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Il fascino sostenibile della leggerezza #2

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In poche parole ci riproviamo: a tagliare una seconda volta in orizzontale, grosso modo a distanza di un semestre, una fetta di produzione discografica, a conti fatti dischi arrivati nell'ultimo paio di mesi (ma in due o tre casi usciti in precedenza), per soppesare quanto il titolo di quel primo "sopralluogo" (a tesi) (clicca qui per leggerlo) resista al protrarsi del tempo. Con una premessa che ci rimanda a fine ottobre, all'ultimo Premio Tenco, dove la targa all'opera prima è andata—come sempre previo sondaggio fra un paio di centinaia di giornalisti—a un lavoro che la leggerezza la pratica con estrema nonchalance, La Scapigliatura (titolo dell'album e nome del gruppo), con quel tanto di sfrontatezza falso-alternativa che riesce a mettere molti (non tutti, per fortuna) d'accordo.

C'era di meglio, ovviamente (Maldestro, Simona Norato, e svariati altri), ma tant'è: non senza lasciare in chi scrive la convinzione che una copertina ammiccante il giusto abbia giocato pure lei un qualche ruolo, i due fratelli cremonesi, scapigliati 2.0 (bisognerebbe multare chi usa certe definizioni), hanno avuto buon gioco, laddove Il mio stile di Mauro Ermanno Giovanardi, di cui avevamo riferito giusto nel pezzo che funge da antefatto a questo, è stato eletto, certo con maggior merito, disco dell'anno e altri album di cui ci siamo colà occupati sono entrati nelle varie cinquine.

Entrando nel cuore della scarrozzata odierna (nove album, come allora), partiamo dalla pugliese Erica Mou, rivelatasi giovanissima nel 2009 (è del '90) con Bacio ancora le ferite, album rimasto di fatto inedito (se non in poche copie appunto per la stampa), che, persa per un po' di vista (in mezzo un Sanremo, nel 2012, con premi della critica e della sala stampa fra i giovani), ritroviamo oggi in Tienimi il posto (Auand), tredici brani un po' sovrabbondanti di testo (e quindi di cantato), peraltro fortemente ripetitivo, come ritorto su se stesso (per una precisa—quanto magari opinabile—scelta di campo, diremmo), il tutto porto con incedere vagamente cantilenante, con quella voce fanciullesca che finisce per ammorbidire, smussare, rendere più lieve (esile?) ogni passaggio di una proposta che pure conserva una sua sommessa eleganza. Fanno almeno parziale eccezione i brani finali, dotati di qualche più o meno fugace intercapedine strumentale. Giudizio sospeso, quindi, per un'artista che come detto al suo apparire aveva giustificato non poche attese.

Esordiente qualche anno prima (2002), con l'odierno Bellavita (Adesiva Discografica) anche la palermitana Marian Trapassi giunge al suo quarto album, dando l'impressione di cavalcare la stessa levità della collega pugliese (di Bisceglie, per la precisione), magari con una vocalità e un impianto testuale un po' più maturi (questione di età e timbro, non fosse altro). In realtà, poi, le tematiche ruotano anche qui di preferenza attorno all'eterno rapporto di coppia, toccato con mano più o meno incisiva. È una volta di più l'abito musicale (gli arrangiamenti, certo, ma non solo) a trasmettere la diffusa impressione di leggerezza di cui ci occupiamo, a fronte di testi non privi di arguzia (specie sul finire, per esempio in "Finimondo" o nella stessa "Por el amor de amar" della maiorchina Concha Buika), benché a supporto dell'artista siciliana ci siano fior di musicisti, Mario Arcari su tutti.

Leggerezza a gogò anche nel nuovo lavoro del quarantasettenne napoletano Lino Blandizzi, Da noi in Italia (Graf Music / Audioglobe), ultimo di una serie partita nel lontano 1991. L'album contiene peraltro almeno un pezzo assolutamente da tenere a mente, "Il Commissario Ricciardi," che ricorda curiosamente il Vittorio De Scalzi più recente, quello degli Occhi del mondo (2011) su testi di Riccardo Mannerini ("Gionata Orsielli," in particolare). Ci sono anche un paio di cover, azzeccate, "E la vita la vita" di Cochi & Renato via Jannacci, e "T'aspetto 'e nove" di Carosone, in napoletano, così come (almeno in prevalenza) un altro bell'episodio dell'album (in questo caso di Blandizzi), "Il buongiorno del caffè." Il tutto fra altre inflessioni descalziane (la voce, il modo di porgere), insinuazioni simil-fossatiane e, in chiusura, un bel solo di sax tenore di James Senese.

Sempre sud, più o meno profondo, per il leccese (quindi per una volta non strettamente marino) Raffaele Vasquez, che in Me (Workin' Label) denuncia parentele vocali caposseliane (almeno sul registro medio-alto) e un certo spessore interpretativo globale, con un'insinuante bizzarria di fondo che non manca di una qualche originalità. Fra le pieghe del disco si nasconde pure un Ciampi minore, "Hanno arrestato anche l'inverno," a compenetrarsi col resto, elevandolo, per un prodotto, a conti fatti, non sempre memorabile, ma neppure privo di zampate vincenti.

