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Udin&Jazz 2014 - Ahead

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Udin&Jazz
Varie sedi
Udine e provincia
01-04.07.2014

Come ogni anno Udin&Jazz, ormai giunto alla ventiquattresima edizione, era spalmato su un periodo piuttosto lungo (l'anteprima con Pat Metheny era prevista il 14 giugno ma non è andata in scena per il maltempo) e si è esteso fino a raggiungere altre cittadine friulane, affiancando musicisti locali a riconosciute star internazionali e proponendo generi anche molto diversi tra loro. La parte più intensa del festival—quest'anno titolato "Ahead," per guardare avanti a dispetto delle difficoltà che attanagliano la società e gli artisti—si è avviata martedì 1 luglio, quando sono andati in scena il quartetto di Dario Carnovale e il trio di Jack DeJohnette.

Carnovale è un interessante pianista palermitano che da anni si è trasferito in Friuli (lo scorso anno lo avevamo apprezzato nel trio di Paolino Dalla Porta). Dopo alcuni progetti in trio e un recente piano solo per l'etichetta giapponese Albòre Jazz, ha adesso costituito il quartetto proposto al festival e con il quale ha appena pubblicato il suo ultimo CD, Emersion (per la Auand). Nella formazione lo affiancano Simone Serafini al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, mentre la voce principale è quella di Francesco Bearzatti, esclusivamente impegnato al tenore. E proprio per Bearzatti il pianista e compositore ha pensato la suite che dava vita a oltre metà concerto, cadenzata su tre parti, titolata appunto Emersion e dedicata al grande tenorsassofonista Dewey Redman.

Il concerto, pomeridiano al Palamostre, ha proposto musica molto intensa, con bei temi e strutture complesse, di fatto tutta incentrata sulla dinamica: costanti infatti i cambi di tempo e di intensità del suono, sui quali la ritmica e il piano tessevano pregevoli e raffinate trame, mentre Bearzatti si produceva in lunghi, intensi ed espressivi assolo, spesso su figure lungamente reiterate. Il lavoro del sassofonista, oltreché assai apprezzabile, è parso di particolare interesse perché più vario negli stilemi rispetto a quanto ci ha ultimamente abituato: infatti, pur conservando la nota ed entusiasmante potenza espressiva, in questo caso Bearzatti ha inserito riferimenti alla storia dello strumento che, passando per Redman, andavano da John Coltrane a Sonny Rollins, fino ad alcune suggestioni della scuola sassofonistica francese odierna, fatta di citazioni africane e assoli torrenziali.

Gran bel progetto, che meriterebbe di essere di essere riproposto nel resto d'Italia, così come attenzione meriterebbe il suo autore, Dario Carnovale.

Un'attenzione che invece si tende a dare—a giudicare dagli esiti, non molto sensatamente—a musicisti come quelli andati in scena al Palamostre nel concerto serale: DeJohnette alla batteria (e al piano in un brano), Ravi Coltrane al tenore e al soprano e Matt Garrison al basso elettrico. Il contrasto con lo spettacolo precedente è infatti parso stridente: privo di idee ed esageratamente (e crescentemente nel suo procedere) incentrato sulla figura del leader, il concerto ha visto Coltrane e Garrison assai poco comunicativi, impegnanti in assoli cerebrali e sottotono, con il primo che al soprano riproponeva in modo persino irritante il modello shorteriano, mentre DeJohnette, pur con alcuni spunti poliritmici interessanti, ha finito soprattutto per "picchiare duro." Cosicché dopo due o tre brani la noia l'ha fatta da padrona. Dispiace, vista la caratura dei musicisti, e viene da chiedersi se sia un caso o ci sia dell'intenzione—o, meglio, della scarsa cura dovuta ad eccesso di fama.

Il mercoledì il festival si è preso una semipausa, spostandosi a Palmanova con un solo concerto: quello della cantante Barbara Errico dedicato a Lelio Luttazzi, triestino e perciò da queste parti particolarmente caro a un pubblico assai ampio. Che, infatti, ha riempito la sala del Teatro Modena.

