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Marc Ribot & The Young Philadelphians al Teatro Manzoni di Milano
Teatro Manzoni
Milano
22.11.2015
Esploratore come pochi altri, Marc Ribot ha attraversato i territori musicali più disparati. Dal jazz di John Zorn alla canzone d'autore di Joe Henry, dalle atmosfere quintessenzialmente newyorchesi dei Lounge Lizards alla musica cubana di Arsenio Rodriguez, gli ambiti in cui il chitarrista di Newark ha lasciato un'impronta significativa sono innumerevoli. Una delle sue tante avventure musicali, già attiva da qualche anno, lo vede alle prese con il cosiddetto Philly Sound, quel soul sviluppatosi a Philadelphia negli anni '70 grazie anche al talento visionario di produttori come Kenny Gamble, Leon Huff e Thom Bell, che ha poi generato (o quanto meno ha contribuito ad ispirare) la disco music.
Al Teatro Manzoni di Milano, Ribot era dunque alla testa dei suoi Young Philadelphians (Jamaladeen Tacuma al basso, Grant Calvin Weston alla batteria, Mary Halvorson alla chitarra), affiancati per l'occasione da una sezione archi locale (Daniele Richiedei al violino, Paolo Fumagalli alla viola, Aya Shimura al violoncello). Una band portatrice, già dal nome, di una certa ironia. Per l'allusione all'omonimo film di Vincent Sherman e, soprattutto, per il mero dato anagrafico. Perché se è vero che Tacuma e Weston sono di Philadelphia, è altrettanto vero che sono nati (come del resto lo stesso Ribot) negli anni '50 e dunque non sono propriamente musicisti di primissimo pelo. E infatti, nonostante la musica invitasse fortemente a ballare ed avesse un tiro a dir poco travolgente, i musicisti hanno suonato comodamente seduti. Giovani dentro, certo. Forever young. Ma, insomma, l'età avanza per tutti.
Peraltro anche il pubblico, in questa mattinata milanese, non era composto di giovanissimi, e chissà in quanti hanno riconosciuto e a suo tempo ballato quelle hit ("Love TKO," "Do It Anyway You Want," "Love Rollercoaster," la paradigmatica TSOP -The Sound of Philadelphia) che Gianni Gualberto -direttore artistico della rassegna -introducendo il concerto ha scherzosamente definito come la musica per rimorchiare della nostra giovinezza.
Ribot non ha però lasciato spazio alla nostalgia. Vuoi per l'energia e la gioiosità implicita nei brani. Vuoi perché il chitarrista è decisamente più orientato al divertimento, alla sorpresa, al disincanto. Di fatto, all'interno di un concerto citazionista e inclusivo per definizione, Ribot ha affrontato il repertorio a guisa di frullatore, all'interno del quale ha triturato e mescolato con impensabile naturalezza un'enorme quantità di ingredienti diversi, da Carlos Santana ai Talking Heads, passando per gli echi iconoclasti e British dei Sex Pistols e dei The Clash.
Del resto il nostro è magnifico solista ed organizzatore di suoni. Quando può poggiarsi, come in questo caso, su una sezione ritmica granitica e possente, dà il meglio di sé. Un po' defilata e fuori contesto invece Mary Halvorson, fin troppo discreta e riflessiva, date le circostanze. Marc Ribot non è Anthony Braxton, tantomeno Tim Berne. La sua musica richiede leggerezza, un approccio distaccatamente ironico. La sua grandezza consiste (anche) nel cercare ed ottenere la complicità dell'ascoltatore, nel far apparire semplice la complessità.
Foto
Roberto Cifarelli.
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