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A dialogo con Roberto Ottaviano

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L’improvvisazione è camminare al buio con la memoria di tutto quello che si è appreso, ovvero orientarsi senza una mappa rassicurante, e fare del viaggio in sé l’autentico obiettivo
Poliedrico quanto a collaborazioni ed esplorazioni di aree stilistiche, sempre rigorosissimo nel modo di affrontare qualsiasi situazione musicale, ritenuto dalla critica uno dei maggiori interpreti del sassofono jazz in Europa, Roberto Ottaviano è prossimo a compiere sessant'anni, essendo nato a Bari nel dicembre del '57. E lo fa presentando un ennesimo lavoro di altissimo livello, altro omaggio a un grande Maestro di questa musica, John Coltrane, dopo quello dedicato due anni fa a Steve Lacy. Abbiamo colto l'occasione per parlare con lui del suo percorso artistico.

AAJ: Inizierei da lontano, da un tuo disco di oltre vent'anni orsono per la DIW, Black Spirits Are Here Again, realizzato in duo con Mal Waldron, allora il partner per eccellenza di Steve Lacy. Un lavoro bellissimo, nel quale già si percepiva come tu, pur seguendo la strada segnata da Lacy, ne coltivassi una tua personale interpretazione, con esiti già allora eccellenti.

Roberto Ottaviano: Si tratta di un disco che in effetti mi è molto caro, perché dimostra che le cose fatte con il cuore e non eccessivamente meditate alla fine, in qualche modo, "arrivano." Di quel disco, recentemente, mi ha tessuto le lodi Charles Lloyd, al quale l'avevo dato qualche tempo fa e che mi ha mandato un messaggio molto commovente, dimostrando di averne colto il canto, la melodia, il lirismo, che fanno parte della mia formazione e dai quali non riuscirei a distaccarmi neanche se lo volessi.

AAJ: Lirismo e melodia, appunto, aspetti che sono tuoi e che forse erano meno propri di Steve Lacy, che ha avuto senz'altro grande importanza nella tua formazione e che un paio di anni fa, in occasione del decennale della scomparsa, hai celebrato con un doppio disco con due formazioni diverse, Forgotten Matches. The Worlds Of Steve Lacy. Anche alla luce di questa tua diversità, puoi dirci qualcosa del tuo rapporto con Lacy?

RO: Potremmo passare dei giorni a parlare di questo, perché, dal punto di vista musicale, si può dire che la mia età adulta sia iniziata con Steve. Quando l'ho conosciuto io già suonavo, anche se non da moltissimo tempo. Lo conoscevo dai dischi, ma incontrarlo personalmente è stata una "botta" straordinaria: mi ha aperto orizzonti, ha suscitato riflessioni, mi ha stimolato a cercare delle chiavi nel mondo del jazz che, francamente, non so se altrimenti avrei mai trovato. Steve è stato un grande maestro attraverso il suono del suo strumento e la costruzione della sua musica. Immergendomi nel suono del suo sax soprano e nel suo pensiero musicale, attraversando il modo in cui era giunto alla costruzione di una identità molto forte ed una personalità musicale ricercatissima -nel modo di pensare la musica, i suoi ritmi, le melodie, le formazioni -ho trovato la chiave di lettura per identificare un jazz che fosse attuale e nel quale potermi riconoscere senza dover necessariamente prolungare la mia "formazione" anche nella maturità, continuando a fare il verso a qualcuno. Questo rapporto è vivo ancora oggi: quanto più io cerco di lasciarmelo alle spalle, di tagliare questo cordone ombelicale con Steve, tanto più lui si ripresenta puntuale: alle volte, quando ho in testa delle domande o sto pensando a delle ipotesi, nella vasta produzione di Steve trovo sempre delle risposte prive di equivoci. Per me questo è bello e importante, anche se al tempo stesso problematico, perché mi ritrovo il peso di questo insegnamento.

