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John Hollenbeck: profilo di artista

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Lo scorso mese di agosto il 61° critics poll di Down Beat ha votato John Hollenbeck al primo posto tra gli arrangiatori emergenti, riproponendo valutazioni già espresse in passato (Rising Star Arranger nel 2012 e Rising Star Big Band nel 2011). È il doveroso riconoscimento a uno degli artisti più originali del jazz statunitense ma non rende giustizia sul versante della collocazione.

Nato a Binghamton (New York) 45 anni fa, John Hollenbeck non è un artista emergente. Attivo professionalmente dalla metà degli anni novanta, guida proprie formazioni dal 2001, ha inciso sedici dischi in veste di leader o co-leader, altrettanti come compositore e quasi settanta come batterista in organici altrui (Meredith Monk, Bob Brookmeyer, Tony Malaby, Satoko Fujii, Fred Hersch, Guy Klucevsek, Cuong Vu eccetera).

Il suo gruppo più noto è The Claudia Quintet, il cui organico strumentale resta lo stesso dal 2001: Chris Speed al clarinetto e sax tenore, Matt Moran al vibrafono, Drew Gress al contrabbasso, Ted Reichman alla fisarmonica e John Hollenbeck alla batteria. Negli anni si sono aggiunti alcuni ospiti e solo nel recente September, settimo disco della formazione, Reichman è stato sostituito da Red Wierenga.

L'attività di compositore e/o leader per ampi organici è stata anch'essa intensa e continuativa. Come autore s'è distinto nei gruppi di Meredith Monk, come bandleader in varie formazioni orchestrali: dal proprio Large Ensemble alla Jazz Big Band Graz, dall'Ed Partyka Jazz Orchestra alla Bamberg Symphony Orchestra.

La sua accettazione, ancora relativamente limitata da parte del pubblico internazionale, non è dovuta tanto alle scelte d'avanguardia ma alla varietà e ampiezza della sua ricerca che ne fa un artista difficilmente classificabile. Hollenbeck è un compositore ricercato e visionario, che opera nella dimensione acustica senza disdegnare l'elettronica, spazia da concezioni cameristiche al jazz (nelle sue varie forme), dalla sperimentazione contemporanea all'innesto di suggestioni pop, dalla frenesia del rock (da Zappa in avanti) alle musiche etniche. Entro percorsi rigorosamente preordinati (talvolta un po' troppo, dicono alcuni) la sua musica sa lasciare spazi di libertà ai solisti, che ne alleggeriscono le complesse e articolate strutture.

Un'ampiezza di vedute e un approccio versatile che risale all'adolescenza

"Sono attratto dalla diversità—ha detto in un'intervista ad Alexandra Gardner—Quand'ero più giovane facevo spesso piccoli missaggi di nastri diversi. Per me era normale passare da Stevie Wonder ad Aaron Copland e la cosa mi piaceva. Nel corso di una registrazione o di un concerto, amo muovermi in mondi molto diversi e la cosa può avvenire anche all'interno di uno stesso brano. Da ragazzo facevo fatica ad ascoltare un disco di Stevie Wonder per intero e amavo passare da una cosa all'altra, magari aggiungendo del jazz... Mi ha sempre attratto quella diversità."

Il suo disco più recente sul versante orchestrale è Songs I Like a Lot dove l'eclettismo di Hollenbeck emerge in pieno. Registrato con la Frankfurt Radio Big Band più l'aggiunta dei cantanti Kate McGarry e Theo Blackmann e del pianista Gary Versace, il disco ridisegna temi di musica leggera (anche celebri come "Wichita Lineman" di Jimmy Webb o "Bycicle Race" di Freddy Mercury) e non ("All My Life" di Ornette Coleman o la ballad tradizionale "Man of Constant Sorrow") infondendovi nuova vita senza alterarne i profili originali. Uno stile unico, che riprende le classiche concezioni di Gil Evans in uno spettro di riferimenti che vanno da Philip Glass a Maria Schneider, da Don Ellis a George Russell. Una visione movimentata e complessa del fare musica orchestrale, che si sviluppa entro una linea prettamente bianca, attenta a disegnare impasti timbrici raffinati di natura impressionista in conflitto con percorsi ritmici ricchi di tensione e dalla metrica inconsueta. Illuminante esempio del suo stile è la magistrale versione di "The Moon's Harsh Mistress."

