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Keith Jarrett, Charlie Haden, Paul Motian: Hamburg '72
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Un paio di premesse. Doverose: per onestà intellettuale e per profondità di campo.
La prima: da un pezzo ho smesso di emozionarmi per l'ennesimo disco di Keith Jarrett. Gli ultimi flebili sussulti risalgono al 2000, al doppio Whisper Not, prova di gran classe pur nell'ambito di un virtuosismo che da tempo si era già fatto maniera, cristallizzato in una visione orizzontale e funerea del jazz. Da allora solo sbadigli, disappunto e un crescente fastidio per le lodi a prescindere («Ma no, questo disco non è come quello prima». Peccato che anche quello prima non fosse come quello prima ancora, e via così all'infinito).
La seconda: trovo ormai insopportabili pose e capricci da super diva. Dalla pretesa di legare le campane alla fobia per i telefonini, dagli innamoramenti per questo o quel pianoforte alla fissazione per i 19 gradi di temperatura, soglia al di sotto della quale il nostro nemmeno si leva il cappottino. Ovviamente tutto è lecito; Jarrett la stella, uno degli ultimi a riempire teatri e palazzetti, può permettersi questo e altro. Ma la sensazione che il jazz ormai passi altrove, che urgenza e ispirazione abbiano gettato la spugna, è sempre più netta e sempre meno ineludibile.
E pensare che c'è stato un tempo in cui il giovane Keith stava esattamente al centro della musica. Tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, nel bel mezzo della rivoluzione a colpi di chitarre e tastiere del Miles elettrico, le dieci dita di Jarrett volavano leggere e felici, annunciando l'epifania di un talento clamoroso. Che nel giro di una manciata di dischi, orbitando attorno al Davis post Bitches Brew, si sarebbe spinto con decisione oltre le colonne d'Ercole della complicatissima eredità di Bill Evans, smarcandosi con eleganza e fantasia da luoghi comuni che già si stavano facendo paralizzanti.
Risale a quell'esaltante periodo Hamburg '72, che l'ECM e Manfred Eicher hanno deciso saggiamente di strappare all'oblio e dare degnamente alle stampe. Con Jarrett ci sono Paul Motian alla batteria e Charlie Haden al contrabbasso, compagni di strada fin dai tempi di Life Between the Exit Signs, esordio del pianista datato 1967. Cinque anni prima del concerto catturato magistralmente dalla NDR nello Studio 10 di Amburgo, durante uno dei mitici Jazz Workshop organizzati dall'emittente tedesca (che dalla fine dei Sessanta hanno ospitato l'Art Ensemble, John Surman, Oscar Peterson, i Soft Machine, Roland Kirk e tanti altri).
Cinque anni soltanto. Eppure la distanza da quel primo, timido affacciarsi è a dir poco abissale. Il trio è cresciuto, l'intesa si è affinata, gli orizzonti allargati a dismisura. Jarrett, Haden e Motian si cercano, dialogano; con avventurosa urgenza e voglia di rischiare. L'attacco dell'iniziale "Rainbow" parla chiaro: Jarrett introduce il brano con fare sognante, due minuti e mezzo di carezze e sussurri. Poi, all'improvviso, invece di assecondare la voglia di tenerezza del pianoforte, magari impugnando le spazzole, Motian entra a gamba tesa martellando sui piatti. Un turbine metallico di accenti e sottolineature a volume altissimo, quasi a sfidare le linee rassicuranti di Jarrett. Il risultato? Una feroce tensione che scongiura il rischio appiattimento, evitando che il gioco delle parti si riduca a mera superficie (cosa che negli anni a venire sarebbe capitata sempre più spesso).
Altrettanto esaltante "Piece for Ornette," che ci ricorda quanto Jarrett facesse sul serio allora con il sax soprano (siamo dalle parti di Sam Rivers più che di Steve Lacy). Mentre la gioiosa "Take Me Back," scandita dagli ostinato impeccabili del contrabbasso di Haden, sterza decisamente verso il cantabile, facendo impallidire in quanto a spavalderia la versione "ufficiale" affidata a Expectations. Chiusura da brividi con una strepitosa rilettura di "Song for Che," brano firmato Haden la cui esecuzione, durante un concerto portoghese del quartetto di Ornette Coleman nel novembre dell'anno prima, era costata un duro interrogatorio e qualche ora in cella al contrabbassista. Colpevole di aver inneggiato ai movimenti di liberazione dell'Angola, del Mozambico e della Guinea-Bissau, che proprio in quei mesi stavano lottando per affrancarsi dal giogo coloniale. Fermato dalla polizia segreta di Salazar il giorno dopo l'applauditissima esibizione, Haden venne rilasciato anche grazie alle pressioni esercitate dal governo americano. Una gran brutta avventura, il cui ricordo sembra riecheggiare nel pizzicato orgoglioso del contrabbasso. Al quale spetta il compito di snocciolare il tema, affettuosamente supportato da un tappeto di percussioni. Poi spazio al sax soprano e ai tamburi; mentre nel finale, dopo uno struggente intermezzo del pianoforte, è di nuovo Haden a riannodare i fili sparsi del discorso, con piglio accorato e guerriero.
Emozionante. Pubblico in delirio, battimani ritmato, applausi, applausi e ancora applausi per il Jarrett che non c'è più.