AAJ: Dicevi però una cosa che mi sembra rilevante e che secondo me emergeva già in quel disco con Mal Waldron: l'importanza che ha per te il lirismo, che forse in Lacy era assai meno centrale. Come hai fatto convivere il modo di intendere il jazz che ti veniva da Steve e quel lirismo che è invece un elemento che ti appartiene più direttamente, che ti viene probabilmente dalla tua tradizione culturale?

RO: Il mondo di Steve è originato dal più puro spirito newyorchese degli anni Trenta-Quaranta, nel senso che lui aveva conservato un carattere derivato dalla sua origine di ebreo di famiglia russa presto allontanata dalla madre patria. In quegli anni New York era caratterizzata da una forte commistione di culture entro la quale la componente ebraica era decisiva. L'ironia e il distacco, paradossalmente accoppiati a un coinvolgimento intellettuale e psicologico, peculiarità di Steve, erano una derivazione delle sue origini e di conseguenza un tratto della New York di quegli anni. Questa sua componente di ironica freddezza ha poi successivamente incontrato un mondo altrettanto enigmatico, quello giapponese, che nella sua musica si sente moltissimo. Tuttavia Lacy ha saputo disegnare questi due mondi con grande limpidezza e pulizia sonore, che sono poi quello che io ho incontrato e da cui sono stato affascinato. Ecco, quella pulizia, quella limpidezza, quella ricerca dell'intonazione assoluta e della modulazione attraverso i vari registri dello strumento io ho cercato di piegarli al clima mediterraneo, ovvero a tutta quella serie di influenze diverse a cui ero stato esposto in quanto uomo del sud, nato e vissuto in uno spazio posto all'incrocio tra i Balcani e il Maghreb, il Medio Oriente, influssi storicamente molto presenti nella mia terra, che io avverto costantemente e che sono una sorta di "respiro ancestrale" che incontra la mia musica. In questo modo ho avuto la possibilità di maturare un'identità musicale che si fa sentire in modo molto forte in quello che faccio, ma che si differenzia senz'altro dalla base identitaria di Lacy.

AAJ: Hai usato l'espressione "respiro ancestrale," che richiama il titolo di quel bellissimo e forse sottovalutato disco di qualche anno fa, Archtetics. Soffio primitivo, che sembrava evidenziare più di altri tuoi lavori gli aspetti di cui parlavi adesso rispetto alla lezione di Lacy, che pure vi si sentiva. Che valore ha avuto come tappa della tua evoluzione artistica?

RO: Senza alcun tipo di recriminazione, devo osservare che il mio spirito progettuale non ha mai incontrato molta fortuna. Ricordo a questo proposito un'altra formazione altrettanto lungimirante che ho animato negli anni Ottanta, i Six Mobiles, un sestetto di soli strumenti a fiato con cui facemmo tra l'altro un bell'omaggio a Charles Mingus, che ebbe un notevole riscontro di critica e anche di pubblico in Europa, ma che da noi ha incontrato le difficoltà in cui si imbattono sempre le formazioni poco ortodosse. Perché in Italia ci nutriamo sempre di una sorta di esterofilia museale: vogliamo ricreare le atmosfere del club newyorchese, quando molti musicisti americani vengono in Europa proprio per cercare degli spazi che siano diversi, più originali e innovativi. Io sono cresciuto attraverso esperienze e collaborazioni fatte in Germania, in Austria, suonando in ambiti particolari come le gallerie d'arte, nei siti storici o nelle cosiddette Fabrik: lì un progetto come quello di un quartetto d'archi con sax soprano, qual era la formazione di Soffio Primitivo, ha trovato un forte riscontro, maggiore che in Italia. Comunque sia, quel lavoro è stato estremamente importante per lo sviluppo della mia musica e per tracciare anche oggi il mio futuro, a prescindere dal fatto di non aver incontrato particolare successo: quella è la mia strada e non la cambierò certo per assenza di riscontri del pubblico.

