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Jazz & Wine of Peace 2014

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Jazz & Wine of Peace 2014
Cormons: 18-26.10.2014


Giunto alla 17ma edizione, il Jazz & Wine of Peace di Cormons si colloca tra i migliori festival nazionali, coniugando ricercate scelte musicali con la valorizzazione del territorio: in primis la rinomata produzione enologica del Collio.
Organizzato dal Comune e dal Circolo Culturale Controtempo, presentava un'offerta particolarmente ricca. Accanto ai concerti serali al Teatro Comunale (Bill Frisell, Youn Sun Nah, Avishai Cohen) tutti gli altri erano presentati in suggestive dimore storiche o in rinomate cantine, con relativa degustazione dei tesori enogastronomici locali.
Il pubblico internazionale (molti austriaci, tedeschi e sloveni) è intervenuto massicciamente, confermando di apprezzare anche le proposte più innovative, come le magistrali esibizioni del trio di James Brandon Lewis e del quintetto di Mary Halvorson.
Dal punto di vista artistico sono stati questi i momenti superlativi a cui abbiamo assistito, entro un livello qualitativamente alto. Non essendo stati presenti, nulla possiamo dire dell'anteprima di Petrella-Guidi il 18 ottobre e dei quartetti di Uros Perry e István Grencsó, rispettivamente il 23 e 24 mattina. I giudizi di chi ha partecipato alle esibizioni erano quanto mai positivi.

Iniziamo a parlare dei concerti di maggior richiamo, quelli in prima serata a Cormons.
Il 24 ottobre Bill Frisell presentava il suo ultimo progetto Guitar in the Space Age con la stessa formazione del disco omonimo, ovvero Greg Leisz alla pedal steel guitar, Tony Scherr al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria. "Ora che divento vecchio -ha dichiarato il chitarrista—sento maggior conforto nel suonare qualcosa che è stato parte della mia vita. Quelle melodie naïf che appartengono alla mia infanzia e che prima consideravo troppo semplici da suonare." Da anni la memoria svolge un ruolo importante nella musica di Frisell, sia che riguardi la riscoperta del country che le composizioni di Ives e Copland. Una ricerca a volte nostalgica ma che ha prodotto capolavori come Nashville e Sign Of Life. Dopo il progetto dedicato alle musiche di John Lennon, il quartetto riprende alcuni classici dei primi anni sessanta, quelli che il piccolo Bill ascoltava dai dischi di Duane Eddy, dei Beach Boys, dei Kinks o degli Shadows. La serata è iniziata con un'affascinante rilettura di "Blue Moon" (rinominata "Reflections from the Moon") per proseguire con gran parte del repertorio presente nel disco: "Cannonball Rag" di Merle Travis, "Tired of Waiting For You" dei Kinks eccetera.
La relazione tra Frisell e Greg Leisz (che alternava la chitarra elettrica alla pedal steel guitar) resta seducente ma questa volta i brani originali sono riproposti nella loro semplicità ritmica e armonica, escludendo rielaborazioni e mascheramenti anche rispetto alle versioni su disco. Il percorso musicale si è quindi snodato senza sorprese e qualcuno è rimasto deluso. Comunque pochi perchè il pubblico in sala ha tributato ovazioni fino ai bis: il delizioso "Surfer Girl" dei Beach Boys e il noto "Telstar" dei Tornados.

La sera successiva era di scena la cantante coreana Youn Sun Nah, sull'onda del successo ottenuto nell'Europa continentale dall'album Lento. L'accompagnavano due partner di quel disco (il chitarrista Ulf Wakenius e il fisarmonicista Vincent Peirani) più il bassista Simon Tailleu. Ancora pubblico numeroso e ampi consensi per una vocalist dalle sorprendenti doti tecniche che sul palco ha mostrato più mestiere che vera partecipazione. Un prodotto ben confezionato che non ha replicato il fascino del disco pur riprendendone i successi: "Momento Magico" , "Lament" , "Ghost Riders In The Sky" e altri. Il momento più sincero è giunto dall'accorata ninna nanna coreana "Arirang."
Analoghe considerazioni, ma amplificate, vanno espresse per l'esibizione di Avishai Cohen con Nitai Hershkovits al piano e Daniel Dor alla batteria. L'esibizione del noto contrabbassista è risultata al sottoscritto quasi irritante per l'accentuazione spettacolare e la sua mimica esagerata. Al centro del palco, Cohen era il prim'attore di un'esibizione kitsch che presentava una musica -comunque di buon livello-come fosse grande arte. La cosa evidentemente funziona perchè il pubblico si è divertito moltissimo e ha chiesto vari bis. L'ultimo -oggetto di collettiva partecipazione-si basava sulla beatlesiana "Come Together." Anche quest'ultima serata al Teatro Comunale era accompagnata dai bei disegni di Marco Tonus, visibili su grande schermo.

Come s'è detto, gli altri concerti erano collocati la mattina o il pomeriggio in cantine o in dimore storiche del territorio. Luoghi più raccolti, che l'attento e competente pubblico ha rapidamente esaurito. L'attesa degli appassionati era alta per il debutto italiano del sassofonista James Brandon Lewis in trio e per il quintetto di Mary Halvorson, entrambi domenica 26.
Ospitato nella Tenuta Villanova di Farra d'Isonzo, Brandon Lewis s'è presentato con altri due giovani talenti: il bassista Max Johnson e il batterista Dominic Fragman. La loro musica attualizza l'esperienza del free storico e ha impressionato per la magnetica forza d'urto e la costante tensione collettiva. Il sax tenore ricorda John Coltrane, Pharoah Sanders e Albert Ayler: evidenzia un timbro vibrante e un eloquio impetuoso, animato dalla passione del gospel. Come Ayler il sassofonista ama sviluppare semplici melodie popolari con ritualistico fervore e partecipazione. Uno spiccato gusto narrativo e una carica visionaria condivisa con l'interattivo drumming di Fragman e il possente contrabbasso di Johnson. Il concerto è iniziato con una veemente versione di "Divine," diversa da quella contenuta in Divine Travels, e s'è concluso con un irriconoscibile "Over The Rainbow." Un concerto intenso e avvincente, che ha colpito profondamente critica e pubblico.

