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Dan Kinzelman: flusso di coscienza

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Dan Kinzelman, sassofonista e clarinettista statunitense da oltre un decennio residente in Italia, è ormai parte del panorama jazzistico nazionale ed è anche tra i suoi artisti più apprezzati, vuoi per le eclettiche e sorprendenti doti di strumentista, vuoi perché anima alcune delle più interessanti proposte del nostro jazz, dal trio collettivo Hobby Horse al suo quartetto Dan Kinzelman's Ghost, da Frontal di Simone Graziano fino al recente sestetto Ghost Horse.

All About Jazz: Sei americano, ma ormai a tal punto parte del panorama musicale nazionale che c'è chi se ne dimentica e ti considera italiano: come sei giunto nel nostro paese?

Dan Kinzelman: Premesso che tra non molto spero di diventare davvero italiano, perché mi sto organizzando per richiedere la doppia cittadinanza, in Italia sono arrivato per una serie di coincidenze. All'università mi ero appassionato allo studio delle lingue e avevo iniziato a studiare il tedesco (mia madre ha vissuto in Germania da giovane e ho anche remote origini tedesche per parte di padre). Contemporaneamente ho scoperto la produzione discografica della ECM, a quel tempo non facile da trovare negli USA se si escludono ovviamente Keith Jarrett e pochi altri artisti in catalogo. Avevo sentito qualcosa nella ricca discoteca che mio padre si era costruito da giovanissimo, che però non era aggiornatissima, perché dopo il matrimonio e con la mia nascita (io sono del 1982) mio padre aveva molto ridotto gli acquisti. Così, finita l'università, non avendo interesse a proseguire gli studi perché avevo bisogno di distanziarmi per un po' dall'accademia e non ritenendomi ancora pronto per iniziare qualcosa di mio, decisi di venire in Europa, scegliendo inizialmente la Germania per la lingua e perché l'ECM era diventata per me qualcosa di sacro. In Germania conobbi Emanuele Maniscalco, che più avanti mi invitò a suonare per la prima volta in Italia, presentandomi Giovanni Guidi. Con entrambi nacque subito un'amicizia molto profonda, cosicché mi chiamarono nei mesi successivi a fare alcuni concerti con loro in Italia. Giovanni in quel periodo stava mettendo in piedi il suo primo gruppo e avrebbe voluto che ne facessi parte, ma mi disse chiaramente che se rimanevo in Germania non sarebbe stato possibile. Così —era il 2005 —mi trasferii in Italia, inizialmente con un visto da studente, poi con uno da colf, infine con un visto regolare, per fare il musicista.

AAJ: Quindi anche la scelta di Foligno come luogo di residenza è legata ai tuoi rapporti con Guidi?

DK: Indubbiamente: ero stato a Foligno un paio di volte per fare delle prove con il suo gruppo, poi c'ero ritornato in occasione della prima edizione di Young Jazz, che mi era sembrato una specie di paradiso in terra con tutti quei gruppi di ragazzi di vent'anni, pieni di energia, accolti benissimo dalla città. Questo, assieme all'amicizia con Giovanni —che mi aiutò sia a svolgere le pratiche per il visto, sia a trovarmi una sistemazione —fece sì che scegliessi Foligno. In seguito il sodalizio artistico con lui è stato per me decisivo, tanto dal punto di vista della mia crescita come musicista, perché mi ha fatto scoprire tanta musica, quanto da quello più strettamente professionale. Grazie a lui ho infatti iniziato a suonare in giro in Italia, facendo anche le prime esperienze su veri palcoscenici e non, come ero abituato negli USA, in locali e caffè. Dal punto di vista della formazione la differenza è decisiva e ha contribuito a cambiare la maniera in cui percepivo il mio lavoro.

AAJ: Capisco benissimo: non solo molti giovani musicisti si lamentano della difficoltà di accedere a dei veri palcoscenici, perfino i direttori artistici più seri osservano con preoccupazione questo ostacolo che si pone ai giovani musicisti italiani.

