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Bergamo Jazz 2014

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Teatro Donizetti—Teatro Sociale—Auditorium—Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea
Bergamo
16-23.03.2014

La trentaseiesima edizione di Bergamo Jazz, che ha coinciso con il piovoso irrompere della primavera, presentava un cartellone sulla carta molto interessante, uno dei più stimolanti degli ultimi decenni, congegnando il giusto mix fra nomi di grosso richiamo e nomi nuovi della ricerca jazzistica statunitense. A posteriori il bilancio ha lasciato un po' l'amaro in bocca: alcuni gruppi non hanno del tutto convinto, risultando un po' al disotto delle aspettative, ma forse erano proprio queste ultime ad essere eccessive e poco realistiche.

Poderosa la solo performance di Joao Luis Lobo, batterista portoghese ben noto in Italia ed oggi residente a Bruxelles. Alla Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea il suo set pomeridiano ha introdotto i tre giorni conclusivi del festival, arricchito nei giorni precedenti da iniziative collaterali, fra le quali il concerto dei The Bad Plus al Teatro Sociale di Bergamo Alta. Nel drumming di Lobo la concretezza materica di un sound totalmente acustico, antilezioso e quasi aspro ha rivestito strutture poliritmiche in concatenate progressioni, disegnando vere e proprie composizioni originali sul classico set della batteria jazz. Se proprio si volessero individuare analogie con precedenti storici si potrebbe fare il nome di Milford Graves.

I Concerti al Teatro Donizetti sono stati aperti dal progetto "Snowy Egret" del quintetto di Myra Melford, con un repertorio dedicato all'opera dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. La leader ha per lo più tracciato temi, riff, connessioni, suggerendo sviluppi e sostenendo comunque la regia di progressioni che hanno lasciato molto spazio ai collaboratori: su tutti ha spiccato la voce evocativa e lirica, ma a tratti più cruda, della cornetta di Ron Miles, a cui ha fatto riscontro la chitarra acustica, dall'incedere limpido e avvolgente, di Liberty Ellman. Ottimo il lavoro connettivo, misurato e attento, di Stomu Takeishi e Ted Poor. Nelle improvvisazioni solistiche, un paio in tutto, la Melford ha coniugato due anime: da un lato ha esposto un pianismo percussivo e dinamico, su ampi intervalli, d'impronta decisamente free con qualche riferimento a Taylor, dall'altro linee più concatenate dai sapori folk, perfino antillesi, e talvolta accenti tyneriani. Nel complesso il quintetto ha dimostrato una grande fusione e una consapevole pacatezza nell'affrontare situazioni diversificate.

L'atteso quintetto del quarantenne Nate Wooley ha invece inaugurato la serie di concerti diurni all'Auditorium di Piazza della Libertà. Rispetto ai CD della Clean Feed, basati su una scrittura più fitta e sulla salda compenetrazione delle voci, il materiale tematico del concerto e la conduzione generale hanno in parte differito, avviando sviluppi improvvisativi più dilatati che hanno valorizzato le pronunce personali. L'ampia gamma di accenti dell'eloquio della tromba del leader si è mossa da veloci fraseggi free a momenti in cui la vena meditativa e malinconica ha ricordato quella del texano Dennis Gonzalez. Fra i partner del quintetto si è distinto soprattutto Matt Moran per il drive e le sonorità riverberanti del suo vibrafono, ma anche gli interventi di Josh Sinton al clarinetto basso (ben poco dolphiano) e al baritono si sono rivelati tutt'altro che risaputi. Pertinenti e attenti ma non particolarmente incisivi i contributi di Eivind Opsvik al contrabbasso e Harris Eisenstadt alla batteria.

