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La melodia prima di tutto: intervista ad Alessio Menconi

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Prima di suonare un pezzo dal vivo ne cerco l'anima.
Alessio Menconi, chitarrista autodidatta, ha da tempo intrapreso un percorso artistico coronato dalle collaborazioni con musicisti del calibro di Billy Cobham e Paolo Conte. Il suo stile è caratterizato da una personale cifra comunicativa basata su di un suono riconoscibile e da una robusta preparazione tecnica piegata verso la cantabilità delle melodie. Lo abbiamo contattato prima di uno dei tanti concerti per saperne di più.

All About Jazz: Sei un musicista autodidatta. Quali ritieni che siano gli aspetti positivi e negativi di questa formazione artistica?

Alessio Menconi: Le cosa positiva è che un autodidatta - rispetto a molti altri - riesce a trovare sempre una via più personale nello sviluppo di uno stile. Facendo tutto per conto tuo arrivi a inventarti una tecnica, lavori andando avanti con l'immaginazione. D'altro canto, a volte ti vengono dubbi pensando a come sarebbe andata se avessi avuto una guida. Ti interroghi su come saresti diventato. Nel complesso, tuttavia, ci sono più vantaggi che controindicazioni nell'essere autodidatta.

AAJ: Però sei docente di chitarra jazz in diversi conservatori. Qual è l'aspetto più difficile di questo ruolo?

A.M.: Personalmente, essendomi costruito un percorso didattico personale, devo tener presente che quello che è stato giusto per me non lo è per un allievo. È difficile a volte far capire agli allievi la logica delle cose. È difficile riuscire a comunicare cosa vuol dire improvvisare. Soprattutto nel jazz, dove - una volta imparate le regole - un allievo deve cercare un proprio percorso personale. È un po' come insegnare a scrivere, spieghi l'italiano, il lessico e poi l'allievo deve imparere il resto da solo.

AAJ: Dedichi gran parte della tua attività all'insegnamento. Hai un canale su You Tube ed è stato da poco pubblicato un volume didattico firmato da te per l'editore Carisch. È più una sorta di urgenza comunicativa o lo fai per supportare la tua carriera di musicista?

A.M.: Per entrambi i motivi. Ho iniziato per motivi economici, ma poi l'insegnamento è diventato una grande passione, soprattutto grazie agli allievi che dimostrano una grande dedizione per la chitarra e per il jazz. È un'attività parallela a quella dei concerti.

AAJ: Un grande autodidatta della storia è stato Jimi Hendrix. Nel 2003 hai partecipato, come unico italiano, alla compilation tributo Voodoo Crossing. Hai mai pensato di dedicare un progetto alla sua musica o a quella di un altro interprete dello strumento?

A.M.: Sì, molte volte. La sua musica ha una grande carica emotiva. Essendo però una musica molto particolare, così estrema e personale, sono sempre rimasto un po' restio nell'intraprendere un progetto del genere. Ho avuto un po' di timore sul come interpretare la sua musica, soprattutto perché sono un chitarrista. Quindi preferisco dedicarmi di più alla scrittura di cose originali o magari preferisco suonare degli standard o brani che non siano di chitarristi. In questo modo il mio pensiero tenta di andare un po' al di là delle sei corde, cerco di ragionare come un pianista o come un altro strumentista.

AAJ: Perché si sceglie di iniziare a suonare la chitarra e di andare verso il jazz anziché il rock, come potrebbe essere più naturale per un musicsta della tua generazione?

A.M.: Ho iniziato a suonare la batteria a otto anni, poi ho preso in mano la chitarra perché ne avevamo una in casa. Credo che sia uno strumento molto diretto, che ti consente di esprimere ciò che provi. All'inizio cercavo di imitare i musicisti rock, che ancora oggi ascolto, come i Beatles per esempio, per la loro immediatezza. Poi mi sono gradualmente spostato verso la fusion, ascoltando gruppi come i Weather Report, perché avevano sia la carica ritmica e il sound del rock che l'armonia di impostazione jazzistica. Crescendo mi sono avvicinato di più al jazz. Non c'è sempre una risposta a tutto. Mi sono ritrovato a suonare jazz strada facendo, senza un motivo specifico.

AAJ: Il tuo collega Bebo Ferra sostiene che oggi molte jazz band usino il colore della chitarra come conseguenza del fatto che è lo strumento che ha avuto - negli ultimi decenni - un'evoluzione maggiore. Sei d'accordo?

