progressioni armoniche barocche siano ancora potenziali per un certo tipo di forma canzone tonale, semplice ed elegante. È una tradizione ancora viva e che Jarrett rivitalizza, ce ne fosse bisogno, sebbene nella sostanza (e non nello stile) ci riporti al settecento, ai fasti della nostra civiltà musicale, rischiando di metterla alla prova delle sofisticazioni attuali. Mi è venuta in mente subito Les moulins de mon coeur (divenuta poi The Windmills of Your Mind, con un testo inglese) di Michel Legrand dal film "Il caso Tohmas Crown," e basata sulla mozartiana Sinfonia concertante.

Jarrett se ne inventa una ex-novo tenendosi in un ambito di ammirevole coerenza e sobrietà, con un suono sontuoso e invenzioni melodiche molto dirette, senza fronzoli e virtuosismi (che sono la tomba di questo tipo di stanze armoniche...), dunque per questo... assai virtuose.

La seconda parte riparte dal contrappunto, e da una pulsazione, ma in un contesto completamente astratto, senza polarizzazione armonica. Jarrett inizia questa seconda parte cercando partendo dal nulla, personalmente mi appassiona sempre sentire una partenza tanto onesta e concentrata, in febbrile e paziente attesa di far germogliare l'idea. Sono sezioni a-idiomatiche, dove "non si sa che musica stia suonando," e credo sia affascinante avere la possibilità di stare fuori dai linguaggi, usando il suono e i ritmi come grimaldello per aprirsi le porte di tutto il percorso.

Forse un po' troppo rapidamente abbandona questo terreno, che sembrava assai fertile, per fermarsi su di un centro armonico, che dopo una lunga transizione ad una voce si trasforma in un vero e proprio jubilee da liturgia afroamericana, quella allegra, spontanea e rumorosa della comunità africana cristiana, dove la musica devozionale è sollievo dalle fatiche e gioioso strumento di liberazione. Manca solo il clapping della comunità stessa, ma certamente nel cuore di tutti le mani stavano battendo a tempo con il pianista.

Tutto si trasforma dapprima in gospel sino a liberarsi per venti minuti sull'amato ostinato che dilata ulteriormente questa sezione profondamente afroamericana liberando un fraseggio da grande chitarrista rock-blues, senza cali di tensione

Il punto è proprio questo: non è quello che suona, ma come lo suona: quando la presenza del performer è così totalizzante anche il materiale più semplice diviene lo strumento di ricerca ed esplorazione, quindi di conoscenza e liberazione. Non solo sua, intendiamoci, ma di tutti i presenti. Questa parte sottolinea quanto detto prima per raccontare le qualità universali e trasversali del performer Jarrett dove, a prescindere della cultura di appartenenza (musicale e non), l'esperienza extramusicale del "rito" concerto nutre al di là della comprensione -per così dire-idiomatica.

L'encore è strordinario: tre minuti di canto devozionale ad una voce, solo beneficiando delle risonanze delle arpe del piano attraverso lo sfruttamento di suoi smorzatori, ottenendo il suono della preghiera in un tempio. Questa è la degna conclusione di un concerto di rara potenza espressiva e formale. Molti non saranno d'accordo, ma la grandezza di Jarrett è proprio questa capacità di creare un momento universale a cui tutti possono "partecipare," senza sofisticazioni e pretese, eppure assai profondo e significante, dunque da un altro punto di vista estremamente sofisticato, si potrebbe dire. Chiunque è in grado di suonare un brano del genere, ma pochi lo fanno. E quasi tutti quelli che ci provano non escono bene dalla prova della verità: ritrovare, riscoprire e proteggere l'incanto e l'innocenza nella musica, pur avendo nelle mani una montagna di conoscenza e consapevolezza. Questa innocenza pura, la stessa che aveva Miles -sia che percorresse le sue giungle elettriche sia la canzoncina da hit parade-, e che ha ancora oggi ((Wayne Shorter}}. La loro, del resto, è stata l'ultima generazione di possibile innocenza. Curioso, nel citare insieme Jarrett e Shorter come i più appassionati e appassionanti improvvisatori viventi, constatare come entrambi provengano dal particolare asse Blakey-Davis, a proposito di angeli... Nella musica le cose vanno sempre come devono andare, ma una parte di me, quella irrazionale del puro fan della musica, si domanda come diavolo sia potuto accadere che i due non abbiano mai pensato di suonare insieme, anche solo una volta, magari a casa...

Il rapporto equilibrato tra conoscenza e purezza è il più sorprendente, ammirevole e convincente risultato raggiunto da Jarrett nei suoi settant'anni di musica. Un obiettivo che io ritengo difficilmente raggiungibile per le ragioni che ho spiegato legate all'impossibilità attuale per gli artisti di proteggersi dall'esterno e dalle tradizioni.

Torino

Il concerto di Torino si apre con un adagio, come un ricercare, molto denso e travagliato armonicamente, sembra uscire dritto dal clima tormentato della prima metà del secolo scorso, specie quello espresso dai compositori russi e mittleuropei. Personalmente vado pazzo per questa cosa, confesso. Lo sviluppo è appassionante e ricco di pathos, si sprigiona una tensione fortissima perchè l'armonia non si polarizza mai, il contrappunto e le orchestrazioni dialogano in continuo divenire determinando un sentimento di vertigine e di malinconica decadenza.

Dopo circa quindici minuti c'è una lunga transizione, dove Jarrett pazientemente attende l'idea senza forzare nulla. Il difetto di queste transizioni è che l'attesa interiore del performer, in sé una scelta coerente e ammirevole, si traduce in più di cinque minuti di musica formalmente confusa, dove sembrano girare un po' di idee contemporaneamente, talvolta a vuoto.

