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A dialogo con Simone Graziano

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Simone Graziano, pianista e compositore fiorentino trentacinquenne, è giustamente balzato in primo piano negli ultimi anni grazie soprattutto al suo quintetto Frontal, apprezzato con il primo disco omonimo e nelle performance dal vivo. Della formazione, che ha nel frattempo visto Dan Kinzelman subentrare al posto di Chris Speed, è appena uscito il nuovo CD Trentacinque. Per l'occasione abbiamo dunque incontrato Simone e gli abbiamo chiesto qualche informazione sul gruppo e sul nuovo disco.

All About Jazz: Il tuo quintetto Frontal, dopo l'ottima accoglienza del primo disco, arriva al secondo capitolo, Trentacinque, che conferma quanto di buono ascoltato finora anche dal vivo. Puoi dirci come nasce questa formazione e come si è evoluta per giungere a questo stadio?
Simone Graziano: Frontal è lo sviluppo di un'idea di trio: i primi brani, infatti, erano stati originariamente pensati per essere suonati in trio. Poi, un po' casualmente, nel 2011 mi fu offerto di fare un concerto per l'Estate Fiorentina, con la possibilità -grazie alla disponibilità di un buon budget, cosa piuttosto rara -di invitare ospiti internazionali a mia scelta. E io pensai subito a David Binney e Chris Speed.

AAJ: Perché proprio loro?
S.G.: Essenzialmente perché li adoravo e ascoltavo tutti i loro dischi! Speed in Alanoaxis e con Tim Berne , Binney in tutte le sue produzioni. Così provai prima a chiamare David, il quale però mi disse che non poteva perché era in Portogallo in vacanza, e poi, un po' deluso, provai con Chris, il quale viceversa mi dette subito la sua disponibilità. Per me era già una cosa fantastica. Tornai dal promoter e gli comunicai la presenza di Speed, ma lui, un po' a sorpresa, mi rispose: "ma come, solo uno? No, no, dobbiamo fare le cose in grande, chiamane anche un altro!." A quel punto mi rimisi in contatto con David per chiedergli di nuovo la disponibilità, aggiungendo stavolta che ci sarebbe stato nel gruppo anche Chris Speed: e a questo punto anche lui mi dette la conferma!

AAJ: Diciamo che, in un panorama asfittico come quello in cui viviamo negli ultimi anni, l'opportunità di avere due ospiti di questo livello è stato un vero colpo di fortuna!
S.G.: Senz'altro, e infatti fu una cosa che ancor più mi spinse ad arrangiare per quintetto il materiale originariamente per trio -allora composto da Ares Tavolazzi, che fu il contrabbassista anche di quel primo concerto, e Stefano Tamborrino, rimasto membro stabile di Frontal -e a comporre brani appositamente pensati per la nuova formazione. Ovviamente all'epoca i miei riferimenti erano un po' diversi da quelli di adesso: conoscevo meno Tim Berne, ero più legato alla musica newyorchese e ai gruppi di Wayne Shorter, stavo percorrendo una strada che ho poi seguito negli anni successivi. Comunque arrivai al concerto con un buon materiale e la serata andò piú che bene, compatibilmente con una performance fatta dopo pochissime prove. Anzi, andò tanto bene che mi furono offerte tre date per l'autunno successivo, cosa che mi motivò a comporre altre composizioni e ci permise di tornare a lavorare assieme per affiatare meglio la formazione. Così, quando suonammo a settembre al Wine Town di Firenze -nel frattempo Gabriele Evangelista era subentrato ad Ares -il gruppo suonava già molto bene.