AAJ: Venendo al presente, l'ultimo tuo progetto è il tuo QuarkTet, formazione internazionale dai musicisti formidabili che hai riunito per realizzare un omaggio alla figura di John Coltrane, di cui quest'anno si celebra il cinquantenario della scomparsa. Come sei arrivato a scegliere quei musicisti e ad avvicinarti più direttamente alla figura di Coltrane?

RO: Da un po' di tempo stavo meditando di lasciare una traccia più consistente del modo in cui vivo il rapporto tra scrittura e libertà. Perché i miei dischi precedenti sono più elaborati dal punto di vista progettuale e della scrittura, mentre in questo ultimo lavoro, Sideralis, ho voluto scrivere sì delle cose, ma anche lasciare che altre fossero sottintese, recuperando quello spirito -a me altrettanto vicino -dell'improvvisazione libera, o non idiomatica, propria di alcuni musicisti inglesi e americani ai quali sono legato, e che io stesso ho molto praticato. Una sorta di sublimazione di questo spirito mi è sembrato il periodo finale dell'esperienza artistica di John Coltrane, il quale aveva raggiunto un enorme livello di concentrazione, di spiritualità, quasi di annullamento della concretezza terrena, attraverso uno sguardo rivolto al cosmo inteso come costante interrogazione, come vuoto eterno. Che poi credo sia ciò che ancora oggi viene ricercato, per esempio, da musicisti come Wayne Shorter e il suo quartetto: anche lì, infatti, ci sono delle tracce tematiche da lui scritte, ma tutto il resto è giocato sul filo dell'equilibrio formale e dell'improvvisazione. Ecco, questo è quanto ho pensato fosse interessante documentare oggi in relazione a Coltrane, piuttosto che rivolgergli un omaggio più o meno letterale: il mio è più un tributo spirituale, una sorta di doverosa memoria. La scelta dei musicisti è stata poi quasi immediata: con Alexander Hawkins abbiamo collaborato a più riprese negli ultimi tempi, per esempio in Forgotten Matches, ed è uno dei giovani musicisti europei oggi più interessanti; con Gerry Hemingway avevo già suonato tanti anni fa, registrando alcuni dischi per l'etichetta svizzera Hat Art; con Michael Formanek invece non mi era mai capitato di lavorare, ma i suoi ultimi progetti -con Tim Berne o Uri Caine, e la grande orchestra Kolossus con cui ha registrato per ECM -mi sono piaciuti così tanto che ho approfittato della sua antica partnership con Hemingway per cercarlo. Credo che i risultati di questa scelta si sentano nel disco, che non presenta alcuna forzatura: la musica viene prodotta con grande naturalezza, una cosa essenziale per un progetto che si muove in una sorta di zona franca del suono. Tuttavia c'è pure grande rispetto per il jazz, la sua storia e i suoi grandi protagonisti -tant'è che alcuni, da Duke Ellington a Herbie Nichols fino a John Lee Hooker, nel lavoro vengono chiaramente evocati -e io li ho pensati lassù, come stelle di questo immaginario cosmo, a guardarci in attesa che la musica di oggi evolva verso soluzioni nuove e differenti da quelle trovate da loro.

AAJ: Il QuarkTet non è però l'unico tuo progetto attuale. Al festival Musica Sulle Bocche di Santa Teresa di Gallura ne hai portati altri due diversi, tra cui quello abbastanza sorprendente dedicato a Philip Glass.