Rimettendo i piedi esplicitamente a bagno, ma risalendo un bel po' di stivale, eccoci a Genova con Mosè Santamaria (peraltro oggi di stanza a Verona), debuttante trentaduenne che si dichiara "svezzato a Talking Heads, Depeche Mode e The Cure ma folgorato un pomeriggio al rientro dall'asilo da La voce del padrone di Franco Battiato." Grosso modo lungo queste coordinate ispiratrici (infilandoci anche Juri Camisasca), il nostro si è via via avvicinato alla sua opera prima, #RisorseUmane (Dischi Soviet Studio), composita, a tratti persino complessa (forse perché non sempre di facile decodifica, il che non è necessariamente un difetto), con una leggerezza più di facciata che di sostanza. Attendiamo sviluppi (il disco è appena uscito, il 4 dicembre).

Opera seconda per un duo, sempre ligure (spezzino), Le Canzoni da Marciapiede, alias Valentina Pira, voce, e Andrea Belmonte, pianoforte, sul cui asse i brani si sdipanano, nonostante l'album, Un circo di paese (autoprodotto), veda la presenza di altri sette musicisti. La leggerezza, qui, passa attraverso una precisa scelta di campo volta al recupero di una forma di teatro-canzone che riprende profumi d'antan, popolari e popolareschi. E come nell'opera prima il teatro di tale riesumazione era un classico pranzo di nozze, qui, come ci dice il titolo, è il microcosmo del circo, veicolo e metafora di vite che definiremmo periferiche, oggi più che mai, il tutto con garbo, ritmi danzanti e sana vena scenica (pur trattandosi di supporto solo audio). Citando fra l'altro Edith Piaf nel centenario della nascita (il 19 dicembre) e pescando da situazioni variopinte. Anche qui, come già per Erica Mou, con qualche sovrabbondanza di testo che si ha motivo di ritenere figlia del mezzo specifico (privo di immagine, appunto).

Immettendoci in dirittura d'arrivo, apriamo a questo punto un rapido squarcio su una canzone che non guarda a un passato più o meno strettamente autoctono, quanto geograficamente remoto (ma non emotivamente, per contraltare), quello angloamericano, per lingua (gruppi e singoli che scrivono e cantano in inglese sono sempre più numerosi, dalle nostre parti) e atmosfere musicali. Alla ricerca di una sostanziale linearità, almeno a grandi linee e almeno relativamente ai due casi di cui ci occupiamo.

Il primo riguarda Damien McFly, italianissimo (padovano, per l'esattezza, al secolo Damiano Ferrari), che in Parallel Mirrors (autoprodotto, e graficamente molto curato) convoglia dodici brani di sua composizione, dopo quattro album di cover, fase che gli è servita non poco per padroneggiare ciò che oggi mette appunto a frutto in questo lavoro totalmente suo, segnato da un country-pop ben costruito e oliato, fragrante (specie quando alla chitarra e a tutto il resto si unisce la fisarmonica) e di facile fruizione, con una vocalità che ricorda vagamente Sting.

Un po' più complesso il discorso che riguarda Duty Free Rockets (Gutenberg), album che segna la rentrée di un gruppo (a conti fatti, oggi, un'unica persona: Luca A. Rossi) che negli anni Novanta ebbe una certa risonanza, sia pure lungo altre coordinate stilistiche. Stiamo parlando degli Üstmamò (in dialetto reggiano "proprio ora"), che ricordiamo entrare in scena a un Premio Tenco di una ventina d'anni fa su lunghissimi trampoli. Facevano parte di quel manipolo di nuovi gruppi affermatisi in quegli anni (Mau Mau, Yo Yo Mundi, Lou Dalfin, ecc.) che praticavano una forte ibridazione idiomatica di ascendenza folk, ricorrendo a lingue varie, dialetto in primis. Oggi quel processo sembra largamente virato in favore di un'adesione totale alla lingua inglese, anche come sonorità, decisamente popeggianti. Undici i brani, tra cui due cover: "Don't Go to Strangers" di J.J. Cale (1971) e "Hambone" di Carl Perkins (1962).

Per chiudere il cerchio di questa nostra carrellata e dei numerosi input ereditati (brani originali e non, italiano e inglese, altre lingue, idiomi, ecc.) scegliamo un trio, però non di taglio cantautoriale, semmai para-jazzistico e para diverse altre cose, Youlook, alias Luisa Cottifogli (ex-Quintorigo), voce, Aldo Mella, basso, corde e diavolerie varie, e Gigi Biolcati, percussioni e altro. L'album in oggetto, Desert Island (Patanpanà), abbina pagine dei tre performer, spesso senza testo (quindi giocate sul puro vocalizzo), un brano e mezzo in italiano e il resto in inglese o portoghese. Sei (sui tredici pezzi totali) le cover, da "Angie" dei The Rolling Stones a "Shine on You Crazy Diamond" dei Pink Floyd, "Manha do Carnaval" di Luiz Bonfa e "Meu Amanha" di Lenine, "Afro-Blue" di Mongo Santamaria e un tradizionale irlandese, "She Moved Through the Fair," cantato a suo tempo anche da Sinead O'Connor. Il tutto nel segno di un'accogliente aromaticità qua e là ammantata d'Africa, incruenta e magari un po' epidermica, ma sempre in possesso della necessaria eleganza e misura.

E con questo ci diamo appuntamento a un'eventuale terza puntata del nostro viaggio periodico sugli effetti di un vezzo oggi quanto mai in auge nella canzone più o meno d'autore (i confini sono sempre più labili), ossia l'esigenza di leggerezza (di disimpegno, almeno formale?) che anche in questo caso chi più chi meno sa rendere sostenibile, a monte, cioè senza farsene invadere o soggiogare, e a valle, cioè sapendocelo rendere digeribile. Come sempre buon ascolto.

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