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Young Jazz Festival

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Young Jazz Festival 14
Foligno, vari luoghi
17—25.05.2014

Spente le dieci candeline il Young Jazz Festival ha raggiunto una tappa significativa e benaugurale se si considerano i tempi che corrono. Come nelle passate edizioni, una delle scelte caratterizzanti è stata quella di costruire nel tempo iniziative estremamente importanti sotto il profilo umano e sociale, che hanno coinvolto, oltre ovviamente i giovani, anche anziani, bambini, disabili e stranieri della comunità folignate. In tale spirito rientrano l'esibizione della Liberorchestra e la messa in scena dello spettacolo Giezzisti 3, svoltesi nella prima parte della manifestazione.
Allo stesso tempo non sono mancati gli appuntamenti jazzistici di rilievo (fra i quali il Sao Paulo Underground), che si sono intensificati soprattutto nelle ultime tre giornate, dal 22 al 24 maggio, dando voce a nomi prevalentemente giovani, in gran parte italiani, e coinvolgendo vari spazi pubblici e privati.

Particolarmente attese le due presenze straniere. Nella musica del trio del chitarrista Jakob Bro, come è capitato spesso nell'approccio estetico di Bill Frisell, una narrazione pacata e distesa di alta qualità melodica si è stemperata in un incedere ritmico pigro e prudente, con esiti di distillata delicatezza. I due partner si sono dimostrati congeniali alla concezione del leader: se la batteria del veterano Jon Christensen è parsa fin troppo appartata, quasi rinunciataria, alternando lunghi silenzi e sporadici, secchi sussulti dinamici, la pulsazione del contrabbasso di Thomas Morgan è risultata invece continua e selettiva, costituendo l'alter ego complementare e dialogante del chitarrista scandinavo.

Forse non facile da decifrare ma d'indubbio impatto e piuttosto originale si è rivelata la performance del quintetto Overseas pilotato dal contrabbassista Eivind Opsvik, norvegese ma residente a New York dal 1998. Fortemente caratterizzato da circoscritte idee generatrici e conseguenti strutture, ogni brano ha oscillato fra sospese linee melodiche e una scandita radicalità minimal-hard-punk. Ben chiare sono risultate la funzione registica del contrabbassista, mai in evidenza come solista, la nitida scansione ritmica della batteria di Kenny Wollesen e le eccentriche sortite da guastatore di Brandon Seabrook, le cui lancinanti vampate chitarristiche hanno ricordato quelle di Arto Lindsay.
A differenza che nei documenti discografici, apparentemente più marginali, ma sempre funzionali ed efficaci, sono sembrati il ruolo del tenore di Tony Malaby, relegato a esporre brevi frasi di raccordo, e quello di Jacob Sacks, le cui tastiere hanno tramato soprattutto tappeti sonori. I brani comunque hanno sviluppato crescendo compatti e atmosfere d'ineludibile crudezza.

Come le due formazioni appena recensite, l'Enrico Rava New Quartet è stato presente anche al festival di Correggio, col quale il Young Jazz sembra aver consolidato opportune forme di collaborazione e di scambio. Il trombettista, motivato dalla giovane età dei suoi partner, ha sostenuto come sempre la sua leadership autorevole ma elastica ed ha proposto un repertorio in parte rinnovato, in cui i nuovi original non hanno rinunciato a quella vena sorniona e ironica, a quell'andamento dinamico dinoccolato tipici di suoi vecchi successi.
Pur nella sostanziale differenza delle visioni espressive e stilistiche, anche in questo agile quartetto, come nel trio di Bro e nell'Overseas di Opsvik, l'accoppiata chitarra—contrabbasso (in questo caso Frencesco Diodati e Gabriele Evangelista) si è qualificata come il fulcro caratterizzante della formazione. Evangelista, già da anni collaboratore di Rava, in questo contesto ha prodotto un pulsazione più ossessiva e incalzante, una sonorità (forse complice l'amplificazione) più dura, dai bagliori metallici, mentre la chitarra elettrica di Diodati ha saputo sviluppare interventi di grande efficacia, mai gratuitamente plateali. La funzione di accompagnamento del drumming di Enrico Morello è stata pertinente ma forse un po' troppo uniforme e classica, giocata costantemente sulla sonorità riverberante dei piatti e solo nei finali dei brani su accensioni dinamiche.

