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Südtirol Jazz Festival 2015

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Bolzano e provincia
26.06-05.07.2015

Oltre ottanta concerti si sono svolti in cinquantasette diversi spazi distribuiti in ventidue comuni della provincia di Bolzano e non solo, ospitando quasi duecento musicisti. Queste cifre sintetizzano l'ottica di una programmazione che ha ribadito la sua vocazione ad un'ampia diffusione territoriale, facendo circuitare molti dei gruppi invitati, favorendo l'integrazione di musicisti residenziali in diverse formazioni e progetti, molti dei quali produzioni originali del festival.
Come era già avvenuto lo scorso anno, altra scelta determinante di questa trentatreesima edizione del festival è stata quella di puntare i riflettori sulla giovane realtà jazzistica di una sola nazione europea, invitando non i personaggi già consacrati, ma nomi per lo più sconosciuti che si stanno affacciando sul palcoscenico internazionale con idee fresche, meritevoli di essere conosciute. Se l'anno passato si era privilegiata la Francia, facendoci scoprire nomi e proposte interessanti, quest'anno si è rivolto lo sguardo oltre Manica, selezionando gruppi e solisti operanti in Inghilterra altrettanto degni di essere ascoltati. Ciò non toglie che si sia assistito anche a concerti notevoli di gruppi provenienti da altre nazioni europee; quasi del tutto assenti invece gli esponenti del jazz americano ed italiano.

Com'è avvenuto anche nelle passate edizioni, un esperto e fanatico della montagna qual è il direttore artistico Klaus Widmann non ha voluto rinunciare a un evento in alta quota, combinando la forza della musica con quella della natura. Nelle vicinanze del Rifugio Comici sotto la parete Nord del Sasso Lungo, alla presenza di un pubblico folto e variegato convenuto appositamente, il trombettista tedesco Matthias Schriefl ha coordinato "Singing Rocks," un ambizioso progetto che ha affiancato le voci maschili del coro MGV di Bressanone agli interventi strumentali di otto dei jazzisti presenti al festival.
Canti di diverse tradizioni, alpine o tedesche, hanno visto una rivisitazione improntata a coraggiosi impasti armonici, a vivaci cadenze ritmiche e a un interplay polifonico memore del jazz delle origini. Contemporaneamente sulla verticale parete rocciosa, alle spalle dei musicisti, esperti scalatori intrecciavano una spericolata danza acrobatica, conferendo allo spettacolo un supplemento di carica adrenalinica.

Lo stesso Schriefl, uno dei beniamini del festival altoatesino fin dal 2011, era il responsabile del primo e forse unico incontro del "G7 Great European Jazz Conference." Sulle sponde della piscina del Parkhotel Lurin, l'esperimento ha fatto dialogare, sotto il comune codice dell'interplay jazzistico, sette musicisti di altrettanti Paesi europei: oltre al funambolico trombettista tedesco, il batterista svizzero David Maier, il tenorista finlandese Pauli Lyytinen, il chitarrista islandese Sigurdur Rögnvaldsson e le tre vocalist Tamara Lukasheva, Lauren Kinsella e Leila Martial, provenienti rispettivamente da Ucraina, Irlanda e Francia.
Nei loro original, colorati da varie inflessioni etniche, si è assistito a una democratica suddivisione delle responsabilità e dei ruoli, a una sequenza di mirati interventi solistici. Fra le tre cantanti, diverse fra loro per formazione e impostazione vocale, si è distinta la Martial per la vibrante espressività delle sue modulazioni.

In Die Glorreichen Sieben, un quartetto già rodato da anni di esperienza e da un paio di mirate edizioni discografiche, il chitarrista finlandese Kalle Kalima collabora con i tedeschi Flo Gotte, al basso elettrico, e i due batteristi Christian Lillinger e Alfred Vogel. Nella loro apparizione bolzanina hanno rivisitato brani di Neil Young e dei Pink Flyd, rimanendo vicini allo spirito del rock anziché rimodellarli su una pronuncia jazzistica o su una più attuale, avanzata e trasversale ricerca strutturale. Sta di fatto che la loro interpretazione ha funzionato per i tesi crescendo, per gli spunti dei singoli e soprattutto per gli impasti ben amalgamati fra le escursioni lancinanti della chitarra e l'avvolgente, alonato contesto fornito dal basso. Il tutto corroborato dal formicolante propellente ritmico creato dalle batterie, anch'esse complementari, di Lillinger e Vogel.

Ancora rock duro, aggressivo, senza compromessi con Three Trapped Tigers: tre giovani tigri intrappolate che rispondono ai nomi di Matt Calvert, basso elettrico, Tom Rogerson, tastiere, e Adam Betts, batteria. Per descrivere la loro musica monolitica i giornali inglesi hanno scomodato i nomi di Captain Beefheart, Weather Report, King Crimson, Soft Machine, Frank Zappa, The Police...: modelli spesso improbabili, a volte plausibili o quasi imprescindibili, ma in verità nell'atteggiamento dei tre giovani inglesi prevale una consapevolezza postmoderna che li porta a un concentrato di energia, a una lapidaria compressione della narrazione. Nel loro concerto in Piazza Walther, i sontuosi impasti fra basso e tastiere sono stati sostenuti da un drumming granitico con esiti di lucida e spietata incisività, di una coerenza fin troppo uniforme.