RO: Quella è stata un po' una scommessa, propostami dal direttore artistico del festival Enzo Favata (clicca qui per leggere una sua recente intervista). Il quale, dato che era già prevista la mia presenza alla rassegna con il mio trio Troi Griots, mi chiese se mi interessasse presentare qualcosa per gli ottant'anni di Glass, magari con qualche mio allievo di conservatorio. Io lì per lì risposi che per una cosa del genere sarebbero stati più adatti musicisti classici, ma lui ribadì che non si trattava di "suonare Glass," bensì di fare un omaggio che cercasse di recuperarne la visione musicale dal mio ben diverso punto di vista, anche alla luce della grande importanza che nella sua musica ha il sassofono. Questo mi stimolò molto, così che alla fine ho raccolto la sfida: ho chiamato tre dei miei studenti più interessanti, assieme ai quali abbiamo costruito un programma nel quale ci sono alcune musiche di Glass, ma ci sono anche elaborazioni mie personali -per esempio di un celeberrimo suo incipit degli anni Settanta, "Gradus," che si è trasformato in una sorta di conduction nella quale le improvvisazioni vengono chiamate "a cappella" da ciascun musicista -più mie composizioni originali, e una criptica suite per quartetto di sassofoni, eseguita pochissimo, la Precipitation Suite di Steve Lacy. Tutto questo, suonato in quello scenario unico e magico che è Cala Rena, sulle Bocche di Bonifacio, alle cinque di mattina a cavallo dell'alba, e ha funzionato particolarmente bene. A quell'ora e con il maestrale che c'era, sono stato sorpreso ed entusiasta di vedere quanta gente era presente! Molto, molto bello!

AAJ: Dei Troi Griots invece cosa puoi dirci?

RO: Si tratta di un trio con Giovanni Maier al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria, creato da poco -abbiamo fatto tre concerti all'interno di festival -ma è già adesso una formazione che mi dà quella sicurezza, quel sostegno ritmico, quella sensazione di universalità dal punto di vista della pulsazione, tale da permettere di spaziare ovunque: da un ritmo shuffle a uno africano, da una situazione astratta a una più concreta, sempre con un'intesa totale. Non è un sassofono accompagnato da una sezione ritmica, bensì un favoloso gioco mimetico a tre. Abbiamo in mente di fare un piccolo tour per sperimentare ancora e poi di andare in studio di registrazione, allargandoci però a quartetto con la presenza di un ospite, uno dei maggiori talenti emersi negli ultimi anni: Marco Colonna (clicca qui per leggere una sua recente intervista).

AAJ: Hai però anche un altro tuo progetto in corso, il quartetto Pinturas, con il quale hai pubblicato quest'anno l'album Change the World.

RO: Pinturas viene da lontano, ha al suo attivo un disco che ormai ha una decina d'anni, Un Dio Clandestino, uscito per Dodicilune. Ci sembrava giusto scrivere un secondo capitolo di quella saga, che è legata al mondo della canzone, nel senso più ampio del termine, visto che in questo nuovo disco abbiamo ripreso brani di David Sylvian, Lou Reed, Velvet Underground, Roger Waters. Rispetto alla formazione originale qui abbiamo Mirko Signorile come ospite al pianoforte. Questo disco e Sideralis possono apparire agli antipodi, eppure non è proprio così: l'afflato mistico, o comunque il trasporto narrativo, è presente in entrambi i lavori. Pinturas è un gruppo a cui sono particolarmente legato dal punto di vista affettivo, perché Nando di Modugno, Giorgio Vendola e Pippo D'Ambrosio sono musicisti con i quali mi sento davvero "in famiglia."

AAJ: Adesso una domanda che che faccio un po' a tutti i musicisti che intervisto, per i miei interessi non solo musicali, ma anche filosofici sull'improvvisazione: cos'è per te questa pratica, come la definisici?

