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Considerazioni a margine di “Faces&Places – uomini e luoghi del jazz a Bologna”

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La nebbia a gl'irti colli

Piovigginando sale,

E sotto il maestrale

Urla e biancheggia il mar;...

Anche se a Bologna il mare non c'è e di nebbia negli ultimi anni non se ne vede un gran che, l'autunno ha comunque portato i suoi frutti di stagione: la vita culturale della città, i cui appellativi "dotta" e "grassa" vivono sempre in simbiosi, è esplosa in tutta la sua varietà di proposte. Basta guardare i programmi delle numerose rassegne musicali e teatrali che vari soggetti, talvolta in collaborazione fra loro, organizzano in oltre quindici teatri diversi, per rendersi conto che l'offerta di spettacolo a Bologna, se rapportata al numero di abitanti, è la più alta e qualificata a livello nazionale... nonostante la crisi che tutti attanaglia.

Nello specifico, dal 15 al 25 novembre si è svolta con successo la settima edizione del rinato Bologna Jazz Festival. È il caso di segnalare che al suo interno è stata inaugurata, con un concerto in solo di Franco D'Andrea, la mostra "Faces&Places—uomini e luoghi del jazz a Bologna," che ha chiuso i battenti il 6 gennaio 2013. La mostra, che merita qualche riflessione a margine, con manifesti, documenti e foto d'epoca ripercorre la vita jazzistica bolognese a partire dagli anni Cinquanta; in particolare, documenta il festival che sotto la direzione di Alberto Alberti e Cicci Foresti a cavallo fra anni Sessanta e Settanta fu forse il più importante d'Italia.

In quel periodo la sinergia (mai verificatasi dopo la chiusura del festival nel 1975) stretta fra i due direttori artistici, l'Assessorato alla Cultura comunale e l'illuminata Sovrintendenza di Carlo Maria Badini al Teatro Comunale, fece sì che il jazz più interessante venisse proposto con continuità anche al di fuori del festival: al Teatro Comunale, al Teatro Duse, al Palazzo dello Sport, alla Sala Bossi del conservatorio, perfino nelle sale di quartiere ("decentramento" era uno degli slogan del tempo). A tale proposito non si possono dimenticare i numerosi concerti in solo che Cecil Taylor, dopo aver partecipato al festival, nell'ottobre 1968 tenne nei locali più disparati; la maggior parte dello sparuto pubblico (increduli e occasionali pensionati o jazzfan accorsi appositamente) si dileguava alla spicciolata frastornata dall'irruenza dell'imperterrito e concentratissimo pianista.

Una piccola nota autobiografica: che nostalgia riconoscermi in una foto del 1968! Quella sera non precisata sul palco della Sala Bossi suonava il quintetto di Slide Hampton e Cecil Payne, completato da Franco D'Andrea, Marcello Melis e Franco Tonani; l'immagine scattata alle spalle dei musicisti ritrae la platea in cui io, con quel barbone nero e compatto che mi aveva procurato il soprannome di "barba di legno" fra i compagni di facoltà, sedevo compunto lungo la corsia centrale.

La mostra ricorda velocemente anche alcune iniziative organizzate a singhiozzo negli anni Ottanta dal Jazzclub Bologna nel tentativo di riportare in vita il festival. Si arriva poi a riassumere le ultime edizioni che dal 2006, sotto l'impulso dato dal compianto Massimo Mutti, si sono susseguite con grande coerenza, nella linea grafica come in quella organizzativa ed artistica.

Tutto l'impianto della mostra, allestita forse un po' frettolosamente, sembra rispondere a un preciso obiettivo: quello di rivendicare una continuità ideale fra il festival storico di Alberti e Foresti e il Bologna Jazz Festival attuale, quasi una germinazione di quest'ultimo da quello, sorvolando sulle differenze sostanziali di carattere sociale e artistico che la distanza storica ha per forza di cose interposto fra le due manifestazioni.

Quest'impostazione della mostra comporta implicitamente anche un'altra scelta, un limite conseguente: quello di dimenticare tutta l'intensa attività che a Bologna è stata svolta al di fuori del festival.

Bisogna ricordare innanzi tutto che all'interno del DAMS dell'Università, il capostipite di tutti i corsi di laurea analoghi a livello nazionale, nel 1969 venne istituita la prima cattedra di Civiltà musicale afro-americana, tenuta da Giampiero Cane fino a pochi anni fa. La discoteca jazz "Barbara Balocco" inoltre, gestita da un manipolo di giovani volontari presso la sede del quartiere Irnerio, negli anni Settanta svolse una meritoria attività di sensibilizzazione con conferenze, audizioni e concerti.

Non si può dimenticare in particolare la continuativa e qualificata programmazione concertistica curata in diversi periodi degli anni Ottanta e Novanta dai jazzclub: il Music Inn in zona aeroporto, il Q.Bò, l'Osteria dell'Orsa... In questi locali passarono tutti i nomi più prestigiosi del momento, da Tim Berne con Miniature alla Lester Bowie Brass Fantasy, da Steve Lacy, varie volte, a The Leaders, da Hermeto Pascoal agli olandesi Reijseger, Bennink e compagni. A quelle esperienze negli ultimi vent'anni se ne sono sostituite altre ugualmente propositive, dalla Cantina Bentivoglio ad Angelica Festival per citare solo due realtà che dal punto di vista organizzativo ed estetico-comunicativo perseguono obiettivi opposti.

Si potrebbe poi parlare dei musicisti di varie tendenze attivi nel capoluogo emiliano e dei diversi collettivi (dalla dimenticata e velleitaria Cooperativa La Pera degli anni Settanta al ben più consistente collettivo Bassesfere, nato nei primi anni Novanta e ancora molto vitale)... ma questo costituirebbe un capitolo a sé stante, importante ma tangenziale rispetto a quello della promozione-programmazione-fruizione del jazz a Bologna.

Ci sarebbe insomma materia per fare un'altra mostra, complementare a quella ricordata, ammesso che ci sia qualcuno che abbia il tempo, il rigore e la motivazione per organizzarla con oggettività, senza farsi risucchiare nel vortice della nostalgia e senza secondi fini autocelebrativi.

Foto di Eurialo Puglisi.


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