DK: Io oramai non mi considero più un "giovane" e l'attività di insegnamento che faccio adesso mi fa riflettere sul mio percorso e su quelli che i veri giovani di oggi dovranno fare: vedo dei validissimi musicisti poco più che ventenni con grandi idee e sono davvero entusiasta di alcuni progetti che, ad esempio, stanno nascendo fra gli studenti a Siena Jazz dove insegno. Direi che il livello medio dei progetti emergenti si sta innalzando in maniera vertiginosa, ma purtroppo molti direttori artistici non si informano e non si aggiornano, oppure mancano di strumenti o del coraggio di rischiare. Perciò se non hai qualcuno di credibile che ti introduce, ti presenta, l'accesso al mercato concertistico per i giovani musicisti con i propri progetti è difficilissimo. Vedo un lume di speranza in alcuni festival e club che che si sbattono per dare spazio alle nuove proposte e agli artisti non ancora affermati: quando la proposta di musicisti sconosciuti viene curata bene, la risposta del pubblico (anche giovane) c'è, perché di cose interessanti ce ne sono in giro; ma è un lavoro lungo, che richiede coraggio e convinzione. Mi auguro che la cosa si diffonda maggiormente e che tutti i festival aprano spazi nei quali possano suonare ed emergere i giovani musicisti: è l'unica speranza che abbiamo anche per rinnovare il pubblico e rimanere collegati alla contemporaneità. A medio-lungo termine poi, mi auguro che si inizi anche a fare un lavoro più serio di promozione del jazz italiano all'estero. Ritengo che non abbiamo nulla da invidiare ad altri paesi sul piano qualitativo, anzi. Ma c'è un grosso lavoro da fare, non da parte nostra ma da parte di chi si occupa della promozione culturale, che deve mettere in campo anche un'opera di sviluppo del pubblico, di promozione dell'ascolto critico, altrimenti la bolla di innovazione che adesso sta gonfiando rischia di implodere.

AAJ: Invece la tendenza sembra sia quella di proporre sempre il "grosso nome" nella speranza che faccia "cassetta," cosa che sta progressivamente trasformando l'ascoltatore jazz in un ascoltatore pop, l'ascolto critico e attento all'"inaudito" in un ascolto passivo e attento al già noto, a ciò che conosci e perciò puoi riconoscere, al ben confezionato. Ma tornando alla tua vicenda artistica, hai spiegato come sei arrivato in Italia, ma resta il fatto che tu, nato nella culla del jazz, ti ritrovi a suonarlo in un paese nel quale questa musica è arrivata più tardi e anche oggi non ha un posto centrale. Nessun rimpianto?

DK: No, perché qui in Italia ho trovato una cosa che a me interessa molto: la possibilità di portare avanti collaborazioni di lungo periodo, perché le condizioni di lavoro lo permettono, mentre negli Stati Uniti la cosa è più complicata.

AAJ: Questo ci conduce ai tuoi progetti, iniziati relativamente presto dopo il tuo arrivo in Italia.

DK: In realtà l'esigenza di fare cose mie si è sviluppata gradualmente: all'inizio erano più gli altri a sollecitarmi a farle, io non ne sentivo il bisogno, o non mi sentivo pronto. Poi, con il crescere dell'esperienza e la maturazione di un giudizio personale che mi faceva apprezzare alcune cose più delle altre, è cresciuto anche il mio desiderio di far nascere un luogo dove sperimentarne le conseguenze musicali accanto a persone fidate. Erano già diversi anni che seguivo da dentro e da fuori le vicende artistiche di Giovanni, i progetti di Enrico Rava (Under 21, Tribe, PMJL), quelli di Mauro Ottolini (Sousaphonix) ed ero affascinato da quanto fosse determinante nel risultato musicale il cambio anche di un solo elemento del gruppo, dall'importanza dell'elemento umano, con i rapporti tra le persone che si esprimevano poi fin dentro la musica. Seguendo quegli esempi ho provato a mettere insieme dei progetti, alcuni dei quali sono morti prima di nascere, finché non è arrivato Hobby Horse, il primo a essersi pienamente sviluppato e finora il più longevo della mia vita artistica.

AAJ: Com'è nato Hobby Horse?

DK: Avevo un quartetto che mi piaceva, il mio primo vero gruppo, con David Boato, Francesco Ponticelli e Armando Sciommeri, batterista strepitoso ma purtroppo poco conosciuto. Quella formazione aveva però delle difficoltà a svilupparsi, soprattutto per questioni logistiche: i componenti vivevano troppo distanti tra loro, perciò era difficilissimo avere una costanza nel suonare insieme, cosa che ritengo necessaria per un certo tipo di maturazione del progetto. Per questo sentivo il bisogno di cambiare e la mia intenzione era mettere in piedi un trio, perché mi è sempre piaciuto suonare senza strumento armonico. Proprio in quel periodo Joe Rehmer, che conoscevo da tempo e stimavo molto, ha deciso di trasferirsi in Italia: era la persona giusta per quel progetto, ci mancava solo un batterista. In una delle ultime date previste per il quartetto Sciommeri non poteva esserci e Giovanni Guidi mi suggerì di sostituirlo con Stefano Tamborrino. Non lo conoscevo, per cui lo contattai, lo incontrai a Firenze e gli spiegai la musica che avremmo suonato; lui all'epoca non leggeva la musica e mentre parlavamo e suonavamo prendeva appunti, si scriveva qualcosa su un quaderno, non so bene cosa. Un paio di settimane dopo facemmo il concerto: Stefano suonò perfettamente! Evidentemente si era studiato i brani dal quaderno su cui aveva preso appunti. Rimasi molto impressionato dal suo approccio e dal suo modo di suonare, molto diverso da quello di qualsiasi altro batterista con cui avessi mai avuto modo di lavorare. Fino ad allora avevo un "modello" di batterista, che mi ero creato sulla falsariga di uno dei primi con cui avevo suonato e che usavo come metro di misura; dopo aver suonato con Stefano quel modello è saltato: lui è autodidatta e, per quanto fosse chiaro quali erano le sue influenze all'epoca, era indecifrabile e imprevedibile, mi metteva in difficoltà, e questo era per me uno stimolo molto forte. Devo dire che questa è una cosa che ho sentito anche in altri musicisti italiani e che probabilmente mi ha influenzato nella scelta di trasferirmi in Italia: per apprendere quel genere di originalità. Comunque, la data andò alla grande, due mesi dopo decisi di chiudere il quartetto e per il trio chiamai subito Stefano.