La prima: da un pezzo ho smesso di emozionarmi per l'ennesimo disco di Keith Jarrett. Gli ultimi flebili sussulti risalgono al 2000, al doppio Whisper Not, prova di gran classe pur nell'ambito di un virtuosismo che da tempo si era già fatto maniera, cristallizzato in una visione orizzontale e funerea del jazz. Da allora solo sbadigli, disappunto e un crescente fastidio per le lodi a prescindere («Ma no, questo disco non è come quello prima». Peccato che anche quello prima non fosse come quello prima ancora, e via così all'infinito).
La seconda: trovo ormai insopportabili pose e capricci da super diva. Dalla pretesa di legare le campane alla fobia per i telefonini, dagli innamoramenti per questo o quel pianoforte alla fissazione per i 19 gradi di temperatura, soglia al di sotto della quale il nostro nemmeno si leva il cappottino. Ovviamente tutto è lecito; Jarrett la stella, uno degli ultimi a riempire teatri e palazzetti, può permettersi questo e altro. Ma la sensazione che il jazz ormai passi altrove, che urgenza e ispirazione abbiano gettato la spugna, è sempre più netta e sempre meno ineludibile.
E pensare che c'è stato un tempo in cui il giovane Keith stava esattamente al centro della musica. Tra la fine dei Sessanta e l'inizio dei Settanta, nel bel mezzo della rivoluzione a colpi di chitarre e tastiere del Miles elettrico, le dieci dita di Jarrett volavano leggere e felici, annunciando l'epifania di un talento clamoroso. Che nel giro di una manciata di dischi, orbitando attorno al Davis post Bitches Brew, si sarebbe spinto con decisione oltre le colonne d'Ercole della complicatissima eredità di Bill Evans, smarcandosi con eleganza e fantasia da luoghi comuni che già si stavano facendo paralizzanti.
Risale a quell'esaltante periodo Hamburg '72, che l'ECM e Manfred Eicher hanno deciso saggiamente di strappare all'oblio e dare degnamente alle stampe. Con Jarrett ci sono Paul Motian alla batteria e Charlie Haden al contrabbasso, compagni di strada fin dai tempi di Life Between the Exit Signs, esordio del pianista datato 1967. Cinque anni prima del concerto catturato magistralmente dalla NDR nello Studio 10 di Amburgo, durante uno dei mitici Jazz Workshop organizzati dall'emittente tedesca (che dalla fine dei Sessanta hanno ospitato l'Art Ensemble, John Surman, Oscar Peterson, i Soft Machine, Roland Kirk e tanti altri).
Cinque anni soltanto. Eppure la distanza da quel primo, timido affacciarsi è a dir poco abissale. Il trio è cresciuto, l'intesa si è affinata, gli orizzonti allargati a dismisura. Jarrett, Haden e Motian si cercano, dialogano; con avventurosa urgenza e voglia di rischiare. L'attacco dell'iniziale "Rainbow" parla chiaro: Jarrett introduce il brano con fare sognante, due minuti e mezzo di carezze e sussurri. Poi, all'improvviso, invece di assecondare la voglia di tenerezza del pianoforte, magari impugnando le spazzole, Motian entra a gamba tesa martellando sui piatti. Un turbine metallico di accenti e sottolineature a volume altissimo, quasi a sfidare le linee rassicuranti di Jarrett. Il risultato? Una feroce tensione che scongiura il rischio appiattimento, evitando che il gioco delle parti si riduca a mera superficie (cosa che negli anni a venire sarebbe capitata sempre più spesso).
Altrettanto esaltante "Piece for Ornette," che ci ricorda quanto Jarrett facesse sul serio allora con il sax soprano (siamo dalle parti di Sam Rivers più che di Steve Lacy). Mentre la gioiosa "Take Me Back," scandita dagli ostinato impeccabili del contrabbasso di Haden, sterza decisamente verso il cantabile, facendo impallidire in quanto a spavalderia la versione "ufficiale" affidata a Expectations. Chiusura da brividi con una strepitosa rilettura di "Song for Che," brano firmato Haden la cui esecuzione, durante un concerto portoghese del quartetto di Ornette Coleman nel novembre dell'anno prima, era costata un duro interrogatorio e qualche ora in cella al contrabbassista. Colpevole di aver inneggiato ai movimenti di liberazione dell'Angola, del Mozambico e della Guinea-Bissau, che proprio in quei mesi stavano lottando per affrancarsi dal giogo coloniale. Fermato dalla polizia segreta di Salazar il giorno dopo l'applauditissima esibizione, Haden venne rilasciato anche grazie alle pressioni esercitate dal governo americano. Una gran brutta avventura, il cui ricordo sembra riecheggiare nel pizzicato orgoglioso del contrabbasso. Al quale spetta il compito di snocciolare il tema, affettuosamente supportato da un tappeto di percussioni. Poi spazio al sax soprano e ai tamburi; mentre nel finale, dopo uno struggente intermezzo del pianoforte, è di nuovo Haden a riannodare i fili sparsi del discorso, con piglio accorato e guerriero.
Emozionante. Pubblico in delirio, battimani ritmato, applausi, applausi e ancora applausi per il Jarrett che non c'è più.
Track Listing
Rainbow; Everything That Lives Laments; Piece for Ornette; Take Me Back; Life Dance; Song for Che.
Personnel
Keith Jarrett
pianoKeith Jarrett: piano, flauto, percussioni, sax soprano; Charlie Haden: contrabbasso; Paul Motian: batteria e percussioni.
Album information
Title: Hamburg '72 | Year Released: 2014 | Record Label: ECM Records
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