Le collaudate formazioni dei gruppi della Melford e di Wooley rappresentavano dunque delle piccole all stars dell'attuale scena jazzistica statunitense. Una terza proposta, quella del quartetto pilotato da Russ Johnson e Ken Vandermark, in equilibrio fra consapevolezza e slancio lirico, ha offerto una delle sintesi espressive ancor più credibili della frastagliata ricerca in atto in quell'area.
In realtà si tratta di un collettivo paritario il cui repertorio include brani di ogni componente. Gli andamenti strutturali sono risultati decisamente insoliti, anche se tutto sommato semplici e sempre leggibili. Di questa concezione strutturale è parsa significativa la funzione assegnata alla batteria, mai di accompagnamento ma piuttosto compositiva e registica. Timothy Daisy comunque è stato superlativo anche nel paio di assoli presi, uno dei quali sostenuto da un riff tracciato dal violoncello di Fred Lonberg-Holm e dal baritono di Vandermark. Appunto questi due hanno impersonato le componenti più visionarie e lancinanti in seno al gruppo: il violoncellista con una sonorità tagliente deformata elettronicamente e con improvvisi sussulti di energia, il sassofonista con esasperazioni di pronuncia, aspre e affilate al clarinetto, abrasive al baritono. Al contrario la tromba di Russ Johnson, attivo anche nell'ambito della musica classica, ha espresso un linguaggio prevalentemente pacato e razionale, mai stentoreo, quasi appartato anche nei momenti di maggiore turbolenza.
Come bis è stato proposto un brano tripartito (incipit lento su una linea distesa e struggente, il crescendo di un'improvvisazione infervorata nella fase centrale, breve coda di decantazione ad opera dei due fiati) scritto da Daisy e dedicato a John Tchicai.

Il quartetto di Joshua Redman, probabilmente il nome di maggior richiamo in cartellone, ha sciorinato un linguaggio forbito, superprofessionale, coinvolgente, rientrante tuttavia in una collaudata formula che, per quanto personale, si riaggancia alla più canonica tradizione comunicativa e stilistica del jazz. Si potrebbe sostenere che, trattandosi di un festival jazz, non si potrebbe chiedere di meglio. Ritengo invece che oggi come ieri, nel jazz come in qualsiasi altra espressione artistica, più che la perfezione virtuosistica e l'adesione fedele ad una centralità culturale univoca, oltre all'indispensabile trasporto emotivo si dovrebbe ricercare una problematica trasversalità del massaggio, una proiezione che tenda a trascendere le certezze acquisite. Tutto questo lo si è riconosciuto poco nel concerto del tenorista, conclusosi forse con l'idea più convincente e autentica: l'infuocata progressione che ha caratterizzato l'interpretazione di un successo pop come "Let It Be."

Se l'apparizione di Redman non ha aggiunto nulla a quanto già espresso in concerti del passato, occasione unica offerta da Bergamo Jazz 2014 è stata quella di ascoltare il quartetto di Dave Douglas integrato dall'ospite Tom Harrell. I due trombettisti avevano avuto modo di suonare assieme una ventina d'anni fa in una jam session; oggi l'opportunità della reunion è stata propiziata dal direttore artistico Enrico Rava, che ha sempre avuto un'attenzione particolare per i suoi colleghi di strumento. Il connubio ha funzionato al di là di ogni aspettativa soprattutto perché Harrell ha aggiunto autenticità e peso specifico alla musica attuale di Douglas, che è esplicitamente orientata verso l'ortodossia di un mainstream di matrice hard-boppistica. Brani dell'uno o dell'altro trombettista hanno trovato distesi sviluppi, che negli spunti solistici hanno evidenziato le differenze fra i mondi espressivi e formali dei due interpreti: rotondi, poetici e conseguenti gli interventi di Harrell, più dinamici, imprevedibili, aciduli quelli di Douglas. I partner (membri abituali del quintetto di Douglas: Luis Perdomo, Linda May Han Oh e Anwar Marshall) hanno svolto la loro funzione con efficace professionalità.