RO: Dal punto di vista musicale l'improvvisazione è una disciplina davvero molto singolare, che ha moltissime facce e sfumature. Si capisce che non è legata esclusivamente alla cultura del jazz, ma viene da molto lontano ed è presente in molte altre culture musicali. Ci sono improvvisatori che hanno sviluppato la capacità lessicale di inanellare una grande quantità di frasi una dietro l'altra, alcuni fra loro utilizzano quelli che in modo un po' dispregiativo vengono definiti "pattern," altri invece -pur muovendosi in modo analogo, e cioè sfruttando il concetto di sistema verticale (armonia) e orizzontale (melodia) -rimettono in gioco ogni volta la fraseologia. C'è poi un'altra categoria di improvvisatori, i cosiddetti "improvvisatori puri," che potrei descrivere attraverso le parole di un protagonista della storia del jazz che si ritiene uno di loro, Lee Konitz: "io sono uno che insegue la frase in tempo reale; non sto tanto a pensare ai centri tonali e alle scale da usare, ma mi relaziono con quel che sta succedendo, alle frasi." Una cosa che si riflette anche nelle parole di Dexter Gordon nel famoso film di Bertrand Tavernier "'Round Midnight": "Sono stanco, perché sono tanti anni che cerco di inventare ogni volta, sera dopo sera, delle cose nuove da dire." Ecco, per me questo è improvvisare, non è restituire a memoria una trascrizione, né utilizzare automaticamente frasi fatte, cliché, chops, soluzioni previste e prevedibili: per me improvvisare è osare, andare al cuore della situazione, provare a prendere delle strade completamente diverse. Sintetizzando: per me l'improvvisazione è camminare al buio con la memoria di tutto quello che si è appreso, ovvero orientarsi senza una mappa rassicurante, e fare del viaggio in sé l'autentico obiettivo.

AAJ: Negli ultimi anni hai lavorato più volte con un musicista particolare, forse non adeguatamente valorizzato nel panorama musicale, qual è Glenn Ferris.

RO: Conosco Glenn da tantissimi anni, ancora da prima che lavorasse anche lui con Steve Lacy: avevamo fatto assieme un disco del gruppo Nexus, Urban Shout, al quale partecipò anche Enrico Rava. Lo conobbi allora e mi colpì molto la sua storia, l'esperienza poliedrica: ha suonato nell'orchestra di Don Ellis, ma anche con Frank Zappa, è un musicista straordinario e veramente trasversale. Il suono del suo trombone è estremamente personale e gronda blues. Io sono sempre stato sensibile al rapporto tra il sax soprano e il trombone -ho registrato tra gli altri con Ray Anderson, Albert Mangelsdorff, Wolter Wierbos della ICP Orchestra -e poiché Glenn, oltre che un musicista superbo, è anche un grande pensatore e una persona straordinaria, dall'omaggio a Lacy ho continuato a coinvolgerlo nei miei progetti, facendogli prendere parte ad Astrolabio, quartetto di fiati completato da Gianluigi Trovesi e Michel Godard.

AAJ: Come ultima cosa volevo chiederti un approfondimento su un tema che hai già toccato di passaggio quando sottolineavi l'importanza che ha avuto per la tua evoluzione artistica il luogo dove sei nato e vivi, la Puglia, che definivi un crocevia di culture diverse. Descrizione che condivido e i cui tratti a mio parere sono fondamentali per la costruzione di un humus capace di stimolare la creatività e la produzione di cose innovative o almeno originali. Puoi dirci qualcosa di più del crogiuolo pugliese, che tu frequenti anche in molte altre esperienze non a tuo nome?

RO: La Puglia è ormai da parecchio tempo una terra ricchissima di talenti, e c'è anche una diversità interna di linguaggi, dialetti ed espressioni, per cui si va da una grande padronanza della tradizione -penso Vito Di Modugno, interprete dell'organo Hammond che compare con regolarità nei referendum di Down Beat -ad altri che si muovono in modo più trasversale -e qui penso a Gianluca Petrella, del quale ho seguito l'evoluzione essendo uscito dalla mia scuola. Credo che questo sia anche il frutto del fatto che qui si è cercato di sviluppare un tessuto artistico e di produrre stimoli costruendo opportunità altrove ben presenti da tempo -l'ho fatto io, ma ancor più lo hanno fatto altri, come Pino Minafra con il Talos Festival e il Festival di Noci, o Gianni Lenoci, che ha caratterizzato una scuola più vicina alla musica contemporanea. Certo è che oggi abbiamo la fortuna di poterci confrontare a più livelli, sia tra musicisti esperti, sia con giovani dal grande talento e dalla preparazione inappuntabile. E abbiamo anche la fortuna di avere chi si sbatte per poter documentare tutto questo, penso all'etichetta discografica Dodicilune di Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti, ma anche alla Auand Record di Marco Valente. Quello di cui, purtroppo, non riusciamo ancora a disporre è secondo me un'adeguata fruizione dei media: infatti mi pare che si sia ancora poco "presenti," se non nell'immagine di sicuro nei fatti, sulla scena concertistica nazionale. Ma questo alla fine può essere più una risorsa che un limite. Perché tutto sommato credo che la Puglia sia oggi una terra che può dare molto, dal punto di vista della progettualità, della programmazione e dei talenti, che sono tanti, alcuni ancora tutti di scoprire. Ne cito uno su tutti, un giovane ancora poco conosciuto ma che merita di avere uno spazio importante: il clarinettista e sassofonista Francesco Massaro.