Nella prima serata all'esterno del Museion, la galleria d'arte moderna e contemporanea di Bolzano, ancora un trio di matrice rock, originario di Leeds, ancora un nome desunto dal mondo delle bestie feroci. Se le tre tigri avevano sfoderato artigli graffianti, i tre squali di Shiver (parola che appunto indica un branco di squali) hanno mostrato denti affilati come lame di Toledo. In questo caso l'ampia gamma sonora e tecnologica attivata dal leader, il chitarrista Chris Sharkey, e il suo più possibilista approccio estetico hanno concepito brani lunghi, articolati in fasi preparatorie e sviluppi visionari.

D'altra parte sembra proprio che in Inghilterra siano di moda i riferimenti all'immaginario animalesco più comune: dalle tigri e gli squali alla pigra cadenza dell'orso polare. Il quintetto londinese Polar Bear, fondato all'inizio del secolo dal batterista Sebastian Rochford, ha proposto una musica tenuta sempre sotto controllo, caratterizzata da campi lunghi, un respiro rilassato e lente progressioni, che hanno permesso di transitare da una situazione all'altra senza discontinuità, senza drammi.
Con sensibilità quasi New Age la batteria del leader e i computer di John Leafcutter si sono integrati per creare minute trame ritmiche, mentre i due sax tenori complementari di Mark Lockheart e Pete Wareham hanno tracciato distese linee melodiche, controcanti e improvvisazioni individuali con voci afone e trattenute. La contrabbassista altoatesina Ruth Goller ha sostituito degnamente il titolare indisposto. Certo la musica di questo titolato gruppo è risultata una tipica espressione dell'oggi, di un'attualità vissuta con consapevolezza e distaccato autocontrollo, ma anche con un velo di depressione e ben poco eroismo.

Tutt'altro che depresso, invece, si è rivelato l'approccio della Flat Earth Society, larga formazione belga per la quale c'era molta attesa. I quattordici elementi non più giovani, diretti dal clarinettista Peter Vermeersch, fondatore del gruppo, hanno confezionato una performance originale e sostanziosa, carica di verve. Certo la loro musica sarebbe impensabile se alle loro spalle non ci fossero stati il Willem Breuker Kollektief, il Waterland Ensemble di Loek Dikker, la Vienna Art Orchestra e altre formazioni gloriose e ormai lontane nel tempo, ma di quei modelli la FES rappresenta un'evoluzione elegante e puntigliosa, convinta e convincente, fitta di citazioni, senza cadere mai nell'estroversione più banale o in un calligrafismo concettoso.
Le ampie, elastiche orchestrazioni, ora pompose, ora inframmezzate da brevi digressioni eccentriche, hanno dato corpo a situazioni molto diversificate ma tenute miracolosamente in equilibrio: idee grottesche o affermative, surreali o ironiche hanno lasciato spazio a mirati interventi solistici di ottimo livello.

Bisogna sottolineare inoltre la serie di concerti pomeridiani "Keys to the Exibition," dedicati a pianisti emergenti e tenutisi all'interno della mostra "Design is a state of mind," organizzata da Martino Gamper all'ultimo piano del Museion. Le tastiere di Dan Nicholls e la voce di Lauren Kinsella sono state ampiamente filtrate e aiutate dall'elettronica; nonostante ciò dal loro incontro sono scaturite delicatezze incantatorie, diafane evanescenze: un minimalismo e un intimismo debitori verso il senso melodico e poetico di certa tradizione popolare tipicamente nordica. Fra l'altro la dimensione privata e quotidiana di molti momenti del concerto è risultata in singolare sintonia con l'atmosfera del contesto, cioè con l'oggettistica della più svariata provenienza che il designer Gamper ha selezionato per l'esposizione.

All'interno di questo ciclo di concerti, di ben altra concentrazione e concretezza fisica si è rivelata la solo performance, del tutto acustica, del trentottenne Matthew Bourne, improvvisatore che non disdegna di misurarsi nell'ambito della musica contemporanea, collaborando con la London Sinfonietta o il Bath International Festival. Bourne ha ingaggiato un confronto problematico col pianoforte, sondando tutte le potenzialità, in particolare le risonanze, dello strumento e dell'ambiente.
La gerarchia del suo tocco pianistico, ora selettivo -perentorio e martellante o meditato—ora di una vorticosa continuità rapsodica, ha disegnato brani fortemente caratterizzati sotto il profilo timbrico e dinamico, delimitando in alcune, appartate fasi una decantata e struggente qualità melodica. Un pianismo davvero personale e inventivo quello di Bourne, alla ricerca di un'essenzialità disadorna, di ben circoscritte sintesi espressive.

Fra i tanti altri gruppi che sarebbero da ricordare, esibitisi più volte in varie località della provincia, anche in situazioni insolite, è il caso di non trascurare il nonetto londinese Perhaps Contraption. Attivo dal 2011 sotto la guida del polistrumentista Christo Squier e dotato di un'opportuna quota rosa che non passa inosservata, il gruppo è qualcosa di più di una simpatica e rodatissima marching band. Le briose e complesse polifonie dei loro original attingono da svariate culture con uno spirito decisamente british; in particolare il frequente uso delle voci, mutuato dal cabaret e dal musical, viene aggiornato da una spregiudicatezza di stampo post-punk. Il tutto rigorosamente senza spartiti e con una sincronica attenzione per le variate coreografie.

Foto
G.Pichler

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