A.M.: Lo strumento ha avuto un evoluzione da Hendrix, da Clapton. Questi musicisti hanno portato la chitarra ad essere uno strumento più popolare e dunque più usato nei gruppi di vario genere. Direi di sì, negli ultimi cinquanta anni c'è stata una grande espansione in tal senso. Penso che nel jazz è bello che ci sia un ritorno a un suono più tradizonale, perché negli anni Ottanta e Novanta, che hanno visto molta fusion e chitarre suonate con molti effetti, si è un po' smarrito questo aspetto. Dal mio punto di vista credo che sia positivo il fatto di far conoscere il sound originale della chitarra

AAJ: Nel tuo sito ufficiale c'è una foto nella quale quasi abbracci una Ibanez. In che modo ti senti legato allo strumento che suoni?

A.M.: Molti chitarristi suonano per trenta anni lo stesso strumento, altri lo cambiano spesso. Ultimamente, per esempio, sto suonando molto due Gibson, una L5 e una vecchia Byrdland. Devo dire che questi strumenti mi hanno cambiato un po' la vita. Perché hanno una risposta, una dinamica e un suono che mi ha spinto a suonare diversamente. Ora suono "più pulito," con meno effetti, perché quando hai un bel suono che parte dallo strumento hai meno voglia di "sporcarlo". La modernità dello stile non è data dagli effetti. Se prendiamo due pianisti come Herbie Hancock o Erroll Garner la differenza tra di loro è data dalle note e dal modo di suonare sul timing, ma lo strumento è lo stesso. Molti chitarristi si nascondono dietro gli effetti per cercare di essere innovativi, ma dopo Bill Frisell e Mike Stern ora è bello ascoltare un chitarrista che ti dice quello che ha da dire solo con il suono, con le note.

AAJ: Hai iniziato molto presto a suonare. C'è qualche aspettativa che avevi in mente da realizzare e che ancora persegui?

A.M.: Vivo la musica molto alla giornata, cercando di migliorare l'arte che ho dentro di me. I progetti che ho vanno di pari passo. Ultimamente sto suonando molto in trio e stavo pensando di sviluppare questa situazione facendo un disco in quartetto, magari con un sax visto che non l'ho mai fatto. Sono idee che si sviluppano nel quotidiano e che cercano una direzione.

AAJ: Adventures Trio è la tua incisione più recente, in trio con Aldo Romano alla batteria e Luca Mannutza all'organo Hammond. In che modo ti sei relazionato con questo strumento così particolare e dal suono molto riconoscibile?

A.M.: Un po' di adattamento c'è, perché è lo strumento stesso che ti porta a suonare in un certo modo. Nel senso che l'Hammond, suonando i bassi, ha un modo abbastanza diverso da quello di un contrabbasso. Non si può quindi ragionare come se ci fosse un bassista che ti segue. Ti costringe a suonare in un certo modo, ma il bello è proprio questo, cercare un sound avvolgente, un po' come quello di Wes Montgomery.

AAJ: From East to West è un altro lavoro svolto in trio, questa volta con Riccardo Fioravanti al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria. È la tua formazione ideale?

A.M.: Direi di sì, perché c'è una dimensione nella quale si riesce a suonare sempre insieme, con un certo interplay. Mi piace che uno dei tre sia sempre al centro del discorso e gli altri due giochini a uscire dal tempo e dall'armonia. Comunque ho suonato in molti tipi di formazione, ed è comunque interessante.

AAJ: Hai una line-up dei tuoi sogni?

A.M.: In Italia e in Europa ci sono molti musicisti con i quali mi piacerebbe suonare e citarne solo alcuni è impossibile. Ho suonato con molti musicisti importanti e ce ne sono altrettanti con i quali dividerei volentieri un palco.

AAJ: La melodia è l'aspetto che più ti interessa mettere in risalto nelle tue composizioni?

A.M.: Sì. Negli ultimi anni mi sono spinto in questa direzione. Anche durante l'improvvisazione emerge la voglia di costruire delle melodie. Sto ascoltando molta musica brasiliana, di compositori come Ivan Lins. Hanno una grande raffinatezza nell'esporre le melodie, influenzata molto dal jazz, in un modo tutto loro. Poi ho una passione per i cantanti e per i musicisti che hanno uno stile cantabile. Tutto questo mi ha spinto verso un aspetto musicale più melodico, lontano dalla sperimentazione.

AAJ: In questo periodo stai componendo?

A.M.: Sto scrivendo dei brani, ma non so ancora bene con che formazione li andrò a registrare. Credo che questo progetto prenderà vita in autunno. Quasi sicuramente sarà con un fiato, in quartetto.

AAJ: Dopo questa intervista salirai sul palco per suonare dal vivo. Ci sono degli accorgimenti particolari che prendi prima di una performance?

A.M.: Ripasso i brani - anche tecnicamente - che andrò a suonare, sia gli orignali che gli standard. Li suono un poco. Velocemente e in libertà, e penso a quello che vorrei uscisse da un determinato brano, come il tipo di atmosfera. Cerco l'anima del pezzo e mi ci concentro.

Foto di Roberto Cifarelli (l'ultima)


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