AAJ: Sì, ricordo, che, pur con le limitazioni dell'ambiente -era un loggiato di un palazzo storico e il pianoforte quasi non si sentiva -, l'impatto fu sorprendente.
S.G.: Visto che il lavoro aveva pagato, che le cose funzionavano e che avevamo due ospiti di richiamo, decisi di organizzare una tournée estiva per il 2012, prevedendo anche una registrazione. Fu in quel periodo che personalmente iniziai anche a frequentare la scena dell'improvvisazione fiorentina -Emanuele Parrini, Massimiliano Sorrentini e i vari esponenti del Gallo Rojo che attraverso di lui suonavano in città -e quindi ebbi una personale evoluzione che aveva dato i suoi frutti quando entrammo in sala di registrazione per realizzare il primo CD, Frontal. Quel lavoro, quindi, aveva tante matrici: le mie frequentazioni adolescenziali del rock, la musica classica che avevo studiato, gli ascolti del jazz newyorchese, la più recente ricerca nel campo dell'improvvisazione più rigorosa. Questo lo rende un disco a cui sono molto legato affettivamente, ma anche un lavoro a mio parere molto sincero, autentico, fresco, nel quale le straordinarie capacità di due artisti come Binney e Speed vengono fuori a pieno.

David stesso è molto contento del gruppo, anzi ha un così forte senso di appartenenza che mi ha diffidato dall'usare il gruppo in sua assenza! E, nonostante la distanza, ha fatto un sacco di concerti con noi. Chris, invece, era troppo pieno di impegni; così, dopo varie sostituzioni occasionali, abbiamo deciso assieme di fargli subentrare Dan Kinzelman. Il quale, dal canto suo, ha portato anche linfa nuova, essendo un musicista davvero straordinario: sa fare di tutto, è un lettore a prima vista incredibile, ha un suono assolutamente particolare e -soprattutto -è un improvvisatore completo, per cui ha contribuito in modo importante alla trasformazione del gruppo e a far dare all'improvvisazione un peso maggiore. Un altro elemento di trasformazione è stato l'ingresso dell'elettronica, perché David e "Tambo" la usavano nei live.

Tutto ciò ha spinto allo sviluppo di un materiale nuovo, che è quello poi confluito nel secondo disco, che -nella mia idea -doveva far "esplodere" Frontal: volevo vedere dove era in grado di arrivare un gruppo di musicisti bravissimi se spinto sempre più avanti su tutti i fronti, da quello improvvisativo, sempre più in primo piano, a quello della scrittura, diventata nelle nuove composizioni -e anche grazie alla mia esperienza con Tim Berne -sempre più complessa.

AAJ: Come hanno reagito i musicisti di fronte a quella complessità compositiva?
S.G.: La reazione più estrema l'ha avuta "Tambo": la prima volta che gli presentai le partiture le guardò, rimase un po' in silenzio, poi esplose in una delle sue risate surreali e iniziò a offendermi -scherzosamente, certo, ma con un fondo di verità... -dicendo che scrivevo musica ineseguibile perché mi ero fissato con Tim Berne, che non pensavo ai musicisti che la dovevano suonare, che lui non sarebbe mai stato in grado di farlo... Ovviamente, scontati due mesi di improperi nei miei confronti, l'ha suonata perfettamente, e io lo sapevo benissimo, ma la sua reazione testimonia il fatto che davvero avevo cercato di spingere il gruppo fino ai suoi limiti. Ecco, Trentacinque è questo. Secondo me è ancora un disco onesto e sincero, con la differenza che lo sento rispecchiarmi maggiormente, laddove l'altro aveva un maggior numero di elementi derivativi. Qui, invece, ho fatto decantare le mie matrici, lasciando poi che producessero i loro frutti.

AAJ: L'esperienza con Tim Berne ha avuto per te una grande importanza; ci puoi raccontare qualcosa?
S.G.: In realtà io ho lavorato con Tim pochissimo, cinque giorni, però è stata una delle esperienze più forti della mia vita. Ero stato incaricato, assieme a Daniele Camarda, di fargli da assistente in un seminario di tre giorni che doveva tenere per Siena Jazz, alla fine del quale era previsto un suo concerto in solo, al Tubo. Berne ci mandò un paio di pezzi che avrebbe suonato con gli allievi, come dire "studiateveli!." La domenica mattina lo incontrammo, da soli assieme a Caterina Di Perri, mi ricordo ancora l'agitazione che avevo... Ci chiese di suonare assieme i due pezzi, iniziammo, ma già alla fine del primo ci disse: "Siete dei musicisti straordinari! Io non suono da solo, voglio fare il concerto con voi!."

