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Stefano Benini: tutti i colori del flauto jazz

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Dopo l'apporto pionieristico di Gino Marinacci, il flauto jazz in Italia ha stabilito un proprio status grazie a Nicola Stilo e Stefano Benini. In particolare quest'ultimo aggiunge all'attività artistica e didattica, quella di studioso del flauto jazz e della sua storia.

Di recente ha pubblicato il volume Il flauto jazz - La storia, i protagonisti, il repertorio, il metodo. In quest'intervista ci parla del libro e dei suoi progetti.

All About Jazz Italia: Da qualche mese hai pubblicato il volume Il Flauto Jazz in cui riprendi l'impostazione usata per un testo del 1992 sulla stesso tema. È una nuova edizione aggiornata o un'opera nuova?

Stefano Benini: È un'opera nuova. Il volume di quasi vent'anni fa trattava del flauto in generale mentre questo è specifico sul flauto jazz. Poi ci sono dei capitoli ex novo come quello sulle donne flautiste, sul flauto rock, sul flauto latin mentre quello sugli italiani è curato in maniera diversa. La storia è stata molto ampliata, decennio per decennio. Del resto sono passati quasi vent'anni e alcune cose nuove sono emerse grazie a della nuova documentazione. Nell'altro libro era stata messa una fotografia, quella di Alberto Socarras, considerata attendibile. Oggi s'è capito che non era giusta.

AAJ: Mi pare che oggi in Italia sia l'unico testo disponibile sull'argomento.

S.B.: A quanto mi risulta anche in Europa.

AAJ: Nel libro sono trascritti moltissimi esempi di assoli di flautisti, più un'introduzione al metodo e appunti di teoria: è un testo rivolto in particolare ai musicisti?

S.B.: Quando a vado a fare i seminari sul flauto le cose che mi chiedono sono tecniche e quindi l'idea di mettere questo capitoletto teorico è nata da quest'esigenza presente nei giovani studenti di flauto jazz. Il libro è comunque rivolto anche agli amanti del flauto e agli appassionati di jazz in generale, non solo ai musicisti o agli studiosi dello strumento.

AAJ: Quali sono gli argomenti che ti hanno impegnato di più?

S.B.: In primo luogo la ricerca storica, per riuscire a sistemare quegli aspetti ancora oscuri che esistevano nella storia del flauto jazz.

AAJ: Passiamo al tuo ruolo di musicista che per la prima volta sacrifica il flauto a favore del didjeridoo, in un disco che s'intitola, non a caso, Rough Energy. Come mai questa sceltà?

S.B.: In realtà è nata per caso. Me ne hanno regalato uno ed è stata una scoperta molto bella. Non l'avevo mai suonato e nel momento in cui ho cominciato è nato del feeling e mi ci sono buttato a capofitto.

AAJ: È completamente diverso dal flauto o c'è qualche affinità segreta?

S.B.: È completamente diverso nella struttura non c'è meccanica e non ci sono tasti ma tutto il lavoro di staccato, doppio staccato che si fa col flauto mi ha certo aiutato.

AAJ: Hai cercato ispirazione nelle cose etniche oppure lo suoni da una prospettiva moderna?

S.B.: Ho ascoltato anche lo strumento nella sua identità etnica ma io lo uso ovviamente da una prospettiva diversa. La tecnica tradizionale è tutta un'altra cosa. Gli aborigeni hanno una dizione diversa, usano la loro fonetica, la lingua in modo del tutto singolare e noi occidentali non riusciremmo mai ad ottenere i loro suoni. Poi c'è l'aspetto etnico: la loro musica è inserita in un contesto rituale, religioso che è unicamente loro. Io lo uso come strumento, cerco d'improvvisarci.

AAJ: Parliamo un po' di grandi flautisti jazz. Come vedi Roland Kirk?

S.B.: Beh, è stato uno dei massimi innovatori di flauto jazz, con un suono e una carica emotiva del tutto originali. Dal punto di vista tecnico forse non ha aggiunto molto ma è proprio dal punto di vista espressivo che è stato magistrale.

AAJ: Uno dei tuoi maestri è stato Sam Most, con cui hai anche inciso e suonato a lungo. Ci vuoi presentare la sua figura sia dal punto di vista musicale che da quello umano?

S.B.: Sam è una persona splendida che non ti fa assolutamente pesare la differenza che c'è tra te e lui di bravura. Perché lui è in grado di fare qualsiasi cosa col flauto. Sam suona anche il clarinetto e il sax e musicalmente è preparatissimo.

AAJ: Ti ha raccontato qualche aneddoto della sua vita?

S.B.: C'è quella storia molto simpatica di quando iniziava a sperimentare il suono soffiato: per non disturbare i vicini, si chiudeva dentro un armadio a muro.

AAJ: Tra gli altri grandi maestri del flauto jazz che hai conosciuto personalmente chi ricordi con particolare affetto?

S.B.: Herbie Mann sicuramente. Una persona intelligente che ha avuto anche il merito di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Lui suonava anche il sax e il clarinetto ma è passato al flauto perché ha capito che l'avrebbe portato in alto. Ricordo che mi ha detto: "Quando ho iniziato a suonare il flauto in America eravamo in tre. Nella graduatoria non potevo essere che il primo, il secondo o il terzo. Quando uscivo col sassofono nell'ambiente c'era gente come Lester Young, Coleman Hawkins e tanti altri migliori di me e non c'era proprio spazio...". Oltre alle indubbie qualità musicali è stato anche uno capace di proporsi, di trovare le giuste occasioni per emergere.

AAJ: Tra i grandi del jazz con chi ti sarebbe piaciuto suonare assieme?

S.B.: Dexter Gordon e Bill Evans sono quelli che mi hanno dato di più. Tra i flautisti sia Jeremy Steig che Herbie Mann hanno avuto il privilegio di suonare con Evans. Mann mi raccontò che era molto intimorito prima di registrare Nirvana. Nomi come Evans o Miles Davis sono mostri sacri non solo per noi. Mi raccontò con orgoglio che poco dopo l'incisione di Memphis Underground Miles Davis lo incontò e gli disse: "Ho nella mia macchina della buona musica. Ho il tuo disco".

AAJ: Torniamo a te. Qual è il disco che consideri più rappresentativo o più riuscito tra quelli che hai realizzato?

S.B.: Uno che mi piace è quello realizzato con Sam Most ed anche Fuori Servizio con Marcello Tonolo, Danilo Gallo e Roberto Facchinetti. In quest'ultimo ricordo d'aver inciso "Sentimentale" un brano di Claude Bolling dalla melodia bellissima. Ma anche il disco con il pianista Andrea Tarozzi in duo è riuscito bene e tutti mi fanno i complimenti, anche se non aveva la pretesa di dire niente di nuovo.

AAJ: Negli anni scorsi hai portato avanti una ricerca ai confini col jazz assieme al chitarrista Enrico Terragnoli e al percussionista Sbibu. La formazione si chiamava Tu Whit Tu Whoo Trio. Suonate ancora?

S.B.: Abbiamo dato un concerto un paio di mesi fa ed abbiamo intenzione di riprendere. In questi anni ognuno di noi ha fatto proprie esperienze e preso sonorità diverse. Io ho fatto pratica con vari flauti etnici di area balcanica ed ho sperimentato cose nuove.

AAJ: Progetti per il prossimo futuro?

S.B.: C'è l'attività didattica con i seminari che m'impegna molto. Mi piacerebbe però realizzare un disco in omaggio a Thomas Chapin, è stato un grande musicista e non va dimenticato. E portare avanti il progetto col didjeridoo...

Foto di Gino Robu (l'ultima)


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