Il progetto Sentimentale, del quale veniva anche presentato l'omonimo disco, è molto vario, includendo anche brani non di Luttazzi ma a lui cari, vari ospiti e arrangiamenti diversi—ad esempio due brani con la presenza del quartetto d'archi Pezzé. Tuttavia è parso un po' ai confini del jazz, presente—quando c'era—in modo assai tradizionale e controllato. Nulla di male, perché anche in Luttazzi il jazz era una passione e un riferimento, non già l'anima stessa della sua multiforme figura artistica. Il pubblico, perlopiù diverso da quello degli altri concerti, ha comunque molto apprezzato uno spettacolo, nel suo genere, fatto con genuinità e competenza.

Il concerto pomeridiano del mercoledì si è finalmente svolto all'aperto, nella suggestiva Corte Morpurgo, e ha visto di scena il quartetto di Paolo Botti, con Tito Mangialajo Rantzer al contrabbasso (clicca qui per leggere la recensione del suo CD per solo contrabbasso Dal basso in alto), Filippo Monico alla batteria e Dimitri Espinoza al sax tenore (clicca qui per leggere una sua recente intervista). Il programma girava attorno al progetto del loro apprezzato album Slight Imperfection (Caligola 2013), sintesi intrisa di blues tra jazz delle origini e avanguardie, che dal vivo ha particolarmente valorizzato da un lato l'ispirazione visionaria di Espinoza e Monico, dall'altro il suono netto e corposo di Mangialajo, elementi che hanno fatto da cornice al contrasto sonoro messo in scena dal leader, che ha affiancato alla viola il banjo, il dobro e il suggestivo violino di Stroh—strumento quasi dimenticato che al posto della cassa ha un cono metallico da tromba. Coinvolgente e suggestivo, originalissimo ma anche di immediata fruizione, il concerto si è concluso con uno splendido bis di Botti per solo banjo.

Diverso ma non meno apprezzabile il concerto serale, sullo splendido piazzale del Castello, che vedeva di scena l'European Quartet di Peter Erskine, con Rita Marcotulli al pianoforte e Palle Danielsson al contrabbasso. I tre, che si conoscono da tantissimi anni e hanno anche registrato un disco assieme nel 2006, hanno ampiamente mostrato la loro intesa nel corso di uno spettacolo che ha messo in vetrina un trio moderno, dalle tinte cangianti, ma caratterizzato dalla virtuosa congiunzione di un sound nordeuropeo con la sensibilità melodica mediterranea—cosa che la Marcotulli sa fare benissimo da oltre vent'anni, cioè dal suo splendido album "nordico" Night Caller.

Il programma prevedeva una prevalenza di brani della pianista italiana—quattro, dall'iniziale "La strada invisibile" a "Out of Habits," già registrato con Danielsson in un suo album di vent'anni fa, Contra Post—più un paio di del contrabbassista e tre di Erskine. Per una performance di alto livello che in alcuni momenti—per esempio nei brani della Marcotulli, ove il sincretismo funzionava meglio—ha rasentato la perfezione. Su tutti ha particolarmente affascinato "Worth the Wait" di Erskine, nel corso del quale i tre si sono lungamente prodotti in un divertito scambio reciproco, ricco di invenzioni e di sensibilità.

Il venerdì entrambi i concerti erano in programma in serata, uno dopo l'altro al Castello. Il primo era però più di un concerto: si trattava di uno spettacolo multimediale, Ornithology, pensato e progettato da Flavio Massarutto, che prevedeva la proiezione di un video con le tavole di un fumetto di Massimiliano Gosparini accompagnato dalla musica del quintetto di Enrico Terragnoli, appositamente pensata per la storia illustrata dalle immagini. Il progetto, che dovrebbe avere a breve una pubblicazione, ha funzionato ottimamente, per merito tanto delle immagini, quanto della musica.