Gli Inizi

John Hollenbeck deve soprattutto al fratello maggiore, anch'egli batterista, la sua passione per il jazz.
È grazie a lui che, all'età di 12 anni, assiste ad alcuni concerti dell'orchestra di Bob Brookmeyer, capitato a Binghamton per una settimana, subendone un impatto indelebile. Dopo i primi studi con insegnanti locali s'iscrive alla Eastman School of Music di Rochester, ottenendo nel 1991 il diploma in percussioni e in composizione jazz.

Trasferitosi a New York va a trovare Brookmeyer per alcune lezioni di perfezionamento, realizzando anche il sogno adolescenziale di suonare nella sua orchestra. "Egli è davvero molto importante per me e per altri arrangiatori—ha detto—Anche se ho acquisito molto dalle sue lezioni, mi è servito di più ascoltare le sue composizioni e provarle con lui."

Nel ruolo di batterista Hollenbeck trova i primi ingaggi, collaborando con varie formazioni per tutti gli anni novanta. Una delle prime è guidata dal trombonista Tim Sessions e lo vede accanto a Randy Brecker, Chris Potter, Kenny Werner (And Another Thing, Episode 1995). Vengono poi incisioni con Patrick Zimmerli, Dan Willis, la Bob Brookmeyer's New Art Orchestra (Celebration, Challenge 1999). Agli inizi del nuovo decennio lo troviamo nel trio di Cuong Vu (Pure e Come Play With Me, Knitting Factory), nel Brass Project di Florian Ross e nei progetti di Matt Moran, Theo Bleckmann, Jim McNeely e Meredith Monk (Mercy, ECM 2002).

Le relazioni con i futuri partner dei suoi progetti sono già nate e tra la fine del 2001 e l'inizio del 2002 Hollenbeck debutta da leader con quattro dischi di piccole formazioni: The Claudia Quintet, esordio di un gruppo dall'identità già definita; l'etnico Quartet Lucy, con le sperimentazioni vocali di Theo Bleckmann in un organico anomalo; Static Still, duo voce- percussioni ancora con Bleckmann e No Images, una raccolta di sue composizioni sperimentali.

Le sue doti di orchestratore trovano sbocco nel 2003 con l'incisione di A Blessing per l'Omnitone, che lo pubblica due anni dopo. Registrato con un ensemble di 18 elementi (tra cui Chris Speed, Dave Ballou, Bleckmann, Kermit Driscoll, Gary Versace) il lavoro evidenzia in pieno le originali concezioni di Hollenbeck. Come scrisse Valerio Prigiotti nella recensione (vedi) "il disco colpisce per il lungo snodarsi delle linee melodiche (...) con temi costruiti su cellule che si sviluppano lente e inesorabili."
Una scrittura sontuosa, palpitante e talvolta drammatica (si vedano gli scontri tra masse sonore che ricordano Graettinger), ricca di variopinti giochi timbrici e articolati flussi ritmici, capace di spaziare da episodi convulsi o collettivi free, a lenti e cantabili sviluppi melodici.

Nasce Il Claudia Quintet

Nel 2004 il Claudia Quintet pubblica un secondo disco (I, Claudia), entrando in relazione stabile con l'etichetta Cuneiform. La formazione era nata come evoluzione del trio Refuseniks, formato l'anno prima col fisarmonicista Ted Reichman e il bassista Reuben Radding. Si esibivano regolarmente in un club dell'East Village di New York (poi conosciuto come Tonic) e una sera incontrarono una splendida ragazza di nome Claudia, che si mostrò elettrizzata dalla loro musica e promise di tornare. Naturalmente, come aveva capito Reuben, non si fece più vedere ma l'incontro colpì Hollenbeck che iniziò a fantasticare su di lei e, quando il trio si sciolse, formò un quintetto col suo nome.

Il batterista ha aggiunto altre ragioni per la scelta del nome, come enfatizzare l'identità collettiva e il percorso musicale essenzialmente scritto ("volevo emulare una pratica tipica dei gruppi da camera, ad esempio The Arditti Quartet").