Rimasi annichilito, non tanto perché lusingato, quanto perché pensai subito: "aiuto! Ora tira fuori una cartella di pezzi allucinanti e impossibili da suonare e ci dice di prepararli!." Non feci a tempo a finire di pensarlo che Tim, puntualissimo, tirò fuori una cartelletta e ci consegnò cinque pagine di musiche, nere da quanto erano piene di note... Conclusione, quattro pezzi -più i due che ci aveva mandato -da suonare con lui al Tubo, che io mi studiai la sera, dalle otto alle due di notte, di ritorno dai seminari di Siena, per arrivare al concerto conclusivo. Un'esperienza, dunque, molto dura, ma che mi ha dato tantissimo: suonare con Tim significa vivere il rapporto tra scrittura e improvvisazione, esperire direttamente come le due cose vadano di pari passo. Questo ti permette di capire come una scrittura così complessa sia una sorta di esercizio per spingere se stessi al limite, un trampolino per andare oltre quello che ritenevi di poter fare prima.

Dopo un'esperienza così puoi buttarti nel mondo dell'improvvisazione con in testa un magma che ti dà un'energia e un orientamento unici. Oltre questo, devo anche riconoscermi debitore a Tim di un insegnamento che è stato tra le fonti di ispirazione del secondo Frontal, perché una volta mi ha detto: "Stai attento, quando un gruppo suona un repertorio troppo bene, vuol dire che è arrivato il momento o di cambiare gruppo, o di cambiare radicalmente repertorio." Credo che questo sia vero, che faccia parte della logica evolutiva delle formazioni che suonano una musica come il jazz, che per statuto non si può permettere di ripetersi. E lo stimolo di Tim mi ha spinto a cambiare il repertorio di Frontal.

Certo, ho avuto delle esitazioni, non solo per le pittoresche proteste di Tambo, ma anche perché quando facemmo la prima prova dei nuovi materiali con David, neppure lui sembrava riuscire ad assimilarli e a trovarsi a proprio agio. Lì mi è venuto il sospetto di aver sbagliato tutto, perché se neppure David, che è un musicista strepitoso, era in grado di appropriarsi della musica, allora dovevo essermi spinto davvero troppo oltre. Poi però siamo andati in studio e le cose sono cambiate, al punto che lui stesso, riscoltandosi in macchina al rientro, mi ha detto che non si ricordava di aver suonato così bene! Ecco, direi che l'insegnamento più prezioso di Tim alla fine sia stato questo: se suoni questa musica hai il doveredi sforzarti di andare oltre, di spingerti fino ai tuoi limiti, in ambienti che non conosci.

AAJ: Certo, è quello che i teorici dell'improvvisazione sottolineano come l'aspetto essenziale della pratica: innovare costantemente, tradendo la propria tradizione, trasformandosi fino a cambiare inesorabilmente la propria identità.
S.G.: E infatti Tim Berne è un artista di sessant'anni che ancora continua a cambiare e a mettersi in discussione. Nel bene e nel male, perché non si può dire che tutto quel che ha fatto sia sempre esaltante; ma non credo sia questo che gli interessa, quanto piuttosto continuare ad andare avanti. Tanto che, quando siamo stati assieme, mi è capitato di chiedergli di fare un suo brano tratto da Science Friction, un lavoro del 2001, non del 1980.... Ebbene, mi ha risposto di no, perché era "un pezzo vecchio"!

