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Masada Quintet "Stolas"
ByTeatro Manzoni - Milano - 16.11.2009
Stolas è il dodicesimo capitolo di "Masada - The Book of Angels," il progetto di John Zorn incentrato sugli angeli-demoni che popolano l'esoterismo ebraico. L'album è stato realizzato in quintetto da Joe Lovano, Dave Douglas, Uri Caine, Greg Cohen e Joey Baron. E c'è in questo, un che di sublime, come del resto era nel caso del Masada String Trio. Cosa c'è, infatti, più beffardamente zorniano di un album di Masada senza John Zorn?
Bene ha fatto dunque la rassegna "Aperitivo in Concerto," che da sempre ha con il sassofonista (e più in generale con la scena Jewish newyorkese) un rapporto privilegiato, ad invitare il Masada Quintet e presentare il progetto Stolas. A movimentare ulteriormente le acque, in questa serata milanese il quintetto si è presentato privo del sassofonista titolare (infortunato), sostituito da Chris Potter.
Ci siamo dunque avvicinati al concerto carichi di curiosità:
- Che impatto avrebbe avuto sui brani di Zorn una formazione che, fatti salvi i distinguo legati alle caratteristiche dei singoli musicisti, dal punto di vista strumentale si configura come il più classico dei quintetti jazz?
- Nell'allargamento dell'organico, da quartetto a quintetto, come si sarebbero spostati gli equilibri?
- Come si sarebbe mosso Chris Potter in un contesto a lui non propriamente familiare? (peraltro, mutatis mutandis, avremmo avuto la stessa curiosità anche nei confronti di Lovano).
Nello svolgersi del concerto, la prima cosa che abbiamo notato è che, nonostante il materiale sia stato pensato per il quintetto, Zorn non ha spostato di un millimetro le proprie concezioni compositive. Stolas è, senza ombra di dubbio, un'opera in pieno stile Masada. E dunque deliziose melodie di derivazione ebraica, grande varietà ritmica con alternanza di scansioni pari e dispari, brani che si sviluppano secondo il classico "tema - soli a rotazione - ripresa del tema e conclusione".
Il pianoforte conferisce però alla musica una forte connotazione jazz. L'approccio di Uri Caine, a metà strada tra Herbie Hancock e (soprattutto sui tempi ternari) McCoy Tyner, ci riporta ai grandi quintetti degli anni '60. Il clima, l'umore dei brani, è molto giocoso, a tratti fin troppo easy, con qualche lungaggine solistica e qualche eccesso di spettacolarizzazione, rilevabile soprattutto nei finali, ad uso della platea (che peraltro ha mostrato ampiamente di gradire).
Discorso a parte merita Chris Potter, qui in veste di supplente, ed in quanto tale meritevole di ogni indulgenza. Ad inizio concerto il sassofonista ci è sembrato un po' fuori fuoco. Strumentista dal linguaggio più vicino alla tradizione, muscolare ma sempre lucido e nitido, nei primi brani ha forse cercato di suonare come John Zorn, eccedendo in sovracuti e timbriche strozzate non sempre consequenziali. Con il passare del tempo è invece tornato a suonare come Chris Potter, integrandosi molto bene con il resto della band e contribuendo in modo significativo alla buona riuscita del concerto.
Rispetto a Masada nella sua formazione standard (Zorn, Douglas, Cohen, Baron), è da sottolineare come la musica risulti di minore impatto. L'impressione complessiva è infatti che, da un lato l'assenza di un musicista acido e spigoloso come Zorn, dall'altro la presenza di un pianoforte talvolta ammiccante, tendano ad arrotondare e smussare quelle caratteristiche (asprezza, asciuttezza, sobrietà, sintesi) che costituiscono invece i cardini fondamentali di Masada.
E se è vero che in musica sperimentare è fondamentale (adoriamo Zorn proprio per questa sua voglia di mettersi in gioco e muoversi in ogni direzione), è anche vero che il quartetto Masada è un organico perfetto. Personalmente, ho trovato ogni variazione sul tema (Masada Trio, Electric Masada, questo Masada Quintet) meno convincente dell'originale. In certi casi, meglio non cambiare.
Foto di Roberto Cifarelli.
Ulteriori immagini di questo concerto sono disponibili nella galleria immagini