AAJ: Hobby Horse è quindi un progetto pensato in primo luogo da te?

DK: L'idea iniziale è stata mia, ma in realtà il contributo allo sviluppo della formazione è paritetico. E questo è per me molto importante, perché la vera ricerca a mio parere si fa così: se io oggi ho un certo linguaggio, se suono in un certo modo, lo devo al fatto di aver lavorato con loro, di aver imparato assieme a suonare così. Quello che loro fanno apre degli spazi nei quali ho imparato a inserirmi, e viceversa. Questo vale per tutti i progetti di cui faccio parte —ho ormai eliminato ogni cosa che consideri estranea alla mia musica —perché tutti sono una fucina che mi forgia, ma per Joe e Stefano vale in maniera particolare perché lo scambio esiste da più tempo e avviene in maniera molto profonda e libera. Ci conosciamo molto bene e loro suonano in modo che fino a un certo punto posso prevedere, ma in qualche modo il rapporto si rinfresca e evolve in continuazione, per cui anche ora, dopo centinaia di concerti fatti insieme, continuano a sorprendermi e stimolarmi. Addirittura oggi non è più tanto chiara neppure la paternità delle composizioni, perché uno di noi arriva con un'idea ma dopo gli altri vi intervengono sopra in modo diretto e ci lavoriamo assieme in maniera molto fluida. Questo fa sì che in Hobby Horse non ci siano elementi sostituibili: se manca Stefano non è possibile chiamare un altro al suo posto, e lo stesso vale per Joe. I ruoli nel gruppo sono come vestiti cuciti addosso a ciascuno di noi, non sarebbe possibile pensare la stessa musica con altri elementi! Questo modo di fare musica e questa struttura della formazione mi piace molto ed è un modello che porto con me anche in altri contesti: in tutti i miei gruppi vale più o meno la stessa cosa, si dà vita a un mondo musicale che può esistere solo con quelle persone, con quei musicisti, non con altri.

AAJ: Nel caso di Hobby Horse questo è molto evidente anche dall'esterno, perché la musica che fate è assolutamente singolare, difficile anche da etichettare. Una pratica, quest'ultima, sempre riduttiva, ma che lo è a maggior ragione nel vostro caso perché, pur mantenendo una sorta di "marchio di fabbrica," fate musica di volta in volta anche molto diversa...

DK: Mi fa piacere sentirlo dire, perché questo è proprio la stessa percezione che abbiamo noi ed è forse quello che più ci interessa: esprimere qualcosa di personale a prescindere del campo linguistico in cui ci si muove. Mi piace pensare che negli anni si sia sviluppata una specie di etica musicale che viene fuori poi nelle scelte che facciamo senza necessariamente doverne parlare preventivamente.

AAJ: Puoi spiegare le ragioni di quest'ambizione e il modo in cui cercate —con un certo successo, appunto —di realizzarla?

DK: Innanzitutto vorrei premettere che parlare di musica è molto difficile, perché è un mondo a sé, che le parole non riescono a descrivere compiutamente. Per questo faccio non solo fatica a dire che tipo di musica sia quella che faccio e che vorrei fare, ma anche che tipo di musica mi piaccia tra quella che ascolto e perché. È anche per questo che non è mai stato un mio obiettivo fare un certo tipo di musica invece che un altro. Il mio modo di fare musica invece è: mettiamoci a lavorare e poi, strada facendo, cerchiamo di comprendere assieme cosa abbiamo fatto e dove vogliamo andare. Nel caso di Hobby Horse succede esattamente questo. Abbiamo interessi diversi, ascoltiamo musica diversa, quando andiamo in tour ce la facciamo ascoltare a vicenda e, grazie a una predisposizione all'ascolto e all'interazione, abbiamo trovato un modo di confrontarci sui rispettivi interessi musicali e artistici. La varietà delle cose che facciamo nasce da qui: mescoliamo le cose diverse che ognuno di noi ascolta, proviamo con curiosità e un po' di incoscienza a fare anche cose che non sappiamo se verranno bene, e così armonizziamo tutto in una musica che alla fine è la nostra.