Ancora magistrale, ma su un piano espressivo diverso, l'esibizione di Mary Halvorson qualche ora dopo. Ospitato dalla cantina Renato Keber di Cormons, il quintetto della chitarrista era quello abituale con Jonathan Finlayson alla tromba, Jon Irabagon ai sassofoni, John Hebert al contrabbasso e Ches Smith alla batteria. È una delle formazioni più innovative del jazz attuale, contraddistinta da una cifra espressiva visionaria. Sulla base di lirici temi esposti all'unisono tromba/sax (ma non è la regola) sviluppa architetture complesse e anomale in cui s'incontano/scontrano echi di bop, improvvisazione free, rock d'avanguardia, sperimentazione accademica e molto altro. Una musica audace e complessa, che oscilla tra tonalità e atonalità con le varie voci impegnate a strutturare un universo imprevedibile e sorprendente. Tra l'eloquio struggente di Finlayson e quello incisivo di Irabagon s'imponevano le dissonanti e lucide improvvisazioni della Halvorson, accostabile per alcuni aspetti a Derek Bailey. Molti i brani nuovi. Tra quelli dell'ultimo disco ricordiamo "Hemorrhaging Smiles," eseguito sul finale.

Se questi due concerti mostravano quanto di meglio c'è oggi a New York, le altre proposte hanno spaziato "alla periferia dell'impero" evidenziando comunque alti livelli.
Tino Tracanna ha presentato il suo ultimo progetto, un pianoless trio (con gli ottimi Giulio Corini al contrabbasso e Vittorio Marinoni alla batteria) il 24 a Villa Russiz, offrendo una prova esemplare per coesione collettiva, sintesi e incisività. Non è certo una novità, visto che il sassofonista è tra i protagonisti del nostro jazz e continua a produrre opere significative come il recente Acrobats. In questo progetto Tracanna accosta temi nuovi ad alcune splendide composizioni del passato che diventano così la base di nuove e più libere esplorazioni tematiche. La sua estetica fa capo a un modern mainstream avanzato generalmente ricco di tensione ritmica, che sa essere cantabile o toccare momenti free. Tra i temi più significativi ricordiamo i serrati "P.F.C. Concept," "Kim" e "Burro Cacao," il dolcissimo "Eterninna" (ninna nanna, appunto, scritta per la figlia) e l'astratto "Adagio." Sul finale s'è unito il chitarrista Garrison Fewell per eseguire due brani: "Misterioso" e "Pow Wow."

Per restare in tema di trio ha impressionato l'organico del sassofonista tedesco Christof Lauer con i francesi Patrice Héral alla batteria e Michel Godard alla tuba, al basso e al serpentone. Héral sostituiva Gary Husband nell'originale formazione che nel 2006 registrò Blues in Mind. Un plauso agli organizzatori che hanno voluto presentali in esclusiva il 25 ottobre nella chiesetta di Sant'Apollonia. I pezzi erano soprattutto quelli del disco, a partire da "Un regalo per Natale" eseguito in apertura. Il loro è stato un jazz avvincente e incisivo, che ha saputo amalgamare il torrido eloqio post-coltraniano di Lauer con l'opulenza timbrica di Godard e la fantasia ritmico-percussiva di Héral.

Concludiamo con le ultime due proposte del festival: il quintetto austro-argentino di Karlheinz "Carlitos" Miklin e il duo Boris Savoldelli -Garrison Fewell, rispettivamente alla Kulturni Dom di Nova Gorica in Slovenia e all'abbazia di Rosazzo a Manzano.

Guidato dall'energico polistrumentista Miklin, già preside del dipartimento jazz all'università di Graz, il quintetto presentava validi strumentisti argentini, tra cui spiccavano il veterano Gustavo Bergalli alla tromba e Mario Gusso alle congas. Il gruppo ha eseguito un variopinto latin jazz con innesti etnici, senza farsi ingabbiare dagli stereotipi del genere. Un organico inventivo e ricco di brio, che ha ben figurato sia come collettivo che negli interventi personali, ottenendo vivi apprezzamenti dal pubblico.

Infine il duo dell'audace vocalist bresciano col prestigioso insegnante della Berklee, che ha appena pubblicato il disco Electric Bat Conspiracy. Una collaborazione apparentemente anomala tra uno sperimentatore a tutto campo e un raffinato chitarrista ma in realtà avvincente per la condivisione delle rispettive "zone d'ombra," che trovano modo di specchiarsi. L'allievo di Mark Murphy e partner di Elliott Sharp, ha saputo evidenziare intimo appeal e intensità lirica (ad esempio in "Perfect Day" di Lou Reed) tanto quanto Fewell ha dato libera espressione alla sua anima sperimentale (come in "A Not So Foolish Heart"). La dimensione di ricerca è comunque stata prevalente ed ha offerto good vibrations in relazione all'austero scenario dell'abbazia.

Foto
Fabio Gamba (Phocus Agency)

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