AAJ: Tornando al tuo gruppo, che cosa caratterizza il passaggio dal primo al secondo Frontal?
S.G.: Senz'altro il cambiamento del rapporto tra scrittura e improvvisazione: nel primo Frontal gli elementi improvvisativi poggiano su strutture semplici, o comunque su delle forme; nel secondo, invece, la scrittura è più complessa e, di conseguenza, anche l'improvvisazione è molto più libera, non utilizza necessariamente delle forme. Perciò oggi c'è una più definita e personale identità sia di scrittura, sia d'improvvisazione.

AAJ: E qual è l'elemento di continuità?
S.G.: Il suono. Perché nonostante la densità di informazioni che c'è adesso nella musica, il gruppo secondo me continua ad avere un impatto emotivo forte, così come avveniva in precedenza. Per come sono fatti e suonano i musicisti, tutti quanti, il gruppo ha una sua capacità di comunicazione emotiva forte. Cosa che poi per me è fondamentale, perché quel che desidero -aldilà della complessità strutturale ed esecutiva -è che la mia musica arrivi, e questa urgenza comunicativa mi pare sia rimasta immutata, pur nei cambiamenti.

AAJ: Il gruppo è affiatato anche umanamente?
S.G.: È un gruppo amici, amici veri, e questo credo che dica tutto. In questi anni siamo cresciuti assieme anche dal punto di vista umano e penso che ciò sia una cosa rara, certo una cosa che a me prima non era mai successa. "Tambo" è il mio migliore amico, Dan e Gabriele sono carissimi amici, anche con David ormai tutti abbiamo un forte rapporto personale. Questo tra l'altro in anni che sono stati contrassegnati da sconvolgimenti personali nella vita di quattro quinti del gruppo, così che vivere assieme le rispettive vicende ci ha unito tantissimo. Ciò si sente senz'altro nel modo in cui si progetta e si parla assieme della musica, ma credo si senta anche in quel che suoniamo.

AAJ: Tu sei il leader, tu scrivi i pezzi, ma poi qual è il contributo degli altri nella progettazione?
S.G.: Innanzitutto il contributo sta nel suono che ognuno porta, perché ciascuno è un'individualità straordinaria e unica, cosicchè io non posso non tener conto delle peculiarità di ognuno già in fase di scrittura. Pensa per esempio a "Tambo": ha un modo di suonare la batteria assolutamente particolare, oltre che strepitoso, è un genio musicale, ha un talento incredibile che ha coltivato ancor più non avendo fatto un percorso accademico: è sempre concentrato sulla musica, senza distrazioni tecniche o formali. Per cui avere lui invece di un altro batterista cambia completamente il ruolo del suo strumento nel gruppo e nella musica che scrivo. Oltre a questo, ovviamente c'è una collegialità come dicevo strettamente legata al rapporto umano che c'è tra noi, per cui tutti danno consigli e indicazioni riguardo ad arrangiamenti o dettagli di ciò che mettiamo in scena.

AAJ: Parliamo un po' di Trentacinque.
S.G.: Dal punto di vista delle ispirazioni, c'è una marcata differenza rispetto al primo disco, che era dedicato alla vita, in particolare alle mie nipotine Carolina e Marta: Trentacinque è invece accompagnato da una riflessione su ciò che segue la vita, perché mentre lo realizzavo sono scomparse due persone che mi erano care -mia zia Loretta, a cui il lavoro è dedicato, e il mio maestro John Taylor. È anche per questo che ci sono brani come "Kamennaja Baba," che fa riferimento alle stele di pietra che in Siberia stanno a guardia delle tombe con il compito di traghettare i morti nell'aldilà. Ma ciò non vuol dire che sia un disco lugubre! Dal punto di vista più strettamente musicale, invece, nel disco ci sono alcuni esperimenti. "Killcoal," per esempio, è un brano in certo senso descrittivo ed è legato a una particolare vicenda che ho vissuto: per un certo periodo le mie mattinate sono state invase senza interruzione dai suoni della radio a tutto volume di un vicino. Il brano è in parte il frutto della mia reazione disperata, iniziata una mattina mettendomi a suonare fortissimo, in modo quasi violento, contro la musica che mi ossessionava! Poi ovviamente il brano ha preso un'altra strada, ma l'ispirazione è stata quella. Ci sono inoltre alcuni brani interamente improvvisati, tra i quali il primo, "B_Polar," che abbiamo registrato alla fine della seconda giornata in studio, a mezzanotte, distrutti dalla fatica: eppure è venuto benissimo! Il fatto che, certe volte, dei brani improvvisati senza alcuna preparazione vengano bene quanto altri sui quali hai speso mesi di composizione mi desta sempre delle riflessioni: è la tua scrittura che non è efficace, oppure è l'immediatezza, la semplicità dell'improvvisazione ad avere un'impareggiabile efficacia?