AAJ: Abbiamo parlato dei tuoi molti progetti in corso o di recente realizzazione, ma cosa altro bolle nelle tue numerose pentole?

RO: Proprio in questi giorni sto riportando in giro il mio progetto in solo, che ho presentato in anteprima quest'estate al festival Jazz By The Sea di Fano. Il progetto si chiama Lontano e mi vede completamente "a nudo," io e il mio sax soprano senza interventi elettronici o di altro genere, come va oggi molto di moda. Facendomi un po' di violenza, ho voluto riprendere questo progetto in solitudine, anche perché le strade da percorrere sono ancora moltissime. Il titolo rimanda a un punto di vista sul nomadismo e sulla migrazione, non tanto in relazione ai problemi dell'integrazione e dell'accoglienza, bensì come meditazione sul mondo che si è lasciato, sulle memorie che chi abbandona un contesto porta con sé. È una cosa che mi è venuta in mente durante una collaborazione con la cantante albanese Elina Duni, la quale ha lasciato l'Albania da bambina con la sua famiglia e dei suoi luoghi d'origine non sapeva nulla: tutto quello che ha ricostruito, incluso l'amore per quella terra a lei sconosciuta, le è arrivato attraverso i racconti del nonno! È stato lui a trasmetterle tutto quel che lei sa dell'Albania, di un paese rurale, legato a foreste, storie, tradizioni che lei altrimenti non avrebbe mai conosciuto e che fa rivivere attraverso la sua voce, nonostante non lo abbia mai vissuto in prima persona. Questa cosa mi ha colpito profondamente ed è quanto cerco di riportare nel mio solo, nel quale convergono racconti e memorie di tanti che ho avuto modo di incontrare. Lo spettacolo l'ho portato in parte anche al Festival del Talos e lo riproporrò al festival di Skopje e in altre rassegne.

AAJ: C'è qualcosa che vuoi dire a conclusione di questa conversazione?

RO: Solo una cosa, un pensiero sul jazz per me molto importante, e che vorrei condividere soprattutto con le nuove generazioni. Troppo spesso oggi ci si avvicina alla musica jazz attenti solo ai suoi aspetti esteriori: tecnica, repertori, anedottica, e via dicendo. Quello che mi preoccupa è che, esasperando questi aspetti, il musicista sta perdendo sempre più di vista un concetto estremamente correlato alla storia di questa musica, che in quanto tale, è vero, potrebbe non esprimere altro da se stessa, però nelle azioni, nelle scelte, nel modo di essere dei suoi protagonisti e nel loro modo di rappresentare il mondo circostante deve riconquistare il suo valore politico. Spesso, oggi, molti giovani tralasciano tutto questo, per pigrizia, per ignoranza, per disillusione, invece io penso (e sempre lo ripeto anche ai miei allievi del conservatorio) che non si debba mai dimenticare che, dalle espressioni più plateali -per esempio quelle di Mingus -fino a quelle più diplomatiche e meditate -per esempio in Ellington -il jazz è sempre stata una musica politica. Una musica che deve sì parlare al cuore, ma che, quando occorre, deve anche dare saper alzare i pugni!

Foto: Luca D'Agostino (Phocus Agency)

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