AAJ: Questo aspetto dell'avventurarsi su sentieri che non si sa dove possono portare è interessante e si coglie anche dalla platea.

DK: È una delle cose che mi ha attratto di più di Stefano fin da quando l'ho conosciuto: il desiderio di provare anche quando c'è il rischio di sembrare ridicoli, perché l'altra faccia del rischio è la possibilità di scoprire qualcosa! Ed è quel che di solito facciamo, anche se, forse, qualche volta finiamo davvero per sembrare ridicoli...

AAJ: A proposito di questo rischio, qualche giorno fa parlavo proprio con Stefano dell'ultima traccia della vostra più recente uscita, Helm, che si conclude con un suono ripetuto per oltre un quarto d'ora, sempre lo stesso. Non gli ho nascosto che mi ha lasciato perplesso e che ascoltandolo ho pensato che, per una volta, eravate andati un po' troppo oltre nelle "provocazioni..."

DK: Si tratta appunto di uno di quei casi in cui ci siamo presi consapevolmente un rischio, con un intento provocatorio, è vero, ma anche a partire da una sollecitazione ben precisa: Helm è uscito anche su LP e c'era venuta l'idea di lasciare aperto l'ultimo solco, facendo ripetere il suono fintantoché l'ascoltatore non fosse andato ad alzare il braccio del giradischi. Questa cosa non può avvenire con un CD, che ripete il suono per un certo numero di minuti e poi si spegne da solo; tuttavia restano sia la sollecitazione all'ascoltatore, sia la sua libertà di alzarsi e spengere il lettore, come farebbe un ascoltatore dell'LP. Non solo: rimane la grande ricchezza che c'è dentro quei minuti di suono ripetuto, perché se lo ascolti con attenzione —e io l'ho fatto diverse volte —ti rendi conto di tante cose: che se ti sposti nella stanza il suono cambia, per le particolarità acustiche presenti in ogni spazio chiuso; che al passare del tempo lo percepisci diversamente, perché il nostro cervello (o perlomeno il mio) non è in grado di concentrarsi per tutto quel tempo su un solo aspetto; che anche ad ascolti diversi lo cogli in modo diverso, perché comunque l'ascolto dipende anche dall'ascoltatore, dal suo umore, dalla sua predisposizione anche fisica, che fa sì che percepisca ora uno strato del suono, ora un altro; e così via. In generale, quest'idea "rischiosa" e un po' estrema era dettata dall'intenzione di non rivolgersi a un ascoltatore passivo, di attivarne l'attenzione; un obiettivo che ritengo riuscito, visto che tantissimi hanno commentato, nel bene o nel male, questa scelta o, quanto meno, hanno sentito il bisogno di interrogarsi e interrogarci sulle sue ragioni. E a chi proprio non è piaciuta ho semplicemente detto: beh, alzati e spengi il lettore! Col senno di poi trovo che quella scelta si incastri anche alla perfezione con i temi e i concetti che sono venuti fuori mentre stavamo registrando e missando il disco e che in qualche modo lo hanno ispirato: l'invasione tecnologica nella nostra quotidianità e il concetto della singolarità tecnologica. Chi è interessato ad approfondire questo argomento può leggere il manifesto che si trova sul nostro sito www.hobbyhorse3.com.

AAJ: La prima cosa che si apprezza di te come strumentista è il tuo eclettismo: fai di tutto, passando con naturalezza e continuità dalle sperimentazioni sonore quasi rumoristiche al lirismo da balladeur, dai fraseggi frammentati e sospesi agli assoli torrenziali e dinamici. Inoltre dici di essere arrivato in Europa sulle tracce della ECM, apparentemente lontana da tutte queste posizioni stilistiche. In mezzo a tutta questa varietà, come ti descriveresti?