Nella musica del secondo disco questi aspetti vengono ribaditi in un impressionante percorso di varietà espressiva e stilistica. Si spazia dal concitato groove di "Just Like Him" al minimalismo di "The Cloud of Unknowing," dall'astratto camerismo (con un sorprendente finale swingante) di ..."Can You Get Through This Life with a Good Heart?" all'ipnotico ed evanescente "Arabic" caratterizzato dal lungo assolo di Speed al clarinetto e dall'intenso intervento di Moran al vibrafono). Caratteri analoghi li ritroviamo l'anno seguente in Semi- Formal, con la formazione al servizio della multiforme e visionaria scrittura di Hollenbeck.
Gli assoli sono generalmente brevi e incastonati nella partitura e i brani si susseguono in forma di suite. La ricchezza di elementi e riferimenti porta i critici ad abbandonare ogni tentativo di classificazione ("The Claudia Quintet is a truly unclassifiable ensemble (...) truly sounds like no other working" scrive Troy Collins sulla webzine One Final Note).

Nel frattempo il valore di Hollembeck, anche come batterista, inizia a essere maggiormente apprezzato dai colleghi. Tra le molte cose presenti in discografia ricordiamo la collaborazione con Satoko Fujii e Natsuki Tamura nei due progetti Junk Box e Cloudy Then Sunny (Libra, 2006 e 2008), quella col chitarrista Scott Fields ( Beckett, Clean Feed, 2006) e il coinvolgimento nell'eclettico progetto del trombonista Curtis Hasselbring The New Mellow Edwards (Skirl, 2006), seguito tre anni dopo da Big Choantza (Skirl, 2009).

Tra le collaborazioni di Hollenbeck la più influente è stata quella con Meredith Monk, iniziata col disco Mercy (ECM, 2002) già ricordato.

In merito a quel sodalizio il batterista ha concesso un'intervista a Brian Howe su The Thread (http://thethread.dukeperformances.duke.edu/2012/11/interview-john- hollenbeck-on-meredith-monk/) dove spiega d'aver appreso da lei a scrivere e ascoltare musica da una prospettiva emotiva e non solo intellettuale. L'incontro con la compositrice, cantante e coreografa fu propiziato da Theo Bleckmann sul finire degli anni Novanta, quando la Monk cercava un percussionista che prendesse il posto dello scomparso Collin Walcott per la nuova opera Magic Frequencies. La prima audizione di Hollenbeck provocò negli astanti profonde emozioni, legate alla somiglianza con quanto faceva Walcott. "Successe quello che non mi era capitato in nessun altro posto—ha ricordato il batterista—In sostanza le persone dell'ensemble iniziarono a piangere. Nel gruppo che ascoltava c'erano sia Meredith che la vedova di Collin e si manifestò un momento estremamente potente."

La collaborazione con la Monk è continuata nei dischi Impermanence (ECM, 2008) e Songs of Ascension (ECM, 2011).

I Lavori Orchestrali

Sul versante dei lavori orchestrali, l'innovativa versatilità di Hollenbeck s'evidenzia pienamente a partire dalla pubblicazione di Joys and Desires (Intuition, 2005).

L'album presenta sette composizioni del leader di media lunghezza (ma due vanno oltre i dieci minuti) in una scrittura strepitosa per ricchezza e varietà di soluzioni timbriche e ritmiche. Ancora una volta è chiara l'influenza di Gil Evans nelle sontuose trame orchestrali, nei collettivi dissonanti e nei lunghi episodi statici ma la sintesi è originale: c'è un uso continuo di pedali, di contrasti timbrici, di quadri melodici in mutamento che risultano anche conflittuali nell'arco di uno stesso brano (esemplare in questo è "After a Dance or Two..."), toccando le esasperazioni di Don Ellis o della Vienna Art Orchestra.

Un progetto dove la scrittura è centrale, con l'esaltazione delle tessiture orchestrali e degli sviluppi dinamici e con gli spazi per gli assoli coerenti con la trama complessiva. Protagonista del disco è la Jazz Big Band Graz sotto la supervisione di Heirich Von Kalnein e Horst-Michael Schaffer.

Assiso alla batteria Hollenbeck imprime a tutto il collettivo una significativa direzione, con un drumming che è fonte costante d'impulsi, repentini cambiamenti di tempo, frammentazioni e alterazioni ritmiche.

Joys and Desires è stato il primo maturo lavoro orchestrale del batterista e ha suscitato giudizi eccellenti anche in Italia per l'originale complessità delle sue architetture.

Restando in tema di ampi organici (Hollenbeck preferisce il termine Large Ensemble a quelli di orchestra o big-band) il disco più riuscito dell'arrangiatore nasce nel 2009 per la Sunny Side Records col nome Eternal Interlude.