Per quanto riguarda le prime, hanno per l'ennesima volta mostrato l'abilità e l'originalità di Gosparini (visto all'opera qui a Udine altre due volte, sempre in coppia di Massarutto in veste di sceneggiatore), il cui tratto semplice e onirico esaltava gli aspetti visionari di una storia che aveva tuttavia un nucleo molto concreto e toccante. Per quel che concerne la musica, invece, il lavoro di Terragnoli si basava su una trama elettrica di ispirazione rock, di intensità dinamica cangiante ma con momenti di grande forza e coinvolgimento, sostenuta dalla chitarra del leader, dal basso di Piero Cescut e dalla batteria di Zeno De Rossi. Su di essa si inserivano la viola, il banjo e il dobro di Paolo Botti, nonché l'armonica di Gianni Massarutto, ai quali erano affidati due compiti essenziali: da un lato innervare la musica di un robusto contenuto blues, dall'altro creare l'atipica e originale tensione di suoni che costituiva uno dei tratti distintivi del progetto. Gli esiti sono sembrati più che eccellenti, sia in rapporto alla parte visiva, sia dal punto di vista esclusivamente musicale: intensità e coinvolgimento non scevri da varietà dei dettagli, spazi per i solisti entro una musica tutto sommato collettiva, libertà da schemi standardizzati unita a leggibilità ed espressività, insomma un progetto molto bello di cui attendiamo sia la documentazione registrata (e disegnata), sia la replica su altri palcoscenici.

A seguire—di fronte a una platea non affollatissima a causa della coincidenza calcistica... —è andata in scena un'altra formazione italiana, completamente diversa ma non meno interessante e ricca di qualità: il quartetto Inner Roads di Enzo Favata, con Enrico Zanisi al pianoforte, Danilo Gallo al contrabbasso e U.T. Gandhi alla batteria. Un gruppo sostanzialmente paritetico, con una cifra stilistica, cara a Favata, che unisce riferimenti alla tradizione del jazz con quelli della musica popolare, stavolta però sottotraccia, o meglio interiorizzati nelle composizioni del musicista sardo. Gallo (autore di un paio di notevolissimi assoli) e Gandhi sono sembrati in gran forma e fondamentali per il corpo del quartetto, Favata—cui è mancato il clarone—è stato autore di personalissime improvvisazioni al sax tenore e—sopratutto—al soprano, ma forse su tutti è spiccato il giovanissimo e tuttavia già apprezzato pianista, protagonista con fraseggi e armonizzazioni originalissimi, dai ricchi riferimenti specie europei ma sempre personali, anche quando in appoggio alla voce dei sax. Il quartetto ha svariato su brani ora più intensi ed espressivi, ora più melodici e malinconici, sempre con eccellenti esiti, che hanno toccato forse i vertici in "Beyond," una complessa composizione di Favata, e sulla reinterpretazione de "La pasionaria," storico brano di Charlie Haden non certo facile da rendere senza cadere nell'agiografico. Anche di questo quartetto aspettiamo la documentazione registrata, che pare non tarderà troppo ad essere presentata.

Udin&Jazz è continuato poi per altri tre giorni, proponendo tra l'altro il duo Brad MehldauMark Guiliana, il The Crimson ProjeKCt (reunion dei mitici King Crimson) e i piani solo di Angelo Comisso e Claudio Cojaniz. Ma già dalla parte cui abbiamo assistito e della quale abbiamo parlato si può ritenere che l'obiettivo di portare nel capoluogo friulano ottime e poco frequentate proposte—vale a dire di promuovere in loco quella parte del jazz che non scivola nel popa cagione della sua riduzione a divismo massmediatico (come purtroppo avviene in tanti, troppo festival della penisola)—sia anche per quest'anno stato raggiunto.

Foto
Luca D'Agostino (Phocus Agency).

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