L'idea che vince è un pedale rock in la e lo shock narrativo, considerato il luogo dei primi quindici minuti è piuttosto forte.

L'impressione è che nemmeno lui sia totalmente convinto e presto abbandona anche l'ostinato per creare attorno al la una sezione molto lirica ed espressiva una ad una voce, sfruttando smorzatori e risonanze, come avvenuto nell'encore di Ferrara.

Mi piace il dialogo col silenzio, dal quale Jarrett sembra riemergere dal buio e recuperare le energie per costruire la cavalcata finale, mantenendo ancora la stessa gravità di la su un tempo lento che sembra una processione. Bella la coda che riporta brevemente alla prima parte, che di questa prima improvvisazione torinese è quella che rimane scolpita.

La seconda parte, come avvenuto a Modena e a Ferrara parte con una pulsazione rapida, propulsiva e una totale astrazione armonica. Come se ad ogni concerto l'apertura della seconda "porta" avvenisse inesorabilmente con la chiave del ritmo, del ritmo astratto da ogni gravità e tradizione armonica. La concentrazione, la "pressione" ritmica è feroce, in questa sezione, e le due mani agiscono contrappuntisticamente in modo assai percussivo.

Piano piano le inerzie armoniche aumentano e Jarrett sembra quasi giocare con un ragtime stravinskiano politonale/pantonale mantenendo inesorabile il cuore ritmico, da rapidissimo balletto.

Piano piano il ragtime scompare e rimane sempre più forte il richiamo a Stravinsky, alle sue sonate neoclassiche e alle sue danze ostinate. Di nuovo, specularmente alla prima parte, più di quindici minuti di grande concentrazione e forza esecutiva.

Ecco che, anziché un finale, immancabile arriva la transizione, l'armonia compie un balzo temporale e transculturale trasferendosi in America in un lampo e Jarrett trova una ballata che sembra un omaggio spontaneo all'asse Ellington-Mingus (!) tanto l'armonia e la melodia riportano a quella stagione di sofisticazione del blues e del gospel, come fosse una nuova Goodbye Porky Pie Hat.

Da lì nasce il finale con l'ostinato ritmico rock e l'armonia popolare e bluesy: una specie di Hey Jude jarrettiana e contagiosa.

Ma le due lunghe "soglie" di queste meditazioni torinesi, le due partenze, sono ciò che di importante rimane impresso maggiormente del concerto torinese, al sottoscritto. Oltretutto anche molto idiomaticamente coerenti tra loro, entrambe appartenenti alla civiltà musicale europea del novecento.

Genova

A differenza dei precedenti concerti, Jarrett stavolta sfrutta all'apertura quel genere di improvvisazione ritmicamente propulsiva, percussiva ed astratta che riservava al suo ritorno in sala dopo la pausa, quando il ritmo e l'astrazione armonica erano le chiavi di apertura della seconda parte. Ancora una volta si lascia trasportare da un cuore ritmico continuo che aggredisce in modo primitivo e assai efficace.

Dopo circa dieci minuti la pulsazione comincia a swingare e il fraseggio porta ad una lunga sezione pienamente jazzistica che diviene via via sempre più continua, densa ed articolata, ricordandoci i suoi legami con la free music, molto presente nelle sue performance anni settanta.

L'uscita è sorprendente, degli arpeggi dissonanti che sfociano in una sezione timbrica e scura: in modo lentissimo e assai naturale il timbro tormentato si apre ad una dimensione armonica distesa e pacificata, sciogliendo l'infinita tensione accumulata nei consueti trenta minuti di invenzione musicale, con una sorta di struggente andante spianato.

Tutta l'improvvisazione è un esempio magistrale di forma istantanea e di capacità narrative, sia per i lunghi sviluppi senza cali di tensione, sia per la naturale trasformazione delle idee tematiche nelle varie sezioni, infine per la coerenza del materiale sfruttato che, sebbene eterogeneo come sempre, non subisce scarti e virate eccessivamente violenti, da un punto di vista idiomatico.

La seconda parte inizia con un nuovo ricercare armonico di tradizione tonale, come se Jarrett cercasse nuovamente la canzone, della quale evidentemente ad un certo punto di ogni concerto sente il bisogno, specie dagli anni ottanta in poi, quando molte delle sue energie creative si sono focalizzate proprio sull'interpretazione del repertorio canzone. Evidentemente quella sostanza si è inevitabilmente riversata anche nelle sue improvvisazioni libere. In questo caso specifico senza trovare forse soluzioni entusiasmanti.

La sezione si stabilizza in una lunga meditazione modale, lenta e ferma, con un canto molto espressivo che sembra servire a far riottenere energia e concentrazione. Infatti emerge una danza processionale lenta e primitiva sulla nota di re, l'effetto mantra dell'ostinato sembra far andare il pianista nella sua dimensione preferita di unità tra corpo, psiche e spirito, acquietati e pacificati dal suono e dal ritmo. Lo stato meditativo è sin troppo evidente, c'è totale concentrazione al momento presente e uno stato di coscienza consapevole dato dalla assenza di pensieri e l'indirizzamento volontario dell'attenzione-visualizzazione verso un determinato oggetto, che in questo caso sembra essere il ritmo e la sua qualità narrativa, attraverso la semplice iterazione (nella pratica affatto semplice).

Uscito da quella dimensione contemplativa, alla richiesta di encore, il nostro sceglie di far girare otto battute di boogie su di un tempo medio e swingarci sopra gioiosamente.

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