AAJ: Forse questo dipende dal fatto che se l'improvvisazione è fatta in gruppo, ha il grande vantaggio di essere il frutto della creatività collettiva -nel vostro caso cinque musicisti, tutti di grande levatura con una forte intesa che, dopo due giorni di intensissimo lavoro fluttuano in un magma mentale comune...
S.G.: Sono d'accordo, cinque cervelli che pensano assieme hanno molte probabilità di fare una buona performance, meglio ancora se in un momento come quello -che era sì di stanchezza, ma anche di relax, visto che avevamo finito ed eravamo soddisfatti del lavoro.

AAJ: Che progetti hai per il gruppo?
S.G.: Intanto è in corso il tour di presentazione del disco, poi abbiamo già in programma la presenza al Torino Jazz Festival, ad aprile, e coltiviamo da un po' l'idea di una tournée in Oriente, in Cina o Giappone, per la quale servono un bel po' di date: ne abbiamo alcune, stiamo lavorando per farle crescere. Poi vedremo: il disco esce adesso e il repertorio nuovo, globalmente preso, non l'abbiamo ancora portato in concerto, per cui siamo curiosi di vedere come lo suoneremo, che sviluppi avrà. Sarà da lì che potranno scaturire le idee per andare ancora oltre e, magari, pensare a un nuovo repertorio e a un altro disco. Adesso è ancora presto.

AAJ: A parte Frontal hai altri progetti in corso?
S.G.: Sì, un trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e Andrea Grillini alla batteria, con i quali vorrei registrare appena possibile. Lì sono al Fender Rhodes, quindi su sonorità elettriche assai diverse dalle atmosfere di Frontal. Infine, in questo periodo mi è capitato di suonare spesso in piano solo e mi piacerebbe documentare anche quello. Ma qui siamo solo alle intenzioni.

AAJ: E il duo con Alessandro Lanzoni che è passato al Musicus Concentus?
S.G.: Nasce da un'idea di Giuseppe Vigna, quando ce lo ha proposto siamo stati entrambi entusiasti, ma è stata solo un'occasione. Certo, visti gli esiti del concerto credo sarebbe bello riproporlo, ma avere due pianoforti è sempre complicato logisticamente, non è una formula che si porta a giro facilmente.

AAJ: Nient'altro?
S.G.: Più in generale, vorrei concentrarmi sullo sviluppo della mia scrittura. Per esempio, in un ipotetico nuovo disco di Frontal mi piacerebbe inserire l'uso della voce, anzi proprio dedicare il lavoro alla vocalità. Non ho mai scritto per la voce e un gruppo come Frontal secondo me è adatto a una cosa del genere. Bisognerebbe pensare delle song, non di tipo tradizionale ovviamente, ma che integrino gli elementi caratteristici di Frontal -improvvisazione, elettronica, impatto comunicativo. Più degli elementi nuovi che l'impiego della voce porta con sé. Ancora non mi sono deciso, ma questa mi pare oggi una sfida molto interessante che potrebbe impegnarmi a fondo nel prossimo futuro.

Foto
Angelo Trani

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