La conclusione di questa edizione del festival, all'Auditorium San Domenico, è stata a carico del duo Soupstar (Giovanni Guidi e Gianluca Petrella) che via via è stato attorniato da numerosi ospiti. Nei brani d'apertura, fra i quali un blues lento e languido dalle crude impennate, che ha ricordato molto "Goodbye Pork Pie Hat" di Charles Mingus, il collaudato duo ha raggiunto un'integrazione assolutamente unitaria fra densa e stentorea concretezza e poetico lirismo. È poi entrato in scena Davide Brutti, che con il suo sax contrabbasso ha inserito inflessioni umorali, sorprendentemente liquidi e leggiadri.
Il quintetto completato da Rava, Evangelista e Bernardo Guerra alla batteria ha invece introdotto accenti nostalgici e danzanti su un tema come "Quizás Quizás Quizás." La larga formazione del finale (comprendente praticamente tutti gli ottoni, le ance e le percussioni dei complessi invitati al festival) ha profuso un'allegra esuberanza collettiva d'impronta free.

Non sono inoltre mancate altre sorprese al Young Jazz, in particolare il "secret concert" nella mattina di sabato 24, la cui location e formazione sono state annunciate on line poche ore prima dell'evento. Sotto il sole di mezzogiorno, sulla terrazza Liberty di un ospitale B&B privato si è esibito il trio di Beppe Scardino, completato da Gabriele Evangelista al contrabbasso e Andrea Melani alla batteria. Il trio, sufficientemente rodato, ha proposto brani del leader: alcuni già collaudati ed altri recenti, ispirati al mondo delle piante.
Chi dal baritonista livornese e dal suo ruvido Cohn del 1936 si fosse aspettato tinte forti, accenti esuberanti e ritmati sarebbe rimasto in parte deluso: con esclusione dell'ultimo brano, sono prevalse infatti evoluzioni pensose e melodie avvolgenti, con basso e batteria impegnati a fornire un contesto adeguato, mai invadente.

Rimangono da segnalare altre due notevoli presenze italiane. Nella notte di sabato 24 maggio, prima della festa finale, con il taglio della torta del decennale, si è esibito il trio di Cristiano Arcelli. La qualità colemaniana (fra Ornette e Steve) dei temi del contraltista umbro e la rilevante incisività del suo mobile fraseggio hanno trovato una congeniale complementarietà nel drumming secco e perentorio di Bernardo Guerra e nel pizzicato più rotondo e risonante di Stefano Senni.
Se la prima apparizione di questo nuovo trio, dall'identità spiccata ed attuale, ha davvero convinto, costituendo la sorpresa più gradita del festival, una prevedibile conferma è venuta dal Dinamitri Jazz Folklore, settetto toscano coeso da oltre dieci anni di attività sotto la guida del sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. In questo caso la semplicità dei temi, coniugata con un saturo impianto poliritmico, ha avviato i sostenuti sviluppi collettivi di un interplay tribale.

Un'ultima considerazione: il principale obiettivo del festival diretto da Giovanni Guidi è quello di rivolgersi ad un pubblico giovane, fornendo occasione di stimolo culturale e di aggregazione. Da un lato tale obiettivo è stato pienamente raggiunto, richiamando una folla di giovani vocianti, soprattutto negli appuntamenti gratuiti nelle notti del fine settimana, e animando molti angoli del centro storico di Foligno. D'altro canto però il puro aspetto musicale ne è uscito penalizzato, in quanto per molti gruppi in programma (la Dinamitri Jazz Folklore, il trio Hobby Horse di Dan Kinzelman, Joe Rehmer e Stefano Tamborrino, l'Overseas di Opsvik...) la concentrazione dei musicisti e degli ascoltatori avrebbe richiesto e meritato una diversa distribuzione degli orari e/o dei luoghi dei concerti.

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