Al suo servizio c'è una formazione di venti elementi condotti da J.C. Sanford, direttore del dipartimento jazz al college Le Moyne di Syracuse. Il clima è accademico, in chiara relazione col quel sinfonismo europeo che aveva influenzato anche il primo Gil Evans (pensiamo a The Individualism) e lo porta a privilegiare l'organicità ai contrasti. Le esasperazioni timbriche sono stemperate in percorsi che si snodano secondo una logica minimalista in quadri lenti e riflessivi. Una musica caratterizzata da lunghi episodi narrativi, animati da un incessante flusso di combinazioni dinamiche, che suscita profondo pathos in chi ascolta.

A differenza di Joys and Desires la scrittura è più aperta e lascia ampio spazio ai singoli, portando a una sintesi equilibrata tra i loro interventi e il collettivo. Tra i nomi più in vista ricordiamo Ellery Eskelin, Tony Malaby, Gary Versace. Gli episodi memorabili sono molti, ognuno con precise identità: il disco inizia con un tumultuoso omaggio a Monk evidente dal titolo che trasforma "Four in One" in "Foreign One" e si conclude con l'astratto e rarefatto "No Boat." Tra questi abbiamo brani più vicini alla tradizione orchestrale jazz come "Perseverance" e "Guarana", il narrativo "The Cloud" e l'iterativo "Eternal Interlude" che ha spinto alcuni ad accostamenti con Steve Reich.

"Amo il ritmo e la forza della ripetizione—ha dichiarato Hollenbeck a questo proposito—Amo gli effetti emotivi di qualcosa che si ripete cambiando lentamente oppure di quello che cambia improvvisamente in modo drammatico. Come me, anche Steve Reich è molto interessato alla musica africana e balinese. Io non ho mai guardato alle (sue) partiture o cercato di analizzare quella musica ma l'apprezzo. Io cerco di usare elementi che si possono trovare nella musica minimalista combinati con altri che ne sono estranei." (Will Layman: Jazz Today—Spinach and Broccoli Music: An Interview with Composer and Drummer John Hollenbeck)

Che John Hollenbeck sia un artista dagli orizzonti quanto mai ampi lo conferma in modo esemplare Rainbow Jimmies (GPE, 2009), un lavoro che raccoglie composizioni per differenti organici, che spazia dalla dimensione classico- contemporanea a quella etnico-percussiva. L'opera centrale è "The Gray Cottege Studies," scritta per il violinista classico Todd Reynolds e il vibrafonista Matt Moran. In alcuni dei sette movimenti interviene lo stesso Hollenbeck alle percussioni, introducendo alterazioni ritmiche nell'austero e astratto camerismo del duo.

Claudia Quintet: I Nuovi Album

Tra il 2010 e il 2011 John Hollenbeck si dedica principalmente al Claudia Quintet, realizzando due tra i lavori più ricercati della formazione. Registrato nel dicembre 2009, il quinto capitolo del Claudia Quintet s'intitola Royal Toast ed ospita Gary Versace al pianoforte (occasionalmente anche come seconda fisarmonica), partner di lunga data del leader e già presente nel tour di quell'anno. Il percorso musicale si sviluppa presentando dieci brani di media lunghezza con interposti brevi interludi improvvisati, in cui ogni singolo componente dialoga con se stesso in sovraincisione.

"Mi piacciono i brindisi (toast in inglese)—ha ironizzato Hollenbeck spiegando il perché del titolo—e ho hotato che se si pone il termine royal prima di qualcosa, la cosa sembra più nobile." Ovviamente ciò non ha influito sugli ampi consensi critici ottenuti dal disco, consensi che sanciscono la definitiva accettazione del quintetto tra i protagonisti del jazz contemporaneo.

Nate Chinen del New York Times dopo aver ribadito la molteplicità di elementi che coesistono nella formazione ("progressive jazz, classical minimalism and low-glare experimental rock") considera che "da questo momento quell'equilibrio di stili riflette un protocollo stabilito, in modo leggermente insolito rispetto agli inizi. Jazz, new music e post rock, o in qualunque modo vogliamo chiamarlo, si fondono e sovrappongono stabilmente in modo reciproco condividendo molte delle stesse risorse."

Chris Barton del Los Angeles Times considera il Claudia Quintet "una delle formazioni jazz più avventurose operanti oggi," John Fordham del Guardian lo cita tra i più acclamati gruppi jazz dell'area sperimentale.

