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Umbria Jazz Winter 2014

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Umbria Jazz Winter 22
Orvieto -27.12.2014-01.01.2015

"Fabrizio Bosso, Danilo Rea, Paolo Fresu... Anat Cohen, Chris Potter, Joe Lovano... vi aspettano a Orvieto per Umbria Jazz Winter." Più o meno di questo tenore era lo spot pubblicitario trasmesso per tutto dicembre sulle stazioni radio della RAI, uno dei media partner del festival; i nomi dei protagonisti italiani erano comunque anteposti a quelli degli americani. Questo non solo la dice lunga sul successo raggiunto da certi jazzisti di casa nostra e sul fatto che su di loro si punta per richiamare la curiosità del pubblico trasversale del jazz, ma indirettamente viene anche sottolineato il ruolo che nei decenni Umbria Jazz ha avuto nel consacrare quei rappresentanti della "nuova linea italiana nel jazz."
Partiamo dunque da loro per dare un sintetico resoconto di cosa è capitato in quella settimana orvietana a cavallo di Capodanno, battuta da un vento gelido, cominciando da una serie di duetti tutti ampiamente collaudati.

Nato qualche anno fa per iniziativa dell'Altoadige Jazz Festival (non è questa una delle meritorie funzioni dei festival?), il sodalizio fra Fabrizio Bosso e Luciano Biondini ha alternato brani veloci, basati su chase mozzafiato innervate da variazioni sorprendenti e impennate brucianti, e brani più lenti ("The Shadow of Your Smile," la "Ninna nanna" di Brahms...), relativamente più intimisti, ma sempre dal tono determinato e sostenuto, mai macerati in pensosi languori. Come dimostrato anche dal CD Face to Face (abeat Records), il duo ha in un repertorio congeniale, a volte dalle inflessioni popolaresche, in un interplay saldissimo e nella propositiva, irruenta inventiva i suoi punti di forza.

Anche nel duo che Bosso ha intrecciato con il pianista Julian Oliver Mazzariello i temi veloci sono stati saggiamente intercalati da ballad di danzante intimismo; ma in questa apparizione l'esigenza di una maggiore concisione nello sviluppo dei temi e di una comunicativa più diretta ha dato luogo ad un virtuosismo strumentale ancor più estroverso, coadiuvato da qualche effetto elettronico. Che si trattasse di original o di note hit, questo virtuosismo era applicato a una vasta e condivisa tradizione jazzistica, che dallo stride piano giunge fino al Soul attraversando Swing e Bop. Differenze forse non sostanziali fra i due concerti, ma era comunque percepibile una diversità di atteggiamento interpretativo dovuto in buona parte alle personalità e ai background culturali dei due partner del trombettista torinese.

L'incontro fra Giovanni Guidi e Gianluca Petrella, che hanno in preparazione un'incisione per la ECM, ha dimostrato come oggi i due giovani comprimari sappiano amministrare con grande accortezza e motivazione l'alternarsi delle situazioni, garantendo l'alta tensione della performance. Essi hanno in particolare evidenziato la capacità di compenetrare la componente poetica, sempre più consistente, ricca di affascinanti e avvolgenti linee melodiche, di macerazioni romantiche, di lirici e pensosi ripiegamenti, con l'aspetto più estroverso e percussivo, caratterizzato da decise idee melodico-ritmiche, fino a includere soluzioni eccentriche o disgregate.
Nell'impressione complessiva che ne è risultata sembrava che le atmosfere seducenti e speziate di Ellington si saldassero in modo naturale con l'avanguardia europea meglio strutturata, quella per esempio di Albert Mangelsdorff, Alexander von Schlippenbach e Connie Bauer, per citare solo pianisti e trombonisti tedeschi.

Il concerto del duo Paolo FresuOmar Sosa, forse meno esaltante di altre memorabili apparizioni del passato, è riuscito in ogni caso a essere coinvolgente, stimolando anzi un'interpretazione soggettiva e metaforica del loro dialogo. Sembrava cioè di assistere alla traduzione in una materia sonora evocativa e incantata del rapporto sereno e positivo di un uomo idealizzato con la natura e con la complessità della propria storia. Semmai i momenti tematici e sonori più movimentati, spesso quelli sottolineati dall'ausilio dell'elettronica, hanno fatto pensare alla faticosa riconquista di un equilibrio fra uomo e natura, alla ricerca di una concreta integrazione fra diverse identità culturali, dimenticando orgogliose proclamazioni di autonomia o superiorità. Entrambe le operazioni nell'utopica proiezione estetica del duo sono comunque approdate a buon fine.