Gli esponenti italiani hanno ben figurato senza comportare sorprese sensazionali. Dopo tre anni di vita "Il Bidone" del gruppo di Gianluca Petrella ha dimostrato di avere ancora una consistente ragione di essere. A Bergamo l'omaggio a Nino Rota ha convinto i più, reggendosi su una grande carica ritmica e su una visionaria deformazione di stampo espressionista. La prima è stata garantita dalla pulsazione lineare e rotonda del contrabbasso di Joe Rehmer e soprattutto dal drumming perentorio e incalzante, ricco di sfaccettature timbriche, dell'insostituibile Cristiano Calcagnile. Alla trasfigurazione visionaria del mondo rotiano ha provveduto l'interplay mobile e motivato fra le voci dei protagonisti della front line: il canto estremo e cangiante di John De Leo, il baritono sornionamente insinuante di Beppe Scardino, il trombone del leader sempre più essenziale e denso nella sua estesa gamma di suggestioni. Il piano di Giovanni Guidi ha inserito colori ora cristallini e incantatori, ora più scuri e turbinosi.
Il concerto mattutino del trio di Enrico Zanisi, organizzato in collaborazione con il Jazz Club Bergamo, ha proposto brani dal recentissimo Keywords e dai due CD precedenti. La diteggiatura del giovane pianista romano, sensibile e sempre tenuta sotto controllo, ha condotto una narrazione fatta di delicatezze e sospensioni, di accensioni affermative e malinconiche meditazioni, di divagazioni e riprese. Congeniale e ben calibrato il contributo di Joe Rehmer e Alessandro Paternesi.

Grande curiosità c'era l'ultima sera per il duo francese Michel PortalVincent Peirani. Ci si potrebbe domandare quali differenze si possano riscontrare fra questo recente sodalizio e la precedente collaborazione fra Portal e Richard Galliano, per capire se da parte dell'anziano clarinettista ci sia un atteggiamento di rivalsa, di nostalgia, di sfida o semplicemente un'esigenza di rinnovamento. Per esempio la versione di "Blow Up" è parsa molto diversa da quella del passato con Galliano, più elaborata, arabescata, con il tema che è emerso all'unisono solo nel finale, in sostanza meno immediata. Così anche "Cuba sì, Cuba no" (suggestione musicale ispirata a Cuba, ma paradossalmente contenente anche accenti balcanici), che ha subìto eccentriche deformazioni armoniche nella lunga introduzione di Peirani. Di quest'ultimo inoltre si sono potute ascoltare alcune recenti composizioni, in parte pensate appositamente per il duo, ora esplicitamente popolaresche, ora più evocative...
In definitiva il connubio, che ha funzionato in quanto condotto da due virtuosi dei rispettivi strumenti in buona sintonia fra loro, si è differenziato nettamente dagli esiti dei passati incontri Portal-Galliano, la cui musica era tanto esplicita, lapidaria e travolgente, quanto questa è risultata sofisticata, più decantata, non certo intellettualistica ma dal retrogusto un po' latente e mesto. A ben vedere, un velo di malcelata e disillusa nostalgia lo si è potuta scorgere nell'emissione delle ance del pur motivato e ancora tecnicamente ineccepibile clarinettista settantottenne.

Come i fuochi d'artificio a conclusione della festa del patrono, così la facile spettacolarità della Trilok Gurtu Band ha chiuso questa edizione del festival. Fra omaggi a Miles e a Dizzy, all'Africa e all'India, a Berchidda e al Nord, il programmatico incrocio di culture è risultato davvero furbesco e di grana grossa, mentre non è stato sfruttato adeguatamente l'inserimento del trombettista norvegese Mathias Eick come ospite. Traumatiche infine le "cannonate" di una grancassa elettronica esageratamente amplificata.

A margine è il caso di rilevare che fra le iniziative collaterali spiccava nella ex chiesa della Maddalena la mostra fotografica di Maurizio e Federico Buscarino sulle precedenti edizioni del festival. Il percorso si apriva, a mo' di invito critico, con tre scatti sul pubblico del 1978 al Palazzo dello Sport e altrettanti sugli spettatori del Teatro Donizetti nell'edizione dello scorso anno. Il confronto risultava sconcertante: nel 1978 il pubblico era costituito esclusivamente da giovani, di età fra i venti e i trent'anni, mentre nella platea del 2013, dove pullulavano le chiome grigie o bianche, è raro scorgere persone al di sotto dei quarant'anni.
Non è questa la sede per affrontare un'analisi socio-culturale tesa a spiegare il fenomeno dell'invecchiamento del pubblico del jazz, un trend che si osserva ovunque, non solo in Italia, tuttavia le differenze lampanti fra quelle immagini davano molto da pensare.

Foto
Gianfranco Rota.

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