Riguardo a questo lavoro va sottolineata la presenza contrappuntistica di Versace, che consente a Hollenbeck di muoversi più liberamente sul versante poliritmico, e la marcata identità timbrica del gruppo, risultante dalle relazioni tra clarinetto, vibrafono e fisarmonica. Il primo aspetto è evidente in "Armitage Shanks," nel concitato brano che dà titolo all'album e nel ritmicamente convulso "Keramag"; il secondo nelle seducenti e distese ambientazioni di "Crane Merit" o nei cameristici "Ideal Standard" e "For Frederick Franck."

Il successivo What Is the Beautiful? (Cuneiform, 2011) documenta un progetto commissionato dall'università di Rochester per celebrare i cento anni della nascita dello scrittore e poeta Kenneth Patchen. Questi fu uno dei primi a declamare liriche in un contesto jazzistico e negli anni cinquanta esercitò ampia influenza sui poeti beat.

Per l'occasione Hollenbeck ospita ancora un pianista (Matt Mitchell) e i cantanti Kurt Elling e Theo Bleckmann per recitare le sue poesie. Il risultato del progetto evidenzia la duttilità dell'autore e la plasticità del gruppo che mantengono la propria identità in percorsi dalle dinamiche più uniformi, anche se contraddistinti da continue tensioni interne. Per le ragioni suddette questo disco è il più jazzistico (e se vogliamo il più "tradizionale") della formazione ma le suggestioni non mancano, soprattutto nelle relazioni tra cantanti e collettivo. Mentre la pronuncia luminosa di Bleckmann è congeniale ai brani intimi e riflessivi, la ricchezza timbrica e la versatilità di Elling lo è per quelli ritmicamente articolati in senso boppistico.

Con la recente pubblicazione di September entriamo nel pieno dell'attualità. Il titolo ha un duplice riferimento: da un lato si lega al mese preferito di Hollenbeck che dal 2001 lo dedica alla composizione (e alla meditazione) in luoghi suggestivi come il Blue Mountain Center, nello stato di New York, a Taos in New Mexico e di recente alla Bogliasco Foundation in Liguria dove ha scritto i brani del disco.

Dall'altro è il mese legato alla tragedia dell'11 settembre, una ferita mai rimarginata in molti americani. L'ambivalenza affettiva che sorge in settembre si riflette nel percorso del disco e viene risolta con sentimenti di compassione e partecipazione ("Mi è sorta l'idea—scrive nelle note—di rielaborare e trasformare i residui traumatici con la composizione. Sono specialmente interessato a come—tramite il semplice atto non violento del comporre—possiamo aiutare noi stessi a diventare persone migliori, approfondendo la propria connessione con l'umanità, creando un'opera che può confortare e guarire."

Pur confermando i tratti centrali della sua estetica, le composizioni di September evitano eccessi di scrittura e mostrano una freschezza nuova, distendosi in lunghi episodi cantabili e venati di malinconia. Brani evanescenti e atmosfere sospese con i solisti sostenuti da lunghe iterazioni come "Love Is Its Own Eternity," "Coping Song", "Somber Blanket," "Loop Piece." I rischi di calligrafismo sono evitati mettendo i piani sonori in sottile contrasto e opponendo alle melodie un drumming spezzato, continuamente instabile.

Solo in alcuni brani ("Soterius Lakshmi," "Lemons,""Wayne Phases") restano i contrasti timbrici e le concitazioni ritmiche del passato oppure troviamo istanze sperimentali ("Me Warn You"). I risultati sono comunque diversi grazie all'intento di Hollenbeck è di liberare il più possibile i musicisti dalla partitura scritta con pezzi facilmente memorizzabili, nella logica degli head arrangements della tradizione jazz.

Anche se gran parte del lavoro di Hollenbeck s'è espresso con il Claudia Quintet e con ampie formazioni orchestrali, va sottolineato che non si esaurisce in essi. La marcata versatilità dell'autore si ritrova nel variegato corpus di composizioni da camera (come Demütig Bitten del 2004), opere sinfoniche (New Year, New Music eseguita dalla Gotham Wind Symphony di New York), jazzistiche (Shut Up and Dance scritta per l'Orchestre National de Jazz che Le Monde ha incluso tra i migliori cinque album di quell'anno.

Un organico meno noto, anche se di lunga data, è il Refuge Trio (con Theo Bleckmann e Gary Versace), altro eclettico progetto che si muove in ogni direzione. Ed ancora i duo col sassofonista Jorrit Dijkstra e con Bleckmann.

Seguire questi percorsi ci porterebbe lontano, ben oltre gli intenti di quest'introduzione.

Foto di John Hollenbeck.

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