Sulle tracce dell'origine del bandoneon (liturgica e tedesca) e dell'evoluzione subìta dallo strumento nel Nuovo Mondo, il duo fra il trombettista sardo e Daniele di Bonaventura ha svolto un viaggio ad ampio raggio, toccando episodi significativi della tradizione popolare europea e sudamericana, includendo anche propri original estremamente suggestivi e impegnati: il "Sanctus" del badoneonista marchigiano e il tema scritto da Fresu per l'ultimo film di Ermanno Olmi sulla Grande Guerra. Fra l'altro molti dei brani in repertorio faranno parte del loro prossimo CD, In maggiore, che uscirà per la ECM in primavera. La prevalente matrice popolare, pur mantenendo un tono colloquiale e danzante, ha tuttavia subìto una marcata decantazione, quasi una sublimazione, assumendo sfumature colte e mistiche, sorrette da una consapevolezza talvolta malinconica e assorta.

Ben più elevate la gradazione jazzistica e la componente improvvisativa, nonostante la trasversalità del repertorio, del terzo duetto affrontato a Orvieto da Fresu: quello non inedito, ma un po' meno battuto, con Danilo Rea. Aperto da "Bye Bye Blackbird," il concerto ha incluso una versione scandita e dal deciso sapore gospel de "Il pescatore" di De André, un "Everything Happens to Me" di vibrante lirismo, l'aria händeliana "Lascia ch'io pianga," giustamente austera, un asciutto e scattante "Straight, No Chaser" di Monk, un breve "E se domani" di perentoria determinazione... E così via: insomma le varie sfumature di un approccio espressivo vigoroso, di una poesia interpretativa mai evasiva o troppo sdolcinata, liberamente modulata ma per lo più consonante con lo spirito dei vari autori omaggiati.

Il pianista romano era presente anche nell'apparizione dei Doctor 3 al fianco di Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra; i tre hanno infatti ripreso nel 2014 quel rapporto artistico che avevano deciso di interrompere nel 2007. Non so se si tratti solo di una mia impressione o piuttosto di una realtà in qualche misura oggettiva, ma mi pare che la loro esibizione abbia palesato un modo di sviluppare i temi, una conduzione dinamica e una presenza sonora più decise e dirette, meno soft e insinuanti di quelle che contraddistinguevano il primo periodo del gruppo.
Invariati sono risultati invece l'interplay fra i tre comprimari, sempre empatico, e la predilezione per un repertorio zigzagante fra vari brani più o meno recenti e rappresentativi del pop, senza dimenticare la rivisitazione di qualche standard del jazz.

Un altro tema che ha caratterizzato questa edizione di Umbria Jazz Winter è stato l'omaggio, più che doveroso, partecipato e non di maniera, tributato a due jazzisti recentemente scomparsi.
Profondamente sentito da tutti, musicisti, addetti ai lavori e pubblico, è risultato il ricordo di Renato Sellani. Come in tante passate edizioni, il pianista era previsto in programma a Orvieto anche quest'anno, ma purtroppo se ne è andato prima, in punta di piedi da par suo, la notte fra il 31 ottobre e l'1 novembre. La commemorazione è stata affidata ad un trio formato da tre dei suoi partner e amici più fidati: al piano il suo "figlioccio" Danilo Rea, al contrabbasso Massimo Moriconi, che negli ultimi anni il pianista definiva "il bastone della mia vecchiaia," alla batteria Tullio De Piscopo, suo compagno di tanti ingaggi negli anni Settanta e Ottanta.
Ne è risultato un trio equilibrato, senza un vero leader, in cui ognuno dei tre strumentisti ha dato un contributo fondamentale nell'affrontare un repertorio di sempreverdi del jazz e della canzone italiana, dandone un'interpretazione classicamente jazzistica, carica di vitalità e di swing, lontana da nostalgie e sentimentalismi eccessivi, se non nel delicatissimo incipit di "Resta cu 'mme" proposto fra i bis.

Alla memoria di Charlie Haden, un altro dei grandi recentemente scomparsi, è stata dedicata l'apparizione della Rebel Band di Giovanni Guidi diretta da Dan Kinzelman, responsabile anche degli arrangiamenti. Dopo un brano d'assaggio, il clima ha cominciato a surriscaldarsi con l'entrata in scena dell'ospite Gianluca Petrella, il cui contributo è stato basilare in tutta l'esibizione, e con la poderosa, coinvolgente orchestrazione di "Wounded Knee," brano di Guidi. Un assolo hadeniano di Joe Rehmer ha introdotto l'altrettanto motorio e ineludibile riff di "Mra," uno dei brani più incisivi di Chris McGregor, autore certo non dimenticato dal pianista di Foligno.
Si è proceduto con grande determinazione fra duetti simbiotici, robusti sprazzi solistici, collettivi compatti e articolati, tese progressioni e momenti di decantazione. Come nelle prove migliori la formazione di Guidi ha confermato di saper cucinare ingredienti antichi e autentici con un'energia, una creatività e una motivazione nuove, ottenendo sapori forti e ben assortiti.