DK: Partirei dal mio essere qui, in Europa e in particolare in Italia. Ovviamente ci sono, e soprattutto ci sono restato, perché vi ho trovato lavoro. Ma se ero arrivato qua dalla Germania, come accennavo prima, è perché sentivo che c'era qualcosa che dovevo imparare, che andava oltre l'ottima formazione che avevo ricevuto negli Stati Uniti, una preparazione accademica rivolta soprattutto al lavoro in big band o in studio. Dove ho studiato io —all'Università di Miami —c'erano diversi docenti con un occhio di riguardo verso la musica originale e la creatività, ma il percorso di studi non lasciava molto tempo per permetterci di sviluppare le capacità personali in questa direzione, perché questo tipo di formazione spesso tende a una sorta di appiattimento, ancorché su un livello tecnico elevato. Quando mi sono stabilito qui nel 2005 non credo ci fosse in Italia un livello di formazione paragonabile a quello che avevo ricevuto e neppure a quello che c'era in altre parti d'Europa, per esempio in Francia o in Germania; per questo, quando arrivai avevo una marcia in più sul piano della tecnica rispetto ai miei coetanei. Ma loro, proprio perché avevano dovuto sviluppare da soli la propria personalità musicale, avevano anche messo a punto ciascuno un proprio linguaggio personale, specifico, che era il prodotto dei propri limiti e della necessità di farne virtù. Oggi capisco e so descrivere quest'aspetto, ma allora sentivo solo che loro avevano qualcosa che io non avevo e di cui sentivo molto il bisogno. Anche perché il jazz è caratterizzato proprio da questa unicità individuale, frutto in parte dello studio autonomo e autodidatta dei musicisti "storici" di questa musica, i più grandi dei quali hanno trovato le loro soluzioni originali districandosi tra gli ostacoli posti loro dall'esperienza e non scegliendole tra le possibilità indicate e insegnate sui libri didattici. Ecco, allora in Italia c'era ancora questa scuola dell'esperienza, che permetteva, anzi, obbligava a imparare dalle persone con cui suonavi, dalle difficoltà che incontravi e dagli errori che facevi affrontandole. Esagerando potrei dire che meno hai tecnica, più personalità sei costretto a mettere nella musica. Poi ovviamente i musicisti di talento sono sempre stati in grado di metterci entrambe le cose; però nel contesto accademico il rischio è quello di lavorare esclusivamente sulla teoria e la tecnica, più semplici da insegnare, specie in classi numerose. Chiaramente, così facendo dai all'allievo degli strumenti formidabili per affrontare qualsiasi ostacolo, ma il rischio è che, avendo passato anni a preoccuparsi esclusivamente di questioni prettamente tecnico-meccaniche, finisca poi col non pensare a come (e perché) impiegarli.

AAJ: E la tua attrazione per l'ECM come la spieghi?

DK: Come dicevo, qualche disco lo conoscevo già da giovanissimo e si trattava di qualcosa di molto diverso da quel che si poteva ascoltare allora in America, a maggior ragione perché la collezione di dischi in casa mia arrivava soltanto fino agli anni Settanta. A parte questa apparente novità, quel che mi colpì fu la qualità delle registrazioni e il modo in cui essa valorizzava le scelte timbriche dei musicisti. Il timbro è importantissimo in qualsiasi lavoro di jazz, ma in quei dischi sentivo esserci un lavoro particolare, preciso, al punto che l'etichetta aveva un suo proprio suono, era lei stessa a definire il suono dei suoi musicisti, una cosa che non si trovava altrove. Inoltre mi interessavano molto le influenze con la world music (terreno interessante ma delicato) e con la musica europea, che per me erano novità, cose che non sospettavo nemmeno che esistessero e che potrei simboleggiare con la figura di Jan Garbarek, il musicista che allora mi affascinò più di tutti, assieme a Kenny Wheeler.

AAJ: Il fascino per Garbarek dura ancora oggi o te ne sei affrancato?

DK: C'era un lungo periodo della vita in cui mi impegnavo per avvicinare il mio modo di suonare a dei modelli per me esemplari, passando da Stan Getz a Sonny Rollins, fino a Wayne Shorter e appunto Garbarek (e molti altri ancora). Quella fase è finita diversi anni fa, ma ascolto ancora molto volentieri Garbarek e sarebbe difficile per me immaginare di essere arrivato al mio linguaggio attuale senza aver bevuto a lungo da quella fonte. Una volta il lavoro dell'ECM era una cosa quasi rivoluzionaria, mentre adesso è quasi di conservazione, anche se —va detto —negli ultimi anni l'etichetta sta facendo anche cose interessanti e rischiose rispetto a quel che ha fatto per un certo periodo. Comunque, se mi capita di ascoltare un disco ECM, anche oggi è più facile che si tratti di una produzione degli anni Settanta, perché sono quelli i dischi che hanno cambiato il mondo della musica e anche il mio mondo di ascolti.

AAJ: Oggi però la tua attenzione musicale è andata oltre, o comunque in altre direzioni.

DK: Sì, certo, anche se, come dicevo prima, non "dirigo" la mia attenzione musicale in funzione delle mie esperienze precedenti, ma "scopro" i miei interessi mentre faccio musica. E molto di quello che faccio dipende anche dalle persone con cui lavoro e dai contesti in cui mi trovo a suonare.

AAJ: E tuttavia non si può dire che ti adegui ai contesti, visto che di solito la tua presenza "pesa" molto nell'economia musicale delle formazioni in cui lavori, anche in quelle nelle quali sei ospite: non sei mai un comprimario, offri sempre un contributo importante, che lascia il segno.

DK: Come vedi sono uno che parla! Voglio dire che, per come sono fatto di carattere, ci metto sempre del mio: chi mi chiama lo sa ed è interessato a quel che posso offrire. Del resto, diversamente dal passato, anch'io oggi sono molto più selettivo, non mi interessa fare bene "qualsiasi cosa," ma solo fare cose nelle quali posso esprimermi dando il mio contributo personale e che al contempo possano offrirmi occasioni per crescere e scoprire. Anzi, direi che ormai preferisco concentrarmi sulle cose che faccio per dedicare tutta la mia energia nello svilupparle al meglio, piuttosto che fare tante cose. Anche perché non credo di essere uno molto prolifico, con tante idee: ne ho poche e —se proprio devo trovarmi una qualità —forse sono bravo a capire quali siano le mie idee buone e a metterle a frutto il meglio possibile.

AAJ: È senz'altro un buon principio: a mio parere oggi ci sono in giro molti eccellenti musicisti che non riescono mai a fare il cosiddetto "capolavoro" solo perché di cose ne fanno troppe e non sviluppano fino in fondo i loro lavori, che in tal modo rimangono "buoni" senza mai diventare "eccellenti."

DK: È un buon principio che posso mettere in pratica solo grazie alla fortuna di aver trovato un gruppo di persone che come me apprezzano il valore della collaborazione, della condivisione e della curiosità reciproca. Magari il mio giudizio è viziato, ma mi sento davvero molto fortunato a far parte di questa scena, perché ci permette di tirar fuori un'energia che non potremmo avere individualmente. E questo vale anche per i musicisti con i quali non ho progetti stabili in comune: anche con loro, infatti, quando ci incontriamo c'è uno scambio molto proficuo.

AAJ: Da questo punto di vista mi sembra emblematica la tua collaborazione con Frontal di Simone Graziano: quando ci sei entrato il gruppo era strutturato e affermato, tu hai iniziato in punta di piedi, come sostituto di Chris Speed, poi sei rimasto stabilmente e adesso, dopo alcuni anni, la tua presenza ha un senso molto preciso e ha cambiato in certa misura gli equilibri e il suono della formazione, anche se suona la stessa musica e tante cose sono ovviamente rimaste immutate.

DK: Penso che questa impressione della mia incidenza nella musica cui prendo parte derivi dal fatto che chi mi chiama, come nel caso di Simone, prevede già di lasciarmi una certa libertà di azione, perché si fida di me —la fiducia è fondamentale quando si tratta di improvvisazione. Del resto io posso fare bene il mio lavoro, cosa per me essenziale, solo se posso fare quel che so fare meglio. E questo implica che ci metta del mio. Non potevo entrare in Frontal per fare semplicemente il sostituto di Chris Speed: cercare di suonare come lui sarebbe stato disonesto e fallimentare----non lo so fare —e quindi l'unica strada era agire secondo il mio gusto e le mie capacità che, nonostante l'ammirazione che nutro nei suoi confronti, sono profondamente diverse. Per questo anche in quel gruppo ho sviluppato delle cose che Chris non aveva sviluppato, lasciando da parte cose che aveva fatto lui. In questo modo il suono di una formazione va fatalmente in una direzione diversa, ma questo chi mi chiama lo sa: se lo apprezza mi chiama, altrimenti non lo fa, oppure dopo un po' decide di cambiare perché quel che faccio non fa per lui.

AAJ: Veniamo ai progetti attuali e futuri, a cominciare dal recente allargamento di Hobby Horse a Ghost Horse: l'idea è stata tua?

DK: No, l'idea è stata di Joe Rehmer, che già due anni fa ci propose di fondere Hobby Horse con Dan Kinzelman's Ghost, il mio quartetto di fiati con Mirco Rubegni, Manuele Morbidini e Rossano Emili. Io —per le ragioni che dicevo prima, cioè per la mia tendenza a fare poche cose alla volta —inizialmente ho glissato, ma lui ha continuato a sollecitarmi, così a un certo punto la cosa ha cominciato a stuzzicarmi: avevamo fatto un nuovo disco della Rebel Band che dirigevo con Giovanni Guidi e scrivere e arrangiare per quella formazione mi aveva fatto tornare la voglia di farlo per organici ampi; Hobby Horse andava sempre meglio, dandoci conferme e stimolandomi a cercare cose nuove con Joe e Stefano; infine ne abbiamo parlato con Novara Jazz, con cui è nato un bel rapporto da quando mi avevano commissionato il lavoro con il coreografo e danzatore Daniele Ninarello. Enrico Bettinello, che aveva curato a suo tempo quel progetto, ha proposto di ospitarci per una residenza e poi un concerto finale. A quel punto abbiamo cominciato a lavorarci seriamente, accantonando l'idea iniziale di fondere le due formazioni perché a livello timbrico ci interessavano diverse e perché c'erano musicisti con i quali avevamo collaborato in altri contesti che volevamo amalgamare in un gruppo. Così, abbiamo messo assieme l'attuale formazione attorno al nucleo di Hobby Horse e, dopo alcuni giorni di prove nella veste di una registrazione (registrare è un ottimo modo per provare), abbiamo fatto la prima data a maggio dell'anno scorso a Novara. Siamo stati molto felici dei risultati e il progetto ha attratto l'attenzione anche di qualche festival, per cui siamo riusciti a fare un altro paio di date a novembre, poi di nuovo a febbraio e a inizio primavera. A maggio registreremo il disco, in concomitanza con Correggio Jazz, come Novara un grande incubatore di progetti di giovani musicisti.