A Orvieto un terzo omaggio è stato tributato da parte del gruppo Quintorigo a Frank Zappa, uno dei maestri del passato più rivisitati, ma anche più difficili da affrontare in modo originale e convincente. Fra le molte esperienze italiane tentate in tal senso nell'ultimo ventennio, in concerto o su disco, il progetto messo in piedi dalla band romagnola, con l'indispensabile collaborazione di Roberto Gatto alla batteria, mi è sembrato forse il più riuscito. Alla perentoria precisione della conduzione ritmica hanno fatto riscontro l'impasto sonoro gonfio, visionario, deformato dei tre archi amplificati (violino, violoncello e contrabbasso), la voce scandita e bluesy delle ance di Valentino Bianchi, nonché la grana vocale scabra, teatrale, declamatoria, decisamente "nera" di Moris Pradella.
Come le precedenti operazioni incentrate su Charles Mingus e Jimi Hendrix, questo lavoro zappiano dimostra la propensione e la capacità dei Quintorigo di rivisitare la musica di grandi esponenti della storia del jazz e del rock in modo fondamentalmente onesto e allo stesso tempo intelligente e creativo.

Le peculiari qualità e la fortuna di pubblico dell'attuale jazz italiano sono emerse in evidenza soprattutto se confrontate con la diversa impostazione culturale, stilistica e comunicativa della maggior parte delle proposte americane invitate a Orvieto: Patrick Williams & The Blues Express, The Storyville Centennial Project di Evan Christopher-Don Vappie... soprattutto Jon Batiste and Stay Human e Davell Crawford "The Prince of New Orleans." La musica di queste formazioni, dirette da leader giovani e tutti provenienti da New Orleans, è tesa a rinverdire la tradizione della città del Delta, mescolando in varie proporzioni e con idee nuove le cadenze del Country, del Blues e del R&B, del Dixieland, del Gospel, del Soul... perfino di quel romanticismo pianistico europeo che dalla fine dell'Ottocento fu di nutrimento anche per i pianisti nero-americani che intendevano intraprendere la professione musicale.

I concerti orvietani hanno esposto proposte diversificate, dalle tinte decise e festose, finalizzate non esclusivamente ad uno spettacolo rituale e al coinvolgimento del pubblico, per altro con immancabili risultati, ma anche ad una manifestazione religiosa e culturale innervata da grande consapevolezza e radicamento nel proprio patrimonio storico.
Una sintesi di questa benefica commistione fra sacro e profano, fra autenticità a volte quasi filologica e creatività eccentrica e stralunata, fra coesione collettiva e protagonismo solistico la si è potuta avere nel concerto, a tratti quasi serioso, del duo pianistico Jonathan Batiste—Davel Crawford, che ha riservato notevoli sorprese. A conferma del fatto che per questi giovani esponenti di New Orleans sia inevitabile vivere il presente con un inestirpabile radicamento nel passato, dando corpo a un rigenerato sincretismo culturale, è bastata l'interpretazione bluesy, reiterata e sontuosamente tornita del beatlesiano "Let It Be," eseguito a conclusione del concerto.

Ma, com'era prevedibile, la punta di diamante dal punto di vista jazzistico di Umbria Jazz Winter 22 è risultata la produzione esclusiva che, per celebrare i cinquant'anni dall'uscita di A Love Supreme, gli organizzatori hanno portato sul palco per cinque volte in orari e luoghi diversi (il Teatro Mancinelli e la sala dei Quattrocento a Palazzo del Popolo). Tenendo conto che del capolavoro coltraniano ci fu anche una versione per due tenori (lo stesso Trane affiancato da Archie Shepp), sono stati coinvolti Joe Lovano e Chris Potter perché si misurassero con questo impegnativo pezzo di storia.
Nell'impossibilità di replicare l'inarrivabile misticismo dell'autore, l'incontro si è più opportunamente orientato a dare corpo a una classica e infuocata "tenor battle": rispettando i movimenti della suite e recuperando anche altri brani di Coltrane, si è potuto via via rodare l'affiatamento del gruppo e calibrare il confronto fra i due sassofonisti, dando quindi loro l'opportunità di esprimersi al meglio. Potter si è distinto per l'imprevedibile, infervorata mobilità del fraseggio, inanellando lunghe e movimentate sequenze, ma è parso un po' uniforme e impersonale nella sonorità. Al contrario Lovano ha espresso una maggiore varietà e consistenza del sound, modellandolo sulle evoluzioni del fraseggio e costruendo così un eloquio più coinvolgente e narrativo.
I due tenoristi erano degnamente sostenuti da un trio formato da Lawrence Fields al piano, Cecil McBee al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria; il loro contributo si è dimostrato coerente e all'altezza della situazione, con sortite solistiche di valore, soprattutto da parte del veterano McBee e del giovane Blake.

Foto di Roberto Cifarelli.

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