AAJ: Che rapporto c'è tra la musica di Hobby Horse e quella di Ghost Horse?

DK: Nel repertorio del secondo c'è solo un pezzo del primo, per il resto è tutto scritto da me, Joe e Stefano appositamente per la nuova formazione. C'è stato una sorta di vortice di composizione, che è seguito alla concreta organizzazione del gruppo (una cosa tutt'altro che facile, perché siamo tanti e ciascuno ha i propri impegni): una volta capito che ce la potevamo fare, ho finalmente trovato un po' di tempo e ho scritto un sacco di musica in poco più di dieci giorni. Conoscevo molto bene il suono di Joe —che qui ha deciso di suonare solo il basso elettrico —e quello di Stefano —che ha questa dote incredibile di sorprenderti sempre, che non ho mai trovato in un musicista di quel livello —e ho immaginato il loro lavoro arricchito dai nuovi suoni: quelli della chitarra di Gabrio Baldacci, che a livello timbrico è molto originale, e dei fiati di Glauco Benedetti e Filippo Vignato. Credo che rispetto a Hobby Horse ci sia senza dubbio meno libertà, sia perché siamo più elementi da amalgamare, sia perché i fiati hanno tutti una voce piuttosto corposa e perciò devono avere un accordo molto preciso. Ma ora che abbiamo fatto un po' di concerti in più si iniziano ad aprire degli spazi di libertà e improvvisazione collettiva molto interessanti.

AAJ: È più scritto rispetto a Hobby Horse?

DK: Sì, la scrittura è molto più fitta, ma anche perché finora eravamo ancora in una fase iniziale: c'era tanto da provare, da studiarsi e mettere ordine; negli ultimi concerti stiamo iniziando ognuno a trovare i suoi spazi. È incredibile come si arricchisce il contenuto quando si entra in questa fase del processo: si tratta di una parte che va gestita bene, perché è vero che il progetto è in generale più legato alla scrittura, ma l'intenzione di tutti è quella di rendere meno evidenti i confini tra le cose scritte e quelle improvvisate.

AAJ: Ho assistito al concerto di Metastasio Jazz, molto bello e interessante; però la mia impressione personale è stata che i fiati si appiattissero un po' l'uno sull'altro, che non fossero ben evidenziate le singole voci.

DK: In parte sono d'accordo: ripeto, il materiale è ancora fresco e lo stiamo sviscerando pian piano. Ma è anche una questione di approccio: l'obiettivo è creare mondi sonori e questo vuol dire lavorare sul suono collettivo, perché non sono i singoli assoli che ci interessano particolarmente. Detto questo, nel frattempo abbiamo memorizzato il repertorio e questo sta già aprendo per tutti degli interessantissimi spazi di libertà. In una formazione timbricamente così particolare bisogna scoprire insieme che forma dovrà avere il dialogo e come tenere in equilibrio tutta questa massa sonora. Ma sta crescendo vertiginosamente e nell'ultima tournée abbiamo iniziato a intravedere quello che potrà essere, e che sarà.

AAJ: Quando scrivi hai dei riferimenti o ti muovi liberamente?

DK: Mi è difficile rispondere, perché in un certo senso non so proprio cosa faccio quando compongo. Ho letto che Kenny Wheeler diceva: "io non so davvero quello che faccio, e non lo voglio nemmeno sapere perché non vorrei che dopo non mi riuscisse più farlo." Anche io non so bene spiegare come funziona la parte di me che crea; purtroppo non so neanche come accenderla, perciò spesso passo lunghi periodi in cui non mi esce niente... Spesso quando scrivo immagino come mettere in luce aspetti particolari dei musicisti per i quali sto scrivendo. Un esempio è Stefano: io amo il suo modo di essere musicista, lo amo davvero, perciò mi piace tantissimo immaginare ciò che farà in determinati contesti. Per cui quando scrivo cerco di creare una sorta di "parco giochi" sapendo che poi lui là dentro farà cose belle e inaspettate. Ovviamente lo faccio sulla base della mia anticipazione mentale, anche se poi lui farà cose molto diverse da quel che mi immagino... Lo stesso vale per gli altri musicisti: scrivo pensando alle cose belle che potranno fare, al loro suono, i territori in cui sento che loro si esprimono qualcosa di unicamente loro, e cerco di condurci in quella direzione. Altre volte penso a una sensazione oppure a un'atmosfera che vorrei fissare o evocare, spesso senza troppo stare a indagare da dove nasca e senza avere neppure parole per quello che vorrei dire, che è semplicemente un sentore, un sapore. Spesso mi rendo conto soltanto a posteriori di cosa ho fatto. Per esempio, il repertorio di Ghost Horse mi ricorda molto la foresta, la giungla, la palude, nonostante volessi scrivere qualcosa di più tecnologico (fatico a descrivere con parole quello che vorrei dire...). Ora quando la sento o la suono penso a questi due mondi che si incontrano, alla lotta e alla forza enormemente superiore della natura; mi evoca la riappropriazione da parte della natura di luoghi artificiali, edificati e poi abbandonati: strade, città, parcheggi vuoti dove il filo d'erba rinasce nelle crepe del asfalto e gli alberi crescono dentro i palazzi. Una cosa, questa, che non mi ero prefigurato, ma che mi appare ascoltando le cose che sono venute fuori. Perché è ascoltando che capisco quel che abbiamo fatto, e questo vale anche per Hobby Horse ovviamente.

AAJ: È interessante, perché in certo modo chiudi un cerchio che avevi aperto dichiarando di essere stato inizialmente ispirato da Garbarek e Wheeler, due musicisti che almeno in parte legano il pensiero musicale alla natura: alla fine, anche se le cose che metti in scena sono piuttosto diverse dalle loro, questo elemento comune rimane. Puoi dirci qualcosa del quartetto Dan Kinzelman's Ghost?

DK: Si tratta di una formazione sempre attiva, con la quale quattro anni fa abbiamo realizzato il disco Stonebreaker e che quest'estate avrà di nuovo occasione di suonare in alcune date. È un progetto molto particolare, che ha avuto anche delle buone recensioni del disco, ma che è importante vedere dal vivo: prevede infatti alcune scelte decisamente estreme, che hanno fatto saltare almeno metà delle date che ci erano state proposte. E questo perché per me è molto importante che quel progetto rimanga "puro" e collegato al concetto che lo fonda. Ma perché ciò avvenga sono necessarie condizioni precise dell'ambiente in cui avviene il concerto, che è abbastanza raro poter soddisfare.

AAJ: Puoi spiegare il concetto e le condizioni di cui parli?

DK: È come se fosse una specie di rito: noi suoniamo in cerchio attorno a un tavolo su cui ci sono delle percussioni e il pubblico ci circonda. Non si tratta in realtà di una cosa nuova, anche se per noi che ci siamo dentro lo è stata, ma il concetto è quello di abolire la barriera tra musicisti e pubblico, platea e palcoscenico. Il pubblico non vede in faccia tutti i musicisti, mentre questi ultimi non vedono tutto il pubblico; gli spettatori interagiscono molto più del solito con chi suona, perché ciascuno vede bene il gruppo e gli è molto vicino, ma anche con il resto del pubblico, perché vede la parte di spettatori seduti dall'altra parte. Quindi tutti sono tanto osservatori, quanto osservati, e così i ruoli si confondono, si perde qualche certezza e questa insicurezza mette tutti in grado di recepire meglio quello che avviene nella musica. Inoltre, per progetto ma anche per la situazione, è una cosa molto collettiva, con pochi assoli, e che a causa di tutte queste sue caratteristiche deve essere intensa ma breve, oltre a richiedere uno spazio particolare. Secondo me non è di difficile fruizione, però non è neppure un concerto che si possa fare dappertutto. Date queste condizioni, è uno spettacolo molto forte, molto coinvolgente, come mi ha confermato chi è stato presente. Per musicisti e pubblico vuole essere qualcosa che va oltre il concetto di concerto e diventa qualcosa in più: un'esperienza da vivere.

AAJ: Mi pare che sia un altro esempio emblematico di quel concetto di musica creativa che emergeva parlando di Hobby Horse, ma anche della tua esperienza con Ninarello: musica che vai a scoprire mentre la fai e perciò non isolabile dalla complessità di quell'esperienza che la produce.

DK: Infatti, e ne sono sempre più consapevole via via che approfondisco questo tipo di esperienze. Che poi mi fanno capire meglio anche il perché dei miei gusti musicali. Per esempio, recentemente ho assistito al concerto di Big Satan di Tim Berne e non so quanto tempo fosse che non mi emozionavo in quel modo. Ma questo non perché io sia un appassionato di quel tipo di composizioni, né per la (ovvia) stima per quei musicisti, ma perché l'intensità che trasmettevano suonando era qualcosa a cui giungevano attraverso un percorso: era una cosa reale, non un'esibizione o una rappresentazione. Era qualcosa che succedeva lì e poteva succedere solo in quel momento perché c'erano loro e c'eravamo noi, il pubblico. Ecco, si tratta di qualcosa alla quale cerco sempre di avvicinarmi sia quando suono, sia quando faccio cose in campi un po' diversi qual è quello della musica. E certo ci provo necessariamente senza prendere a modello né Berne, né nessun altro, perché se lo facessi verrebbe immediatamente meno ciò che vado cercando: realizzare un'esperienza reale, non evocare o simulare qualcosa di prefigurato.

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